Storia del libro e della lettura
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Dalle origini ad Aldo Manuzio

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Storia del libro e della lettura

Dalle origini ad Aldo Manuzio

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Nel lungo tratto di tempo che dall'apparizione in Egitto dei primi rotoli di papiro si spinge fino alla produzione dei libri a stampa nel XV secolo, la lettura ha conosciuto in Occidente una delle sue svolte principali nel diverso modo di accostarsi ai testi introdotto dal cristianesimo rispetto all'antichità tra quarto e quinto secolo. Le Confessioni di sant'Agostino ne costituiscono la chiave di volta. Nel tratto di strada percorso da questo primo volume – dal terzo millennio avanti Cristo ai primi del Cinquecento – si dipana la lunga storia del libro, visto come specchio della mente e strumento di lettura, cioè di dialogo tra gli uomini. Un manufatto che nel corso del tempo, pur mantenendo la sua identità dialogica, ha conosciuto molte metamorfosi nella configurazione testuale e nell'abito esterno: dalla forma di rotolo a quella di codice; dal papiro alla pergamena e dalla pergamena alla carta; dalla scrittura manuale a quella stampata. è in seguito approdato al libro industriale del XIX secolo e al libro elettronico di questi ultimi decenni, con forme testuali e modalità di lettura affatto nuove.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788857559247
Argomento
Storia

I.
Il libro nell’antichità: il rotolo di papiro dall’Egitto a Roma

Dalla parola orale alla parola scritta
Platone nell’ultima parte del dialogo intitolato Fedro illustra la sua dottrina sul discorso, tratta cioè di come la dialettica, la scienza che conduce alla verità, sia superiore alla retorica, che invece mira, semplicemente, a persuadere l’interlocutore: la dialettica è insomma per lui il cammino che percorre l’intelligenza per andare dalla molteplicità delle cose all’unità della verità presente in ciascuno di noi, per poi ridiscendere a illuminare di quella stessa luce i molteplici aspetti della realtà. Socrate, in questo dialogo, dopo aver mostrato al suo giovane interlocutore, Fedro appunto, l’arte dei discorsi, gli propone di affrontare il tema, strettamente connesso, dell’opportunità o meno della scrittura. Per far questo introduce l’antica leggenda che attribuisce al dio Thoth l’invenzione delle lettere dell’alfabeto. Il dio Thoth per diffondere la sua scoperta si era presentato al re Thamus, che dalla grande città di Tebe dominava sull’intero Egitto. «Questa scienza, o re, renderà gli Egiziani più sapienti e più pronti a ricordare, perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e per la memoria». Il re Thamus non si mostrò altrettanto entusiasta: una cosa era, a suo avviso, la capacità di inventare una nuova arte; altra cosa, invece, era la capacità di discernere quanto di utile o di dannoso la nuova invenzione arrecasse agli uomini e perciò rispose: «Ora tu per benevolenza verso l’alfabeto di cui sei inventore, affermi il contrario di quello che in realtà produce. Poiché esso, per il venire meno dell’esercizio della memoria, genererà oblio nell’anima di coloro che lo avranno appreso, in quanto, fidandosi dello scritto, richiameranno alla mente le cose non più dall’interno di se stessi, ma da fuori, per mezzo di segni estranei: ciò che tu hai trovato è la medicina non della memoria ma del richiamare alla mente». Non sarà, cioè, un potenziamento della propria e personale facoltà di comprendere, ma una semplice registrazione di segni e di sollecitazioni provenienti dall’esterno. Il re tebano osservò poi che, in questo modo, il dio Thoth non avrebbe offerto ai suoi discepoli la vera sapienza (che procede dall’interno dell’uomo) ma solo l’apparenza di essa, perché «potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si riterranno dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; sarà una sofferenza discorrere con loro, imbottiti di opinioni invece che sapienti».
