Prologo
Il pensiero aurorale
Umberto Galimberti
Chi anche solo in una certa misura è giunto alla libertà della ragione, non può poi sentirsi sulla terra nient’altro che un viandante, non un viaggiatore diretto a una meta finale […] Quando silenziosamente, nell’equilibrio dell’anima mattinale, egli passeggerà sotto gli alberi, gli cadranno intorno dalle cime e dai recessi del fogliame solo cose buone e chiare, i doni di tutti quegli spiriti liberi che abitano sul monte, nel bosco e nella solitudine e che, simili a lui, nella loro maniera ora gioiosa e ora meditabonda sono viandanti e filosofi.
Nati dai misteri del mattino, essi meditano come mai il giorno, fra il decimo e il dodicesimo rintocco di campana, possa avere un volto così puro, così luminoso, così trasfiguratamente sereno: essi cercano la filosofia del mattino.
F. Nietzsche, Umano, troppo umano I (1878-1880), § 638.
Nell’attuale povertà del mondo, questo è necessario: meno filosofia e più attenzione al pensiero; meno letteratura e più cura nella lettura delle parole. [...] Il pensiero, infatti, col suo dire, questo solo fa: porta al linguaggio la parola inespressa dell’essere. Ed è per questo che il linguaggio è insieme la casa dell’essere e la dimora dell’essenza dell’uomo. [...] Il pensiero, allora, dovrà scendere nella povertà della sua essenza provvisoria e raccogliere il linguaggio nel dire semplice. Il linguaggio è così il linguaggio dell’essere come le nuvole sono le nuvole del cielo. Con il suo dire, il pensiero traccia nel linguaggio solchi poco vistosi. Essi sono ancora meno vistosi dei solchi che il contadino, a passi lenti, traccia nella campagna.
M. Heidegger, Lettera sull’“umanismo” (1946), pp. 314-315.
Sta forse giungendo a compimento il senso espresso da più di duemila anni dalla nostra cultura che, come dice il nome, è “occidentale”, cioè “serale”, avviata a un “tramonto”, a una “fine”. L’evento occidentale è sempre stato presso la sua fine, ma solo ora, con Nietzsche, e poi con Heidegger e Jaspers, incomincia a prenderne coscienza. Ma che cosa davvero finisce proprio oggi quando sembra che tutto il mondo insegua senza esitazione la via occidentale, fino ad annullare la specificità che finora ha reso riconoscibile l’Occidente e soprattutto la sua distanza dall’Oriente? Finisce la fiducia che l’Occidente ha riposto nella sua via, perché, dopo averla percorsa, ne ha avvertito l’essenza nichilistica che fin dall’inizio l’animava.
Nichilismo significa che l’essere è niente, o è pensato e trattato come se fosse niente. Lo stesso disinteresse che oggi l’uomo occidentale rivela nei confronti del problema del senso dell’essere, rispetto per esempio al problema dei valori, della vita, del mondo, della storia, di Dio, dimostra che continua non a misurare, ma a essere misurato dal nichilismo, ossia dalla persuasione che l’essere in sé è niente, perché è qualcosa solo nell’ente che vale, che vive, che è utile, che diviene, che è causa di altri enti o di tutti gli enti. Ebbene, scrive Heidegger:
Nella dimenticanza dell’essere promuovere solo l’ente; questo è nichilismo.
Il nichilismo quindi non annulla l’essere, ma considera l’essere come un nulla perché considera l’ente come il tutto. Questa considerazione, che Heidegger chiama ontica (in contrapposizione a ontologica) e Jaspers ontologica (in contrapposizione a periecontologica), ha deciso il modo di pensare e di fare civiltà dell’Occidente. Se il nichilismo non è la negazione dell’essere, ma la sua dimenticanza, anche la storia che avviene nella più grande indifferenza nei confronti dell’essere è storia dell’essere, è storia della sua assenza, del suo starsene nascosto, custodito in quel nascondimento (léte) di cui la verità è manifestazione (a-létheia). La nonverità accoglie quindi l’Occidente e le opere a cui l’Occidente s’è affidato, dopo averle “poste in essere” lontano dall’“essere”.
