Lorenzo Donghi
Contaminazione come montaggio
Il cinema, l’opera di Harun Farocki e il caso di Videogramme einer Revolution
1. Una forma del pensiero. Il montaggio cinematografico
A partire dal secolo passato, e in particolare con l’irrompere della stagione delle avanguardie, all’interno delle discipline artistiche si assiste a un preciso fenomeno. L’opera d’arte, nelle sue varie accezioni, perde quei caratteri di unicità e inscindibilità che le avevano conferito a lungo un senso di interna coerenza, assumendo invece i tratti di una struttura composta, articolata organicamente in frammenti, assemblata a partire da una molteplicità di componenti autonome, spesso difformi e disparate. Il linguaggio della contaminazione trionfa così a tutti i livelli, e mentre le arti sperimentano reciproci sconfinamenti – di motivi, codici espressivi, supporti, persino di medium – si impone una prassi operativa che le attraversa in modo obliquo. L’aggregare, il mettere insieme, il con-fondere elementi tra loro originariamente estranei, convocandoli nel compiersi del processo creativo, diventa un tema cruciale del Novecento, se non il suo più ambizioso progetto estetico. Nessuna disciplina può dirsi esonerata: non arte, pittura, fotografia, né a maggior ragione il cinema.
Quest’ultimo, del resto, è caratterizzato da un meccanismo fortemente “contaminante”, ovvero il montaggio: procedimento cruciale per il cinema a livello strettamente tecnico, che tuttavia ha saputo sperimentare soluzioni visive tanto diverse da conferire differenti accezioni all’atto stesso del giustapporre immagini. Ne consegue che se quella del montare si profila come un’operazione tutto sommato afferrabile nella definizione – in fondo, si tratta di selezionare e combinare immagini e suoni secondo diversi criteri di scelta e concatenazione, allo scopo di organizzare il flusso di visione in partizioni riconoscibili e significanti – altri suoi aspetti risultano più complessi da illustrare. Per esempio, sono diversi i gesti pratici del montare, dipendentemente dalle tecnologie in uso (dalla manualità artigianale che manipola il materiale pellicolare attraverso tagli e giunture, fino all’esperienza computazionale del video, o a quella, oggi abituale, legata all’interazione digitale con gli schermi tattili di cui sono dotati i nostri smartphone e tablet). Così come, d’altra parte, sono molteplici le ragioni teoriche per cui si monta.
Va infatti considerato che
il montaggio è un procedimento alla base del linguaggio cinematografico, ma è anche un generale principio creativo, una forma del pensiero, un modo di concepire le immagini e, in un certo senso, anche la loro condizione di esistenza, dato che è impossibile, oggi più che mai, pensare un’immagine al singolare, isolarla dalla rete di rapporti in cui è presa, o anche solo spogliarla degli strati di memoria che la rivestono.
Una definizione sulle cui scorte è possibile formulare almeno due immediate riflessioni. La prima porta, a partire anzitutto dalla modernità, a considerare il montaggio come un bisogno, un’impellenza, una necessità: estetica, certo, ma anzitutto epistemologica. Un’azione, quella del montare immagini, che consente al soggetto di ridisegnare le condizioni di relazionalità con il mondo proprio tramite il raffronto delle sue tracce mediali, intese, appunto e primariamente, alla luce della loro sempre crescente pluralità. Un processo in grado di replicare insomma, e in virtù del funzionamento stesso dell’apparato cinematografico, quel sistema di associazioni, in cui si alternano connessioni e contrasti, che impegna incessantemente il pensiero quando si trova a dover riarticolare l’irriducibile vastità fenomenica dell’esistente.
La seconda considerazione è diretta conseguenza della prima. Difatti, dalla precedente definizione, prende corpo l’idea che il cinema non consideri affatto peregrina l’ipotesi di attribuire al montaggio – e non alla ripresa – il ruolo determinante della rappresentazione filmica, delegando a vari gradi, ma comunque a un tempo posteriore, la responsabilità apicale dell’impresa artistica. Ciò accade, appunto, perché il montaggio è il supplemento di mediazione che con più incisività permette di stabilire un qualche approccio alle immagini, formulando principi di intelligibilità che si dimostrino in grado di condurre e orientare il nostro confronto con esse: con la loro onnipresenza nella nostra quotidianità, con i ruoli che via via si ritagliano nel vivere sociale, con il potente portato memoriale di cui sono accreditate.
Eppure, per quanto stiano così le cose, non si può certo dire che storia del cinema e storia del montaggio facciano registrare un’immediata coincidenza. La leggera sfasatura che le caratterizza, quel ritardo con cui il cinema conclude una fase di laboriosa sperimentazione, durante la quale il montaggio non è ancora il cardine del suo linguaggio visivo, caratterizza infatti lo sviluppo del cosiddetto “cinema primitivo”, in cui le immagini proiettate assumono la funzione di “attrazioni mostrative”. In questa fase aurorale ed esplorativa, in cui è ancora notevole l’influenza di for...