Socrate, dopo aver in tal modo convinto Fedro delle buone ragioni che aveva il re tebano a porre l’accento sulle negative conseguenze che l’introduzione dell’alfabeto avrebbe avuto sulla vita intellettuale degli uomini, ne fornisce la motivazione profonda. La scrittura non può, in alcun modo, portare alla sapienza; essa è come una pittura, sembra vera ma, interrogata, resta in dignitoso silenzio: le parole scritte permangono sempre identiche a se stesse, senza alcuna possibilità di ricerca interiore e di dialogo e nella migliore delle ipotesi non possono fare altro che rinfrescare la memoria a chi già sa quanto esse contengono. Inoltre il discorso, una volta messo per iscritto, arriva, indistintamente, alle mani di tutti senza poter scegliere le persone cui rivolgersi e il modo ad esse più adatto, e senza la possibilità, se attaccato, di difendersi o di aiutarsi di fronte ad eventuali obiezioni: resta a metà, privo del suo naturale svolgimento, senza poter stabilire un normale ed equilibrato rapporto dialettico. Il discorso scritto appare insomma come una specie di figlio bastardo, nient’altro che un’immagine del fratello legittimo, il discorso diretto, senza mediazioni, animato e vivo. Quest’ultimo, come il seme gettato nel terreno adatto, non è scritto, dice Socrate, «nell’acqua nera», vale a dire per mezzo dell’inchiostro, labile e inconsistente come l’acqua, né è seminato «dal calamo, con parole che non sono capaci di parlare a propria difesa né sono in grado di insegnare in modo adeguato la verità», ma è scritto direttamente nell’anima del discente. In altre parole qui Socrate, cioè Platone, contrappone alla neutra fissità del testo scritto la vivacità e la fertilità del discorso orale, che trova la sua espressione più alta nel dialogo interattivo tra il maestro e il discepolo, in cui le parole «non sono sterili ma, poiché racchiudono in sé un germe da cui nuove parole germogliano in altre persone, sono capaci di rendere questo seme immortale, facendo felice, per quanto è possibile agli uomini, chi lo possiede».
Questo celeberrimo passo del Fedro di Platone è la prima testimonianza della paura e dei timori suscitati, in ogni tempo, all’apparire di nuove tecnologie della comunicazione, destinate a portare all’esterno funzioni e attività primarie, come il parlare o l’ascoltare, col rischio di veder rescisso il legame che le univa, direttamente, alla mente stessa dell’uomo. Platone, prima ancora che un’assoluta condanna della scrittura, come comunemente viene interpretato il passo, contro la pura apparenza del sapere intende riaffermare con forza la presenza vigile e attiva dell’intelligenza, nonché la mutua sollecitazione interpersonale nell’itinerario dialettico che porta alla verità. In questo cammino lo spazio concesso alla scrittura e alla lettura è quasi nullo: è lasciato loro non tanto il compito di scoprire nuove verità, quanto piutosto quello di veicolare quanto è gia noto, poiché la scintilla, creatrice di nuove verità, si accende solo nei recessi più intimi dello spirito, e nasce dal dialogo personale, dal colloquio tra maestro e discente.
Nel Filebo Platone, in altro contesto, presenta positivamente la scoperta delle lettere dell’alfabeto come scomposizione dei diversi suoni della voce in elementi semplici, le vocali e le consonanti, ricomposti poi in unità nell’arte della grammatica. Nel Fedro riconosce al discorso scritto il compito e forse anche il merito di veicolare il pensiero ormai formato: gli nega insomma la capacità di stabilire tra autore e lettore una relazione sufficientemente profonda e interattiva in grado di generare nuove idee e nuovi saperi. La parola scritta, come un seme sterile, è incapace di ascoltare la voce del lettore e di rispondere senza la presenza, scrive Platone, di un padre che le venga in aiuto. La forza creativa è riservata alla relazione dialettica e diretta tra le persone, cui la scrittura può prestare, a sua volta, un piccolo aiuto nel ricordare e guarda sempre al passato, priva com’è di slanci verso il futuro: nient’altro, infatti la scrittura non è farmaco della memoria, ma del richiamare alla memoria le cose già apprese per altra via.
Platone scriveva nella Grecia della prima metà del secolo IV avanti Cristo, quando la scrittura, ormai affrancata dalle antiche ascendenze sumeriche ed egiziane e grazie alle innovazioni dei Fenici, stava trasformandosi col trascorrere del tempo in un docile strumento nelle mille evenienze della vita cittadina: la sua diffusione faceva apparire meno essenziali le tecniche mnemoniche con cui oratori e contabili, poeti e mercanti avevano preso dimestichezza fin dalla fanciullezza. La registrazione scritta poteva occupare il posto della memoria, anche se poi nei teatri e nelle piazze, nei templi e nelle assemblee, nei tribunali e nelle scuole, era di nuovo la voce ad animare la comunicazione rivolta direttamente ai cittadini e ai clienti, agli spettatori e agli allievi: la vita associata rimaneva sempre ancorata, nelle sue relazioni fondamentali, alla parola e all’ascolto. In questo contesto Platone non faceva altro che mantenere la scrittura e i libri entro i confini loro abitualmente concessi: come nel teatro non invadevano la scena e rimanevano rispettosamente dietro le quinte, lasciando alla viva voce e all’azione degli attori la comunicazione con gli spettatori, a maggior ragione, nella ricerca filosofica della verità, non dovevano varcare la soglia dello spirito, oltre il quale si attuava il prodigio della creazione di nuovi saperi, non contaminati neppure dalla molteplicità degli elementi in cui le lettere dell’alfabeto avevano scomposto la voce. Di questa primigenia azione creativa la scrittura registrava poi lo svolgimento, restituendone sulla pagina un’immagine fissata una volta per sempre, continuando a svolgere una semplice funzione mnemonica, simile a quella delle rappresentazioni pittoriche, che sembrano vive ma restano irrimediabilmente mute.