La dimenticanza dell’essere ha determinato la dominazione dell’ente. L’ente è grazie all’essere, ma là dove l’essere è obliato si rende necessaria la ricerca di un Ente superiore in grado di garantire la dominazione dell’ente sul nulla. Nasce il Superente (Dio) che fonda, causa, e si fa garante dell’essere della totalità degli enti (mondo). L’idea di Dio è il primo grande evento che caratterizza la storia dell’oblio dell’essere. A generarla è il bisogno di sicurezza, è la volontà indiscussa dell’uomo che, nell’oblio dell’essere, va alla ricerca affannosa di un Ente superiore capace di assicurare l’essere dell’ente, in assenza dell’essere! La proclamazione nietzscheana della morte di Dio è la denuncia dell’impossibilità di un simile tentativo, che ha le sue remote origini nell’idea platonica di Bene (Agathón) che nel mondo iperuranico presiede la gerarchia delle idee.
Il significato del termine “Bene” non è da affidare a un contesto morale, ma a un contesto metafisico, volto alla ricerca della causa prima da cui ogni cosa dipende. «To agatón significa in greco ciò che è atto (taugt) a qualcosa e che rende atto (tauglich) a qualcosa». Se dunque agathón significa “ciò che è buono a”, l’idea del Bene si riferisce a “ciò che è buono a” far essere e a far apparire ogni cosa. Il Bene è Bene in quanto causa, il suo valore (bonum) consiste nell’essere causa di tutto ciò che è.
L’introduzione del rapporto causale muta la prospettiva ontologica, nel senso che nel pensiero aurorale, o, come lo chiama Jaspers, nel periodo assiale dell’umanità, l’essere era inteso come lo stesso presentarsi degli enti, come il loro incondizionato accadere e il loro presentarsi nell’accadimento, ora invece l’essere è inteso come un ente, l’Ente supremo, il cui valore (bonum) consiste nel causare gli enti, che “sono”, finché l’azione causante li mantiene e li conserva. La filosofia successiva si limiterà a discutere il carattere di “necessità” (come prevede il concetto di “emanazione” di Plotino) o di “libertà” (come prevede il concetto di “creazione” di Tommaso d’Aquino) che caratterizza quel processo causale che afferma la dipendenza degli enti da un Ente supremo, senza più ripercorrere il significato originario dell’essere come libero accadere dell’ente. Questo significato, obliato, si assenterà nel corso del pensiero occidentale, rendendo così possibile la dominazione metafisica dell’ente.
A questo punto le metafisiche che nascono dall’oblio dell’essere, per quanto trattenute dal giogo dell’idea suprema, non possono evitare l’esito nichilistico, perché, nella dimenticanza dell’essere, anche l’idea suprema non è in grado di giustificare la sua superiorità che la “rende buona a” (agathón) far essere e non essere tutte le cose. L’impostazione ontologica di Platone non subisce sostanziali modifiche in Aristotele. La sua metafisica si presenta infatti come lo studio dell’ente in quanto ente (ón ê ón), ossia dell’ente nella sua entità, da intendersi come determinazione dei caratteri generali dell’ente e come determinazione dell’Ente supremo. Nascono l’ontologia e la teologia. L’una e l’altra non sporgono dal piano ontico e quindi sottintendono l’oblio dell’essere.
Con l’assentarsi dell’essere dallo sfondo della metafisica occidentale si assiste anche all’assentarsi della verità come “alétheia”, come “manifestazione” di quella presenza. Al suo posto si afferma la verità come orthóthes, come “esatta corrispondenza” tra il vedere (ideîn) e ciò che è visto (eîdon). Anche la verità cade quindi sotto il giogo dell’idea che, a questo punto, diventa misura della verità dell’ideîn. Con l’adeguarsi dell’ideîn all’idéa si stabilisce una concordanza tra conoscente e conosciuto che Aristotele chiamerà homoíosis e Tommaso d’Aquino adaequatio. Con questo passaggio la verità, da proprietà dell’essere, diventa proprietà dell’uomo, in quanto non è più l’originario manifestarsi (alétheia) dell’essere, ma il corretto rapportarsi (orthótes) dell’uomo all’ente, ossia l’esattezza del vedere e del giudicare umano. Sotto il giogo dell’idea platonica, accanto alla metafisica degli enti, incomincia a delinearsi anche l’umanismo, ossia quella centralità antropologica che troverà la sua massima espressione nell’Ego cogito, inaugurato da Cartesio, che caratterizza il soggettivismo moderno....