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Presenza opaca, presenza intima

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Presenza opaca, presenza intima

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Nel suo personale itinerario speculativo François Jullien alterna testi più lunghi e articolati a saggi brevi, intensi, privi di note e adatti anche a un pubblico di non specialisti in materia sinologica o filosofica. In questo scritto breve tocca la questione della presenza e della "vita a due", e del rischio che la presenza si assopisca e si banalizzi. Senza concentrarsi solo su un soggettivismo psicologico, Jullien rintraccia e inscrive quella faglia o cedimento all'interno dell'Essere stesso: la caduta nella monotonia di una presenza disattivata, smorzata, inerte non rappresenta semplicemente un rischio del soggetto; sprofondare nell'inerzia è una possibilità ontologica, è strutturale all'Essere. L'Altro assume allora un rilievo cruciale, perché è colui, o colei, che può riattivare la presenza e mantenerla viva – a patto di saperla accogliere, custodire e incentivare.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788857549620

VII
NELLA TENSIONE DEL TRA (FENOMENOLOGIA DELLA PRESENZA INTIMA)

Che cosa passa [passe], che cosa accade [se passe] quando apro la porta ed entra Lei? Che cosa «succede» una volta che lei ha detto la «parola d’ordine», certo con il suo sorriso (il «Buongiorno!», peraltro così banale), varcando la soglia, e ha cominciato a entrare in questo spazio con gesti così comuni, posando la borsa sulla poltrona e togliendosi il soprabito? Una volta che si è svolto questo turbinio intempestivo che inscrive l’intrusione in una dimensione convenzionale? Che cosa si produce quando la vedo venire lungo la strada e all’improvviso mi riconosce? Definirei questo fenomeno della presenza come la messa in tensione che ad un tratto vivo in quanto soggetto (tramite lei mi riscopro «soggetto») e che giustamente non dipende più allora solo da me, ma anche dall’Altro, che rompe la mia autonomia di soggetto: mi sento «traboccare». Questo mettersi in presenza dell’Altro è tutt’altra cosa di un mettersi in presenza dell’«essere»: quando mi trovo davanti alle «cose», che si dispongono piatte davanti a me, esse mi possono piacere, mi possono anche rapire o al contrario farmi paura od orrore, possono toccarmi o sconquassarmi, tuttavia sono sempre io a rimanere la fonte di ciò che provo, come «autore» di quella commozione e di quei sentimenti, anche se quel che provo mi rende passivo e dipendente. A dire il vero accade lo stesso quando sono in presenza d’altri, per strada o in metropolitana, se un Altro non si distacca dal resto. Ma è tutt’altra cosa quando quell’Altro(a) mi guarda, o quando io guardo l’Altro(a): subito si produce una messa in tensione (si stabilisce una polarità) che viviamo in due, nello stesso istante (anche se quel che viviamo è diverso); una tensione che viviamo in modo co-originario – in quanto «co-autori» di quel momento – fintanto che nessuno dei due se ne ritrae o finché la presenza non inizia ad affondare.
Ma allora la presenza non è relativa, come sosteneva Montaigne: un ingresso nella presenza è invece effettivo, produce una rottura e quindi un evento. Nella misura in cui penso all’Altra, mi distacco da me, ma resto pur sempre in me stesso; quel pensiero dell’Altra, all’Altra, mi appartiene, evolve in accordo con me. Ma quando l’Altra entra nella presenza e ci guardiamo, quando i suoi occhi iniziano a posarsi su di me e i miei su di Lei, accade tutt’altro, qualcosa di radicalmente nuovo, distaccando un presente dall’immediato passato, ogni volta inedito, che richiede un’inventiva – lì nulla è già giocato, e tutto quel che fino ad allora era previsto deve essere improvvisato. Si produce un vacillamento tale per cui io non appartengo più a me stesso; esso interviene più a monte di ciò che costituisce la mia coscienza, più all’interno di me (dell’«io»), cioè nell’«intimo». Si riconfigura così l’antagonismo tradizionale tra presenza e durata (che provoca l’usura della presenza, la delusione del desiderio soddisfatto). Finché quella tensione è attiva, finché ci accorgiamo l’uno dell’altra, isolandoci dal mondo, e siamo in grado di guardarci, una simile presenza è effettiva e non si è isterilita. Ma non appena quella tensione non «scorre» più tra l’uno e l’altra e ciascuno si è ritagliato fuori, riappartandosi senza più lasciarsi traboccare, allora la presenza affonda e diviene «opaca».
