Filosofia del romanticismo polacco
Alla memoria di Stanisław Szczepanowski
Il romanticismo polacco possiede una sua filosofia, in quanto è il risultato – in parte inconsapevole, in parte, nel suo periodo tardo e culminante, pienamente consapevole – di una visione del mondo unitaria e definita, per lo meno nei suoi caratteri generali.
Lo scopo principale di questo lavoro è far emergere ed esporre questa visione del mondo.
Il tipo di pubblicazione al quale è destinato, nonché lo spazio all’interno del quale deve contenersi, mi hanno costretto a certe limitazioni, che del resto ho accettato, e anzi ho anche ritenuto appropriate sotto altri aspetti.
Per questo rinuncerò a tutto l’apparato storico-critico, per concentrare tutta la mia attenzione sull’esposizione dei contenuti di quella che ritengo la visione del mondo dei nostri – per usare un termine ancora corrente – romantici.
Ritengo che ciò sia corretto e giustificato, anche perché questa visione del mondo oggi non viene mai considerata dal punto di vista della verità.
Io credo invece che abbiamo qui realmente una vera e propria rivelazione che il nostro popolo ha conquistato per l’umanità, una rivelazione sull’essenza e sui destini dell’uomo.
Mi rendo conto della responsabilità che mi assumo, scrivendo nell’introduzione a questo lavoro una parola così grande e spaventosa: “verità”.
Non una supposizione, un punto di vista, bensì la verità, una cosa vincolante, unica, una conquista permanente per lo spirito umano che non può andare perduta. Infatti, se si ritirerà, sarà soltanto davanti a un nuovo chiarirsi della verità, che non la sopprime, ma la porta a compimento.
La storia del romanticismo polacco, la storia di tutto il pensiero creativo polacco di quel periodo, specialmente degli anni 1830-1848, è propriamente un graduale maturare e acquisire autocoscienza della verità.
Gli sforzi di persone apparentemente fra loro distanti si completano e si uniscono. Abbiamo a che fare qui con una delle più mirabili manifestazioni di legame spirituale all’interno di un’epoca.
Non sarò qui in grado di fare tutti gli accostamenti che la materia stessa ci aprirà comunque davanti.
Per esempio dovrò lasciare a margine la creazione intellettuale di un personaggio come Hoene-Wroński.
Mickiewicz, Słowacki, Krasiński, Towiański, Cieszkowski, Norwid: questa è, sit venia verbo, la topografia spirituale del territorio qui trattato.
Mi pare che fra questi confini si possa riuscire a racchiudere una sintesi sostanziale dei contenuti intellettuali e spirituali del romanticismo polacco.
Mi rendo conto che ampliare questi confini mi consentirebbe di approfondire più di un punto e di affrontare più di una questione di confine.
Tuttavia in questa sede mi interessa marcare un livello, gettare delle fondamenta. Una sintesi completa del romanticismo polacco, sia dal punto di vista storico-psicologico che da quello filosofico-contenutistico, è un’impresa superiore alle forze di una singola persona.
I. Carattere storico del romanticismo polacco
Il romanticismo polacco non è un riflesso o l’eco di una qualche corrente culturale e letteraria dell’Europa occidentale. Non ho qui né tempo né voglia di confutare le concezioni che fanno discendere le opere d’arte e letterarie dall’influsso di altre opere e costringono la letteratura e la creazione artistica a vivere come un fantasma che attinge i propri contenuti soltanto dai libri. Per quanto riguarda il romanticismo polacco, basta consegnarle al ridicolo. Il romanticismo polacco fu il traboccare del cambiamento, del movimento, della trasformazione che avvennero nell’anima della società polacca all’inizio del secolo scorso. Capire il romanticismo significa capire questo cambiamento, questo movimento e questa trasformazione. Una volta comprese queste radici interiori, psichiche, potremo comprendere perché agli albori del suo svilupparsi il romanticismo polacco si rifaceva a questo o a quel nome famoso in Occidente. Soltanto allora potremo dire che cosa significavano per il nostro romanticismo Byron e Goethe. D’altra parte è sufficiente rendersi conto della varietà di anime e di opere abbracciate dal termine “romanticismo”, per capire quanto siano piatti, muti, gli schemi delle definizioni storico-letterarie che non si confrontino col contenuto spirituale concreto, immediato. Novalis accanto a Gautier, Friedrich Schlegel accanto a Victor Hugo, o il nostro Mickiewicz insieme a de Musset! Del resto il nostro romanticismo dopo il 1831 iniziò a rompere legami superficiali, anche quelli con i fenomeni artistico-letterari della cultura europea contemporanea, scavò sempre più in fondo a se stesso, accrebbe la propria purezza spirituale e la propria maestosità, che esigevano per esso tutt’altre prospettive e chiarificazioni storico-culturali. Più ci si addentra nella sua progressiva evoluzione verso la profondità, più ci si accorge di avere a che fare con un fenomeno che va oltre il suo solo secolo, un fenomeno per così dire più antico e al tempo stesso anche più moderno rispetto alle opere e agli autori occidentali, che possono essere trattati, senza far loro grande torto, sullo sfondo delle loro date di nascita e di morte. Questi nacquero in un mondo ben definito e, nonostante tutto, avallarono la maggior parte dei rapporti esistenti. I nostri poeti, con il