Terenzio Fava
1.
La destra e la sinistra
L’obiettivo di questo capitolo (e di quello successivo) è di far luce sul rapporto tra le nuove generazioni e la politica. E lo si fa prendendo in considerazione una categoria particolare di giovani: gli studenti universitari. Soggetti che rappresentano le forze nuove, la linfa per un paese che deve riprendere a crescere e ad acquisire fiducia nel futuro e, per questo, necessita quanto mai del contributo di coloro i quali, più di altri, dovrebbero costituire il serbatoio della nuova classe dirigente italiana.
In questa prima parte si prendono in considerazione i dati raccolti nel 2016 attraverso la somministrazione di un questionario a circa settecento studenti iscritti alle diverse Scuole dell’Università di Urbino. Il punto da cui si parte riguarda la collocazione nell’asse ideologico sinistra-destra e da qui si cerca di comprendere il modo in cui i giovani (o comunque una parte di essi) percepiscono, leggono e interpretano la politica, la società, nonché i fenomeni e i fatti ad esse connessi.
1. Né destra né sinistra
Quando i giovani intervistati nascono siamo in una fase di passaggio, quella degli anni Novanta, che chiude la Prima repubblica – segnata da un sistema politico per certi versi ingessato, dominato dai grandi partiti di massa, la Democrazia cristiana (Dc) e il Partito comunista (Pci), e da appartenenze politiche forti (oggi svanite) – e ci proietta nella cosiddetta Seconda repubblica – dove i partiti appaiono sempre più de-ideologizzati, leggeri, lontani dal territorio (Diamanti 2009), dalla gente, sempre più personalizzati, legati alla figura del leader (Calise 2007; 2016) e, ormai, incapaci di produrre un senso di appartenenza negli elettori. Il tutto con l’emergere di una diffusa disaffezione e di crescenti sentimenti antipolitici (Mastropaolo 2000) certamente legati alla crisi della Prima repubblica e alla stagione di “Mani pulite” ed alimentati, poi, dall’affermarsi di movimenti e leader populisti. I quali in un clima siffatto – di crisi identitaria, oltre che economica e sociale – prosperano come mai in precedenza e avanzano una visione moralistica della politica, intrisa di connotazioni antielitarie, antiliberiste, antipluraliste (Müller 2016), illiberali (Kriesi, Pappas 2015). Oggi la politica, la sua classe dirigente e i partiti si trovano avvolte/i in un alone di negatività e di stigmatizzazione e appaiono, nel loro essere entità lontane, sempre più mediatizzate e per certi versi virtuali. Non più capaci di accompagnare, seguire, ascoltare gli individui, le persone, lasciati/e soli/e di fronte ad una crescente complessità sociale dove egoismi, rancore e rabbia – verso le èlite che tradiscono e verso l’Altro/diverso che usurpa – si alimentano fino ad incrinare i principi della solidarietà e della vicinanza nel comune vivere. Un mix tra crisi di rappresentanza e marginalizzazione degli inclusi su cui si attivano i populismi (Revelli 2017), intesi, altresì, come lo specchio della fragilità del sistema democratico (Mény, Surel 2004) o, similmente, come il lato critico della democrazia (Dal Lago 2017). Al cittadino-elettore (che, comunque, sviluppa appartenenza, delega, chiede rappresentanza, ha identità e colore) si sostituisce il cittadino-popolo (astratto, informe, plasmabile, indefinibile, indifferenziato, suddito della sua presunta voce sovrana che, inesorabilmente, gli è sottratta, espropriata). è l’affermarsi di un contesto politico (e sociale) dove mutano le fisionomie degli attori (politici e non), lo scenario, lo spartito, le interazioni, le percezioni reciproche e dove anche categorie valoriali come la destra e la sinistra paiono svanire. Con la politica che nel suo tutto sembra mescolarsi, confondersi, contrapporsi, fino a proiettarsi nell’immaginario come uguale, unica, indistinguibile. Tra identità e appartenenze che fatalmente sviliscono, in un gioco a due tra politica e antipolitica. O se si vuole a tre: politica, antipolitica, (non)politica. Perché il populismo, i populismi, “annientano l’arte della politica e del governo, fondata tradizionalmente sui tempi dell’osservazione, della valutazione delle competenze, della riflessione, della mediazione, della deliberazione e poi dell’azione” (Diamanti, Lazar 2018, p. 24).
Ma come vivono i giovani questi cambiamenti? Come percepiscono la politica a fronte di tutto ciò?
Costrutti sociali espressioni del proprio tempo – e dei bisogni e delle dinamiche economiche del tempo stesso (Gillis 1974) – ritagli di un’industria culturale quanto mai totalizzante, fagocitati, bulimici e rumorosi (ma afoni) nel mercato dei consumi, silenti (e anoressici) in quello del lavoro (Dal Lago, Molinari 2001b), figli (forse troppo dipendenti) di ben definite categorie genitoriali che nella traslazione generazionale contribuiscono “paradossalmente” ad orientarli – nella loro condizione di attesa rispetto alla futura collocazione nell’ordine sociale – spostandoli dal conflitto verso la resilienza. Dall’essere (o dal cercare d’essere) cittadini (re)attivi più o meno consapevoli all’essere sudditi più o meno inconsapevoli, che spesso si assestano inermi, quanto mai lontani dai richiami politici, militanti, controculturali degli anni Settanta. Sbiadendo i colori passati in mezze tinte che li portano ad essere invisibili (Diamanti 1999), tristi (Lello 2015a), avulsi dal tempo e dalla scena pubblica. Leggeri, subordinati, interinali (come il loro futuro lavorativo). Periferici. Privatizzati (Dal Lago, Molinari 2001b).
Certamente si tratta di cambiamenti che influenzano, determinano, definiscono, modellano. L’immagine della politica, la sua percezione, l’interazione con essa, passa attraverso l’interiorizzazione e l’oggettivazione di assunti e modalità carichi/e di frustrazione, rabbia, risentimento. Con un imbarbarimento del linguaggio che lacera l’involucro delle buone maniere (Revelli 2017, p. 7) e apre al “demagogico”, allo “scorretto”, all’“aggressivo”, nello scontro con ciò che è casta, èlite, e con ciò che non è popolo o è, comunque, Altro; l’immigrato, il clandestino, il marginale, il diverso. Il linguaggio del Populus (interno al concetto di cittadinanza) negato, escluso, che schiuma rabbia verso l’alto, ma altresì, con pari forza e (certo) minor purezza, anche verso il basso atterrito dal precipizio mobile della Plebs (esterna al concetto di cittadinanza) che lo incalza.
è l’immagine costruita di una politica fatta di un’èlite moralmente inferiore che, citando ancora Revelli, si scontra con una moltitudine liquida che esce dai tradizionali contenitori (i partiti in primis) e trova nell’antipolitica la sua denuncia e nel populismo la sua voce, il suo nuovo contenitore. E, nel richiamo antipolitico e populista, la stessa idea di destra e di sinistra rimanda alle èlite moralmente corrotte, e va, pertanto, negata. Rifiutata. Rimossa.
La politica è, dunque, socializzata e vissuta dalle nuove generazioni in modo sicuramente diverso rispetto a quella dei genitori o, comunque, a quelle precedenti. Con distacco e disimpegno da un lato, con rigetto dall’altro, abbracciando (allo stesso modo di altre fasce della popolazione) anche la logica della disintermediazione (Corbetta 2017b), della rappresentanza diretta senza mediazione alcuna (Urbinati 2015, 2016), insita nella semplicistica proposta populista (Dahrendorf 2003; Rosanvallon 2011; Diamanti, Lazar 2018),...