La presenza si attiva perché vi è un «tra» che si è aperto tra di noi: «c’è un tra fra di noi», dirò allora per celebrare il nostro legame, che si tratti di «amore» o di «amicizia». Si può precisare questo concatenamento: siccome mi lascio traboccare da te, con te che sei nel più profondo di me (nell’intimo), vi è un tra che si dispiega fra di noi. Questo dispiegarsi di un «tra» è reso possibile dall’eccedenza dell’uno e dell’altro «sé». Ciò significa che la messa in tensione che costituisce la presenza (che la attiva) sarà tanto più intensa quanto più un tra si apre tra i soggetti. Ma che cos’è questo «tra» e come pensarlo? Non sappiamo pensare il «tra» proprio perché non appartiene all’«essere» (e noi non sappiamo pensare, normalmente, se non nei termini dell’ontologia): il tra, in effetti, non è né l’uno né l’altro, e nemmeno è costituito dall’uno o dall’altro (non è qualcosa di «misto», meixis); non ha quindi un “in sé”, non ha nulla di proprio, è privo di essenza o di proprietà. Sfugge alla determinazione dell’«essere» e non può essere caratterizzato. Ecco perché i Greci non l’hanno pensato, l’hanno concepito solo come intermediario, come tramite tra opposti: così sono i «dèmoni», tra dèi e uomini (nel Simposio), così è il grigio tra i colori (per Aristotele). E siccome non sanno pensare il tra, i Greci hanno portato tutta la loro attenzione (la loro passione) sull’«al di là», non più metaxy ma metà, il metà della meta-fisica e dell’oltrepassare. Non hanno riconosciuto il fatto che il tra, se non ha una «natura» – o proprio perché non ce l’ha –, è funzione (il luogo non isolabile dell’interazione). Si trova là dove [qualcosa] scorre – accade – e comunica (si comunica): è ciò che costituisce la fonte rinnovantesi della presenza, la sua risorsa inesauribile. La presenza si attiva per mezzo (all’interno) del «tra», finché vi è un tra che opera fra di noi, e così non si disinnesca.
La presenza non è costituita allora dalla differenza – «differenza» è il termine greco (diaphora) che per mezzo della distinzione serve alla definizione e permette di ordinare la conoscenza. È invece costituita da ciò che ho nominato, per opposizione, lo «scarto» [écart]. Ora, quale differenza vi è tra lo scarto e la differenza? Mentre la differenza lascia ciascun termine dalla sua parte (nell’in-sé, nella sua proprietà), lo scarto – attraverso la distanza che apre – mette in tensione ciò che ha separato. La differenza tra i soggetti richiude ciascuno nel proprio ethos (che si tratti dell’umore, del carattere o anche della differenza sessuale – ma non si sa più molto bene che cosa sia quest’ultima), lo scarto è invece ciò che fa emergere e ispira il Desiderio, istituisce l’uno e l’altro soggetto come poli di intensità (anche nell’omosessualità). Quindi, se la differenza distoglie l’uno dall’altro e li mette schiena contro schiena, lo scarto è ciò che incrocia gli sguardi. In questo senso non è un gap o un fossato (gap è il termine con cui lo si traduce generalmente in inglese), ma il suo contrario. L’Altro vi è riconosciuto come tale, è restituito alla sua alterità e addirittura vi è dispiegato in essa, non è affatto confuso con me; ma al tempo stesso viene rivolto e teso verso di me, così come io verso di lui. Lo scarto è dunque la distanza che attiva la presenza, il ritrarsi che non smette di far venire alla presenza per guardarsi: genera un tra fra l’uno e l’altro, li porta ad incontrarsi. Più lo scarto è aperto, più quel tra è intenso fra i soggetti, così com’è tra l’uomo e Dio, e l’incontro è aperto all’infinito.