proprio spirito, se non con il loro pensiero cosciente, spinsero il loro sguardo negli abissi nei quali svaniscono i secoli, nei quali tutto il presente è qualcosa di transitorio fra il passato e il futuro. E tutta l’Europa storica, che si era formata e sviluppata nel corso di due secoli in una certa maniera caratteristica, divenne per loro questo presente transitorio. Per il ritmo dello spirito nel quale vivevano i nostri romantici, tali periodi storici non erano qualcosa di irreversibile; essi avevano in sé la forza che permetteva loro di credere che l’umanità è in grado di sconfiggere anche questa immensità di lavoro, che l’umanità non si è esaurita, né si è espressa pienamente in questo sforzo titanico. Siamo contemporanei delle persone con le quali portiamo avanti il lavoro dello spirito; per questo il nostro romanticismo è contemporaneo a Sofocle, a Eschilo, ai sapienti della Ionia, a Buddha e a Cristo, piuttosto che a Byron, Novalis, Hoffmann, ecc. Si potrebbe perfino dire che per i nostri romantici Cristo è un fenomeno di ieri, o perfino di oggi, sempre presente. Del resto chi capisce il vero significato di Cristo, capisce che rispetto a Lui o si ha questo tipo di rapporto o non se ne ha nessuno. Il vero cristianesimo è la vita di Cristo nell’umanità, e dunque l’incessante manifestarsi, fiorire, risplendere del suo essenziale contenuto. La vita della Parola nell’umanità è un incessante svelarsi del proprio significato. Se non fosse così, se la Parola fosse solo un contenuto che l’umanità già possiede e definisce, allora l’umanità avrebbe esaurito il proprio compito nell’essere; un ulteriore corso della storia sarebbe inutile, impossibile. Che cos’è la Parola? Rispetto a Dio è il Suo sapere di sé, incessantemente generantesi e infinitamente gioioso. Rispetto all’umanità è il conoscere se stessa in questo sapere. Chi non si conosce nella Parola si conosce nell’oscuro abisso di una creazione non illuminata dalla Parola, si conosce nella potenza divina senza capirla, in quanto non è parte della Parola; si conosce nella predestinazione e nell’Ira divina. Da qui si stabilisce l’unico, assoluto punto di vista delle periodizzazioni storiche: il punto di vista della Parola, la sua vita nell’umanità. La Parola vive nell’umanità prima di Cristo e dopo Cristo, anche se in due maniere diverse. L’umanità prima di Cristo è lo sforzo di capire se stessa in se stessa. L’Egitto comprende il lavoro delle generazioni che passano, ma vede soltanto il loro passare e affida alla morte la vigilanza sulla vita. La morte è la vera educatrice degli Egizi, la loro suprema dominatrice. Li educa per la vita, poiché grazie ad essa cresce tutto ciò che l’Egitto produce; ma l’Egitto questo non lo sa, l’unica cosa che capisce della vita è la morte. L’India capisce la grande forza che vi è nell’autocrazia dell’uomo su se stesso. C’è solo il soffio di atman, l’anima umana. Tutto il resto è solo apparenza. Capisce la forza del vincere sulla vita, ma soltanto attraverso la vittoria sulla fede in essa. La Grecia capisce l’autoaffermazione dell’io umano, è tutta la fioritura della parola “sono”, è il suo farsi solarità. Ma fuori dai confini dell’individuo inizia un abisso oscuro, smisurato. Sono isolani, figli del mare. Sanno che in esso affonderà ogni gioia, ogni fortuna, ogni vita. Sono poeti della costa. Che cos’è la tragedia se non un promontorio a picco sul mare, dal quale non c’è altra fuga se non nelle profondità? E Roma capisce il legame, la coesione, la forza, l’organizzazione. È costruttrice. È tutta quanta Stato, niente più. Infine gli Ebrei, nel corso di tutta la loro storia, sono tutti consapevolezza − concentrata fino al folle terrore − che chi è strumento, arma della Verità, sarà vittorioso. Sono il perenne anelito ad essere l’arma vincente nelle mani di Colui che È. Vivono nella fede che esiste solo la Verità. Ma non la conoscono, anche se ne sentono la minaccia. Sentono qualcosa di grande fuori di loro, che li spinge come il pesante vento del deserto, ma non sanno dire il nome di Colui che li domina, e chi ha visto il Suo volto muore. E tutta la loro storia è una febbre, il delirio di una verità sconosciuta. Sono convinti che finché la vita dell’uomo non si baserà sulla Verità, sarà come un edificio costruito sulla sabbia. Sono dunque un’eterna paura di rendersi infedeli alla verità, disperazione di averla perduta e nostalgia di riaverla. Dobbiamo capire dunque che cos’è la vita di un popolo che per generazioni vive sapendo che esiste solo la Verità, che la propria vita dipende dall’obbedienza ad essa, ma questa verità non la conosce, oppure le sue prescrizioni gli appaiono troppo crudeli. Capiamolo in tutta la tensione della disperazione, del desiderio di felicità, dell’orgoglio, e capiremo che cos’è il popolo ebraico. Rispetto a tutti gli altri popoli dell’antichità è un punto interrogativo.
Quando un uomo ha fatto tutto per la morte, niente per sé, allora ha fatto tutto.
Quando si è sottratto alla forza della vita, alle sue molteplici allucinazioni, quando ha compreso se stesso in se stesso, allora è onnipotente.
Quando ha ricavato tutto da se stesso e si è innalzato fino ad ogni limite con il sapere, la bellezza, la forza, allora il destino decida pure tutto il resto.
Vi è solo lo Stato, la città eterna. Vivi per essa!...