Nell’età che tenne subito dietro a quella di Platone, nel volgere di meno di una generazione, la scrittura si sarebbe completamente scrollata di dosso il ruolo ancillare tenuto fin dalle origini nei confronti della comunicazione orale: i poemi, i drammi, le orazioni, le storie, le dissertazioni, i trattati e i racconti erano ormai scritti e letti non come supporto alla memoria ma per se stessi, quali strumenti del comunicare. Più tardi, in età ellenistica, all’interno di una cultura che cominciava a riflettere sempre più sulle proprie origini e sul proprio svolgimento, il testo scritto appariva, ormai, il mezzo indispensabile e privilegiato in grado non solo di essere al servizio del dialogo coi contemporanei, nell’agorà, nelle scuole o nei teatri, ma capace anche di mettere in comunicazione il lettore con gli assenti, consentendo loro di ascoltare, per così dire, la voce degli uomini del passato e, di parlare, in modo non semplicemente metaforico, alle generazioni future.
Nella Grecia della seconda metà del secolo IV avanti Cristo, ma soprattutto a partire dal secolo seguente, anche grazie allo sviluppo delle scuole venne riconosciuta piena efficacia comunicativa alla relazione stabilita dalla scrittura e dalla lettura tra l’autore di un’opera e il suo pubblico, senza bisogno di altre mediazioni o interventi: era ormai nata quella che, a tutti gli effetti, possiamo chiamare società della lettura, in cui il libro costituiva lo strumento principe del comunicare. Dalla struttura interlocutoria degli scritti di Platone si era ormai passati alla forma trattatistica delle monumentali opere di Aristotele, che riflettevano pienamente il pensiero del loro autore senza finzioni dialogiche, scritte non solo per rinfrescare la memoria, ma per inserirsi a pieno titolo nel dibattito filosofico e culturale, pronte a contribuire, direttamente e senza alcuna mediazione, alla creazione di nuove idee e di nuovo sapere, non solo qui e ora nel colloquio tra persone fisicamente presenti, ma in terre e in paesi lontani nel tempo e nello spazio, dovunque un lettore avesse aperto il libro, ne avesse interpretato la scrittura e si fosse messo, nel silenzio, a colloquiare con l’autore.
L’avventura della scrittura, approdata nella Grecia del IV secolo a.C. a così alti sviluppi, era iniziata alcuni millenni prima presso le popolazioni che abitavano la Mesopotamia, dove i primi segni, non ancora alfabetici, indicanti una parola o al massimo una sillaba, furono trasformati nei segni cuneiformi dai Sumeri, adattati poi alle diverse lingue dei popoli che si succedettero lungo i secoli nelle terre che dai due grandi fiumi, dal Tigri e dall’Eufrate, giungevano fino alle montagne dell’Ararat e a ridosso del Mediterraneo.
Dal terzo millennio avanti Cristo nella valle del Nilo fece la sua apparizione la scrittura geroglifica, per dono, narrano le leggende cui attinge anche Platone, del dio Thoth: accanto ai geroglifici comparve quasi contemporaneamente anche la scrittura ieratica, quale forma corrente per testi religiosi, per componimenti letterari, per atti amministrativi, per la corrispondenza e per mille altri usi. In seguito si fece strada anche la scrittura demotica, servita all’inizio specialmente per l’amministrazione e i commerci ed ancora adoperata in età romana. Queste scritture erano impiegate principalmente per scrivere, con inchiostro e pennello, su fogli di papiro, che incollati uno accanto all’altro formavano una lunga striscia, la quale, avvolta su se stessa, costituivano il rotolo. Era la prima forma assunta dal libro, il nuovo e leggero supporto della scrittura, scoperto dagli egiziani e rimasto in uso fino all’età romana, quando assunse la forma attuale nel codice manoscritto e poi nel libro a stampa.