In tal modo si «intra-tiene» [s’«entre-tient»] la presenza, in questo tra tensionale che si apre e si dispiega tra di noi. La presenza nella durata, che si rinnova lungo il passare delle ore e dei giorni, che si mantiene nell’«adesso», non è certo mai conquistata una volta per tutte, altrimenti diventerebbe qualcosa di relativo all’«essere» e si opacizzerebbe di nuovo; ma si promuove tramite e all’interno di questo tra che si intensifica perché ha intaccato la frontiera che mantiene separati i soggetti, e li ha fatti traboccare. Questo avvento continuo della presenza, dall’uno all’altro, non è più contraddittorio. Ha una sua modalità propria: una tensione «dolce», ecco il tenore e la tonalità dell’intimo, sempre in grado di ravvivarsi. È una dolcezza metafisica, prima ancora che affettiva, nella quale la presenza si intra-tiene invece di affondare. Questa tensione è dolce (è lo stesso termine che usa Rousseau) perché esce dal rapporto di forze in cui mi trovo normalmente in società, in modo più o meno esplicito – l’intimo ce ne ha liberati. Infine, è dolce perché lascia intendere un infinito diffuso nel qui, un “qui” che si scopre imbevuto di quella dolcezza, invaso dalla sua atmosfera. «Dolce» non significa meno intenso, ma esattamente il contrario: l’espansione indefinita, dal momento che non deve più forzare, non deve più difendersi o controbattere. Nelle Confessioni Rousseau ha annotato i tempi di una presenza intima che si espande senza discontinuità e che non si disattiva. Già accanto alla zia, durante l’infanzia: «Stavo sempre con la zia, a guardarla ricamare, a sentirla cantare, seduto o in piedi accanto a lei, ed ero contento». Questo essere-accanto non stanca mai perché è attivato e portato dall’Altro, e non vi si richiude. Lo stesso accade in modo più sviluppato, sviluppato magnificamente, con Mme de Warens: «Il dolce sentimento di benessere che provavo accanto a lei»; «…accanto a lei, mi trovavo in uno stato di calma incantevole, provando piacere senza sapere per cosa. Avrei trascorso così la vita intera e l’eternità senza mai annoiarmi un solo istante»1.
Tutto ciò si comprende in virtù del fatto che Rousseau ha aperto la via dell’intimo, ha aperto il tra della tensione «dolce», smarcandosi dalla vecchia opposizione tipizzata, stereotipata (è così anche in Montaigne) dell’amore e dell’amicizia: «Tutti sentono che l’amore non avverte quel che c’è di più dolce nella vita» (Confessioni, III). Si tratta di un «sentimento meno impetuoso forse, ma mille volte più delizioso», che «alcune volte è unito all’amore e spesso ne è separato»; ma che non si riduce all’amicizia, essendo «più voluttuoso» e «più tenero» di quella. Ciò che Rousseau lascia senza nome, e che giudica a partire dalle categorie prestabilite come «non chiaro» e «quasi inconcepibile per la ragione», è proprio la presenza intima. È la «dolcezza» dell’intimo, che può in ogni momento rovesciarsi in «violenza» (come quando Rousseau inghiotte il boccone che lei ha appena rigettato nel piatto): quanto più quel tra è discreto ma intenso (tanto più intenso quanto meno è circoscritto) tanto meno quella dolcezza è assopita, ma resta in agguato di fronte all’inaudito o all’incommensurabile, e lascia trasparire un infinito. Quella dolcezza proviene dal fatto che una presenza intima mantiene inseparati, conserva senza staccare, nel chiaroscuro dell’ambiguo che permette di librarsi: «inebriato dal fascino del vivere accanto a lei», «vedevo sempre in lei una tenera madre, un’amata sorella, un’amica deliziosa, e nulla di più». Si tratta certo di una negazione (si nega e si ritrae l’Amante dalla serie), ma è pur vero che il Desiderio non è l’unico a comandare, e che in tal modo si evita felicemente la trappola della soddisfazione.
