Capitolo primo
Le critiche all’Occidente,
al liberalismo e al capitalismo
Gli autori presi in considerazione in questo capitolo sono naturalmente frutto di una selezione soggettiva ma, credo, non arbitraria considerata la finalità generale del mio studio e il particolare clima culturale della nostra epoca. Ciò che mi interessa ricostruire di questi autori non è il loro Denkweg complessivo perché ciò richiederebbe uno spazio molto più ampio. Mi preme piuttosto a far luce sulle ragioni della loro critica verso il liberalismo, il capitalismo e l’Occidente e vedere, da un punto di vista teorico e pratico, a quali eventuali aporie o vicoli ciechi si va incontro seguendo le loro argomentazioni.
Il primo gruppo di autori ai quali faccio riferimento appartiene a quell’approccio postmoderno/poststrutturalista sorto in Francia a partire dalla fine degli anni Sessanta del Novecento e che ha influenzato in profondità non solo il dibattito filosofico ma anche quello nell’ambito delle scienze umane e sociali.
Le sollecitazioni provenienti dal dibattito postmoderno/poststrutturalista sono importanti anche per lo sviluppo dei cosiddetti post-colonial studies. Come spiegherò nel secondo paragrafo, i teorici che si muovono all’interno di questo nuovo paradigma interdisciplinare cercano di rilanciare forme di sapere critiche non-occidentali che sfuggano all’imperialismo culturale imposto dalla logica colonialista/imperialista e dal sistema di produzione capitalista guidato dai Paesi del Primo mondo.
Il terzo paragrafo è dedicato, invece, alla Teoria Critica della Scuola di Francoforte che è ancora molto vitale nei suoi esponenti più giovani e che continua a porre critiche puntuali sia al pensiero di matrice liberale che al capitalismo considerato come la principale fonte di “patologie sociali”.
Nell’ultimo paragrafo, prenderò in considerazione una particolare tipologia di critica proveniente dal mondo di sinistra e che si fonda su categorie quali “moltitudini” o “popolo”. Per completezza, farò un riferimento anche ad alcune critiche affini che provengono dall’ambito cristiano-cattolico dove esiste un’anima, in senso lato, corporativista che in talune congiunture storiche riemerge con forza unendosi a vari movimenti antiliberali e anticapitalisti.
Come sarà evidente, questi autori e queste tradizioni teoriche, pur avanzando legittime critiche su alcuni aspetti del capitalismo o della tradizione liberale occidentale, prestano tuttavia il fianco ad alcune obiezioni sul piano descrittivo e normativo: su quello descrittivo perché, come sosterrò, con questo tipo di approcci si rischia di impedire una corretta ermeneutica storica e filosofica degli eventi accaduti negli ultimi quattro/cinque secoli a livello europeo/occidentale e globale; sul piano normativo, invece, non appare chiaro, soprattutto nel caso degli autori postmoderni e/o post-strutturalisti, su quali criteri fondare la critica sociale in modo da evitare una paralisi del pensiero critico-riflessivo.
1. La sfida postmoderna/postrutturalista
Dietro le etichette “postrutturalismo” e “postmoderno” normalmente si includono, tra gli altri, autori come Jean-François Lyotard, Gilles Deleuze, Félix Guattari, Michel Foucault e Jacques Derrida. Al di là delle notevoli differenze tra loro, questi studiosi hanno contribuito a elaborare una sorta di paradigma filosofico o, forse sarebbe meglio dire, post-filosofico finalizzato a una critica radicale della tradizione occidentale. In passato, ci si è riferiti a questa matrice filosofica con l’espressione “il 68 pensiero” per sottolineare lo scambio reciproco tra le elaborazioni teoriche di questi studiosi e il grande movimento di contestazione sviluppatosi alla fine degli anni Sessanta. Da un punto di vista teorico, i quattro assi tematici attorno ai quali ruota il “progetto culturale” del “68 pensiero”sono: la fine della filosofia, la scelta in favore di un metodo critico-genealogico, la critica dell’idea di verità, la storicizzazione delle categorie e il conseguente abbandono del concetto di “universalità”.