Comunicare con la parola e con la scrittura
Non è mai esistita, credo, un’età in cui gli uomini non abbiano comunicato tra loro: pensare e comunicare – ci ha appena insegnato Platone – sono le due facce della medesima medaglia. Ancora oggi, come migliaia d’anni fa, l’interiorità si manifesta all’esterno in mille modi, grazie all’infinita gamma di espressioni che possono assumere le diverse parti e le fibre stesse del corpo umano. Si può affermare che l’intera configurazione fisica dell’uomo, quanto insomma appare all’esterno, sia un’enorme, quasi divina, macchina di comunicazione coi propri simili e con l’intero creato: dal primo sguardo o dal primo tenue sfiorarsi di Adamo ed Eva (o di chi per loro) si è accesa una scintilla che perdura tuttora e resterà attiva fino a che avrà respiro, come dice il poeta, «questa bella d’erbe famiglia e d’animali».
Col trascorrere dei secoli e dei millenni, tra le infinite forme di comunicazione, dalle espressioni del volto ai cenni del capo, dalle grida di giubilo o di dolore alla gesticolazione delle mani, vi fu una lenta e progressiva selezione e specificazione funzionale che portò a privilegiare i suoni della voce, ordinati e distribuiti nell’articolazione delle parole. Tanto che comunicare divenne, tout court, sinonimo di parlare: ogni altra forma di comunicazione non verbale, per quanto chiara e significativa, ne costituiva, ormai, un semplice corredo, utile a sottolinearne, a enfatizzarne, a sminuirne o a chiosarne in qualche modo il contenuto.
I processi di incivilimento comportarono ovunque lo sviluppo e il prevalere del linguaggio, divenuto ben presto talmente diffuso e avvolgente da stabilire una sorta di centralità della voce e dell’udito nelle relazioni interpersonali; la vita quotidiana continuava tuttavia a trascorrere immersa in un continuo susseguirsi di luci, di ombre e di colori che sollecitavano, in sommo grado, la fantasia, la sensibilità e lo stesso spirito umano: la vista manteneva pertanto un suo primato nel far conoscere e nel far percepire più vicino e amico il mondo circostante, e nel rapportarsi ad esso. Nasceva così una selva di immagini e di segni che popolavano la mente umana non meno della natura da cui erano tratti. A questo comune universo mentale di figure e di simboli l’uomo fece ben presto ricorso per comunicare, riproducendoli in forme sempre più stilizzate e convenzionali sulle pareti delle caverne, delle case, delle tombe, dei palazzi e dei monumenti: come dal comune riconoscimento dei significati delle parole era nata la comunicazione orale, dal comune riconoscimento dei significati di queste forme grafiche, sempre più astratte, ebbe origine, a distanza di millenni, in paesi e continenti lontanissimi e presso popolazioni diversissime per cultura e tradizioni, la scrittura. Per la prima volta gli uomini per comunicare non ricorrevano alle opportunità offerte dal proprio corpo, ai gesti delle mani, alle espressioni del volto o alla flessione della voce, ma all’uso di strumenti, per lasciare traccia di pensieri o sentimenti su supporti fisici esterni, sulla pietra e sull’argilla, materiali duraturi nel tempo, ben oltre la loro breve esistenza: a differenza della parola, sviluppo naturale di una facoltà umana, la scrittura era l’invenzione di un nuovo strumento, di un artificio che portò all’apparizione della prima tecnologia del comunicare.
La scrittura nella sua lunga storia e presso i popoli dai quali era stata adottata andò incontro, come ogni invenzione, a innovazioni e trasformazioni sempre più sorprendenti ed efficaci: in alcuni paesi i due sistemi principali di comunicazione, quello orale e quello grafico, andarono incontro a interferenze e a contaminazioni che ne favorirono l’evoluzione verso nuove forme. Ne abbiamo un esempio nell’area mediterranea e nel vicino Oriente. Le scritture antiche, partite dall’immagine delle cose, collegando la forma della comunicazione scritta a quella orale si sono lentamente evolute fino a significare, in molti casi, non più la cosa raffigurata ma l’articolazione della voce nella pronuncia dei loro nomi; procedendo su questo versante i segni passarono a rappresentare non più le parole ma la loro scomposizione sillabica e poi le stesse lettere dell’alfabeto: con l’invenzione greca delle vocali il parallelismo, o meglio l’adeguamento della scrittura alla voce era ormai pienamente compiuto. Una ragione in più, forse, per essere considerata, come fece Platone, ancella della parola. L’evoluzione della scrittura, però, non era ancora del tutto compiuta; i segni di interpunzione, già presenti fin dall’antichità avrebbero conosciuto una forte evoluzione nei secoli a venire, destinati, come erano, a portare sulla pagina i silenzi e le intonazioni stesse della voce, rendendo il testo scritto, pur in questa completa imitazione del linguaggio orale, paradossalmente più autonomo, in grado cioè di comunicare senza dover ricorrere in alcun modo all’ausilio della voce, lasciandosi semplicemente leggere, in silenzio, solo con gli occhi.