In quella presenza intima, ciascuno mantiene volentieri un ruolo, interpreta un copione (lei è la «Mamma», lui è il «Piccolo»). Ma quel ruolo non ha più nulla a che vedere con il ruolo sociale, è sottilmente inventato; è anzi ciò che ci sposta e affranca dall’ambito della società. Forse nemmeno si tratta di un ruolo, quanto piuttosto di un polo che stabilisce l’uno di fronte all’altra facendo nascere una tensione tra loro. Simbolizza lo scarto che fa sì che i due si attraggano. È il codice privato, talvolta cifrato, di quel «tra» aperto fra di loro, che permette loro di incontrarsi. Ciascuno si riposa e vi trova conforto, mentre la presenza dall’uno all’altra si intrattiene nel quotidiano, in un gioco complice. Si intra-tiene anche nel «balbettio inesauribile» di tutto quel che ci si dice durante una giornata, senza che vi sia «qualcosa» da dirsi (da comunicarsi): è solo un vettore della connivenza, e lascia passare dell’intimo tra i soggetti. Perché nessuno si isoli nel mutismo, dalla sua parte, isolandosi dietro uno spesso muro di silenzio: non per forzare l’uno o l’altra alla trasparenza, ma per impedire che la presenza, tacendo, si prosciughi; è un modo per trattenere la presenza stessa dal cadere nell’opacità.
Così come è passato a lato della risorsa dell’intimo, Montaigne non poteva che disdegnare questo «intrattenersi» [entretien] («…sono soltanto dimestichezze e familiarità annodate per qualche circostanza o vantaggio, per mezzo di cui le nostre anime si tengono unite», dice per contrasto rispetto alla sua amicizia con La Boétie; cfr. Saggi, I, 282). Siccome resta legato alla relazione modello, assolutizzata, senza cedimento né diffidenze, non ha l’idea che un tale «intrattenersi» possa servire alla quotidianità esistenziale. Il concetto di intra-tenersi [entre-tien] potrebbe indicare una via d’uscita dall’antinomia della separazione o della comunione, e potrebbe permettere di pensare la distanza che ravviva l’intimità della presenza. Tant’è vero che una simile presenza «si intra-tiene» negativamente delimitandosi, costellandosi e intramandosi di assenza; questa prossimità si attiva – si mobilizza – per il fatto di essere travagliata dal suo ritrarsi. Un ritrarsi forzato, certo, imposto da fuori (in primo luogo dalla morte):...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. UN PENSIERO DEL VIVERE
  3. ARGOMENTO
  4. I. PRESENZA-SCHERMO
  5. II. IL MONOTONO SI DILEGUA: OPACITÀ DELL’ESSERE-ACCANTO
  6. III. IL CEDIMENTO È NELL’ESSERE
  7. IV. LA SCENA O LA TENDA: RI-PRESENTAZIONE O FILTRAGGIO
  8. V. RIVINCITA E RISORSA DELL’INTIMO
  9. VI. DALL’ASSOLUTO DELL’ESSERE ALL’INFINITO DELL’ALTRO, OVVERO COME IL RITRARSI DÀ ACCESSO
  10. VII. NELLA TENSIONE DEL TRA (FENOMENOLOGIA DELLA PRESENZA INTIMA)
  11. VIII. L’INTIMO VIA I SUOI CONTRARI
  12. FINALE
  13. INDICE