L’obbiettivo della critica postmoderna/poststrutturalista nelle sue varie anime diventa quello di sostituire la visione univoca, sistematica e universalista propria della tradizione metafisica sorta in Grecia con una sensibilità attenta al “periferico”, al “marginale”, al “frammento”, a ciò che sarebbe stato “dimenticato” dalla narrazione dominante tipica del mondo occidentale. Le parole chiave del “progetto culturale occidentale” (universalità, scienza, democrazia) sono state profondamente investite da questa modalità critica di pensiero caratterizzato da un mix teorico frutto dell’incrocio fra le idee elaborate da Marx, Nietzsche, Freud e Heidegger. Questo nuovo paradigma teorico ha pertanto contribuito ad alimentare un clima di sfiducia nei confronti della razionalità umana sia nel campo dell’epistemologia che nel campo dell’etica e le sue idee sono state variamente utilizzate dai teorici postcoloniali critici dell’Occidente e del capitalismo liberale, oppure da certi settori del femminismo teorico interessati a denunciare il carattere maschilista e oppressivo della cultura occidentale o, ancora, dai vari critici del sistema democratico-liberale considerato come un sistema iniquo da un punto di vista sociale e politico.
Se si volesse individuare il Leitmotiv di questo paradigma post-filosofico ritengo che L. Ferry e A. Renaut abbiano ragione nell’averne sottolineato la vocazione antiumanista che, nel complesso, accomuna i suoi esponenti. Non potendo, però, affrontare in modo sistematico tutti gli autori e gli snodi concettuali legati a questa corrente, mi limiterò a segnalare alcuni paradossi teorici e pratici nei quali si rischia di incorrere adottando una forma mentis di questo tipo. Per far ciò, ritengo particolarmente utile analizzare gli studi di Michel Foucault sul tema del potere e quelli di Jacques Derrida sulla “decostruzione” come pratica di scrittura e di critica della società.
1.1 Michel Foucault e il problema del potere
Tra gli studiosi oggi più critici nei confronti del paradigma liberale ci sono senza dubbio coloro i quali si ispirano ai lavori di Michel Foucault. L’opinione più diffusa, infatti, è che Foucault sia stato un critico severo del liberalismo e proverò a mostrare che, per quanto questo giudizio vada sfumato riguardo alla sua produzione più matura, in certe occasioni, come nel caso della Rivoluzione Iraniana, tali pregiudizi antiliberali siano emersi in tutta la loro evidenza e ambiguità.
L’opera di Foucault è vastissima e gioca un ruolo di primo piano nel dibattito filosofico-culturale europeo dagli anni Sessanta fino al 1984, quando muore prematuramente. Lavori come Storia della follia, l’Archeologia del sapere, Le parole e le cose, Sorvegliare e punire, Microfisica del potere, Storia della sessualità oltre ai corsi tenuti al Collège de France negli ultimi anni della sua vita costituiscono un punto di riferimento imprescindibile per comprendere gli assi teorici intorno ai quali si snodano diverse correnti del pensiero filosofico dalla seconda metà del Novecento ai nostri giorni. Mi riferisco all’influsso che Foucault ha avuto su certi settori del femminismo teorico (J. Butler, in particolare), sulle teorie post-coloniali (E. Said o V. Mudimbe) e sugli studiosi della biopolitica e della governance (tra i quali emergono oggi i membri della cosiddetta Italian Theory).
Non intendo in questo sede occuparmi della ricostruzione complessiva del pensiero di Foucault. Piuttosto, intendo concentrarmi su alcuni snodi del suo pensiero dagli anni Settanta fino alla morte, mettendo in evidenza alcuni limiti della sua visione del liberalismo (o neoliberalismo) e di alcune tensioni presenti nell’ultimissima fase della sua produzione rispetto agli scritti precedenti.
Detto in modo sommario, ma spero efficace, i temi che egli sviluppa nel periodo indicato sono la nascita della società disciplinare, il rapporto tra specifiche forme di razionalità e istituzioni carcerarie e penali e, last but not least, il nesso verità/potere. L’interesse, sempre più marcato negli anni, per il pensiero di Nietzs...