La voce si trasmetteva nell’aria e viveva lo spazio di un respiro, il tempo appena sufficiente per essere raccolta prima di essere riassorbita dal silenzio; la scrittura, invece, lasciava una traccia duratura, preparata in alcuni casi a sfidare il tempo e a riemergere dopo millenni dalla sabbia del deserto o dal buio delle tombe per raccontare antiche leggende o celebrare imprese di eroi, ma anche per gettare un tenue raggio di luce su spaccati di vita quotidiana, dagli affetti familiari alla lista della spesa: questo ci testimoniano i graffiti delle pareti, le impronte sull’argilla e le incisioni dei monumenti antichi.
La leggerezza costituisce uno degli elementi più caratterizzanti in qualsiasi forma di comunicazione: nulla è più leggero dell’aria, il supporto della voce. Anche la scrittura ha intrapreso il suo cammino verso la leggerezza e ha trovato il suo approdo fondamentale quando gli Egiziani hanno cominciato a scrivere non su pietra o su argilla ma su fogli fabbricati con sottili strisce di papiro, una pianta che cresceva in gran quantità negli acquitrini a ridosso del Nilo. Questi fogli, incollati insieme uno di fianco all’altro, davano origine ad una lunga striscia che, oltre ad accogliere una gran quantità di testo, poteva essere facilmente arrotolata su se stessa, conservata e trasportata: era così nato il libro, la seconda grande invenzione, dopo la scrittura, nel campo della comunicazione. Il libro avrebbe scritto, si fa per dire, pagine importantissime nella storia delle relazioni fra gli uomini, contribuendo efficacemente alla loro crescita morale e intellettuale, ed accompagnandoli, quale amico e testimone, per tutta l’età antica e nei secoli che seguirono fino ad oggi, e, si pensa, anche in futuro.
Il libro di papiro in forma di rotolo
Circa cinquemila anni fa, in Egitto faceva la prima comparsa il foglio di papiro, quale supporto per la scrittura. L’invenzione consisteva, fondamentalmente, nella fabbricazione di un foglio artificiale, di dimensioni e consistenza stabilite, a partire dalla sovrapposizione, dall’intreccio e dalla collatura di elementi vegetali ricuperati dal fusto delle piante di papiro. Gli Egiziani non si erano accontentati dei supporti già presenti in natura, ma ne avevano costruito uno più adatto alle esigenze scrittorie. A tramandarci la descrizione, non sempre chiara, di come avveniva la produzione dei fogli di papiro è, come al solito, la Naturalis historia di Plinio il Vecchio nella Roma del I secolo dopo Cristo, a circa tre mila anni dalla sua prima comparsa. La carta di papiro che, sulle rotte commerciali, giungeva dalle rive del Nilo in tutti i porti del Mediterraneo e nelle terre del vicino Oriente, aveva assistito alla nascita e al declino dei grandi imperi orientali, alla fioritura e alla diffusione della rigogliosa cultura greca, nonché ai trionfi della potenza di Roma; essa, secondo Plinio, aveva contribuito alla crescita civile dell’umanità lungo tutto questo volgere di secoli, o almeno ne aveva tramandata la memoria tra i posteri.
I fusti delle pi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione
  6. 1. Il libro nell’antichità: il rotolo di papiro dall’Egitto a Roma
  7. 2. Il Codice di pergamena tra antichità classica e prima età cristiana
  8. 3. L’eredità romana e i mille rivoli da cui, lentamente, nasce l’Europa
  9. 4. Il libro nell’Europa cristiana d’Occidente
  10. 5. Il trionfo dei codici: l’età delle università e delle scuole
  11. 6. Il trionfo dei codici: l’età dell’Umanesimo
  12. 7. Johann Gutenberg
  13. 8. La stampa in Europa da Gutenberg ad Aldo Manuzio
  14. Apparato bibliografico