Crisi economiche e mutamenti (geo)politici
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Crisi economiche e mutamenti (geo)politici

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Crisi economiche e mutamenti (geo)politici

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Questo libro nasce dall'esigenza di chiarire alcuni aspetti fondamentali generalmente trascurati delle crisi economiche. Oltre il piano strettamente finanziario c'è quello (geo)politico, che segna i "veri" sviluppi di una crisi in una data fase storica. I crolli finanziari vanno trattati come fenomeni epidermici, generati da sconquassi che avvengono nelle profondità dei rapporti di forza tra aree di paesi, egemonizzate da poli di potenza in crescente attrito. Le cadute in borsa, la volatilità dei titoli azionari, lo scoppio delle bolle speculative e il successivo "decadere" dei fattori reali dell'economia (arretramento della produzione, crescita della disoccupazione, fallimento degli operatori industriali ecc.) indicano trasformazioni più vaste che modificano l'architettura (geo)politica del mondo. È, esattamente, quello che annuncia l'epoca in cui viviamo.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788857555379

Capitolo IV
Riflessioni storico-teoriche sulla crisi

I. La Prospettiva più tradizionale (Economicistica)

1. Si tratta di un argomento talmente complesso e denso di dibattiti teorici da richiedere pure un notevole approfondimento storico. Tanto più che non sono d’accordo sull’impostazione prevalentemente economicistica con cui viene solitamente discusso tale problema. Sia chiaro che nei paragrafi in cui verrà diviso questo scritto non affronterò il tema della crisi iniziata nel 2008; nemmeno mi fisserò su come essa viene interpretata dagli economisti odierni o anche dal Governo con le sue misure che stanno ottenendo risultati esattamente contrari alle intenzioni dichiarate (credo assai diverse da quelle perseguite politicamente, con la sola maschera della necessità economica). Un simile argomento va trattato in altra sede e dopo aver preso visione delle pur sommarie indicazioni relative alla problematica generale della crisi. Altrimenti s’instaura una semplice “discussione da bar”. Comunque il lettore attento potrà più volte istituire un parallelo tra quanto qui scritto e le pappardelle fornite in questi ultimi anni.
Mi rifarò ancora una volta ad un esempio da me utilizzato più volte per analogia perché particolarmente congruo nella sua applicazione al tema della crisi, sempre pensata come semplicemente economica. Il terremoto, magari con annesso tsunami, è evento catastrofico che colpisce a fondo la vita degli uomini; ed è ancora imprevedibile, checché se ne dica a volte con somma insipienza. Tutti, evidentemente, fuggono disordinatamente nel momento cruciale, poi iniziano ad organizzarsi in previsione di eventuali nuove scosse e pensano infine alla ricostruzione. Il sismologo sa tuttavia che il tremore di superficie, così disastroso, dipende da scontri tra strati del terreno che avvengono a grande profondità; più profondi sono tali urti e frizioni, maggiore è l’energia accumulata per anni e decenni (talvolta secoli) e più intenso e violento è il suo scaricarsi; tanto più ampia è inoltre la zona colpita dallo sconquasso. Non è escluso che in futuro i terremoti possano essere previsti con qualche significativa probabilità (così com’è accaduto per le previsioni meteorologiche per brevi periodi); a patto però che non ci si limiti a studiare grafici e tabelle statistiche che indicano soltanto la loro frequenza nel tempo, le zone maggiormente colpite, certi andamenti lineari di superficie, magari correlazioni più o meno credibili con altri fenomeni altrettanto superficiali, ecc. Tutte rilevazioni non inutili, sia chiaro, ma alle quali attribuire il significato di sintomi “fenomenici”, che devono spingere a guardare più in profondità, nelle viscere della terra.
Volendo soprattutto indicare, sia pure necessariamente per cenni, ai motivi a mio avviso profondi delle crisi economiche – motivi che vanno ben al di là della mera economia – dovrò essere molto schematico e certo poco “scientifico”; non abuserò di grafici e tabelle con connesso loro significato assai poco illuminante, ma che attribuisce tanta sicurezza ai “chierici” della scienza economica e lascia a bocca aperta chi li ascolta come oracoli.
2. Le grandi crisi del XX secolo sono state quella del 1907 e quella, decisamente più rilevante e passata alla storia come la crisi (per antonomasia), del 1929. Entrambe iniziarono con l’aspetto più superficiale di tale terremoto, quello finanziario, quello che sembra più colpire, ancor oggi, la fantasia “popolare”; dove per popolo si deve intendere semplicemente la gran parte degli ignari, adeguatamente influenzati dall’informazione ricevuta dai “santoni” della scienza sociale detta economia.
È ovvio che la parte finanziaria, legata all’uso della moneta e dei segni d’essa, sia il primo fenomeno critico a presentarsi, data la generalizzazione della forma di merce nel capitalismo e il conseguente uso necessario del denaro nel ciclo continuo M-D-M. Quando questo viene ad interrompersi – per motivi vari studiati da tutti gli economisti e sottoposti ad interpretazioni diverse; non inutili, sia chiaro, poiché nessuno nega l’importanza di certi fenomeni se vengono studiati e analizzati come tali e non come il processo più fondamentale caratterizzante la crisi, la causa insomma della stessa – il primo scombussolamento è subito dai mercati in cui circola lo “strumento” che ormai, da semplice intermediario nello scambio di merci, è divenuto pure accumulazione di ricchezza, mezzo di investimento, garanzia (del tutto parziale e insicura, in verità) contro gli imprevisti del futuro, ecc. ecc. Al disordine nei mercati monetari, finanziari – se esso non è legato a semplici giochi speculativi, in genere suscettibili di reciproca compensazione tra operazioni di segno contrario (si pensi alle continue oscillazioni di Borsa) – segue quello ben più grave nei mercati dei beni (e servizi) prodotti, nei mercati detti “reali”.
Detto per inciso, questo fatto avrebbe già dovuto far ricredere molti teorizzatori della formazione del monopolio (oligopolio più precisamente), regime di mercato in cui si supponeva si sarebbero istituiti cartelli o trust (cioè accordi fra imprese), e poi ulteriori accordi tra questi, con il controllo, e dunque regolazione, dei mercati da parte di queste grandi imprese oligopolistiche. Tanti accordi ed evidentemente poco controllo dei mercati, se si producevano fenomeni come le crisi, soprattutto del tipo 1907 e 1929. Si consideri la prima – in base soprattutto al nostro necessario modo di pensare per analogie – come una sorta di prova generale della seconda, assai più grave e considerata, come già detto, la, non una, crisi. Essa si fa partire dall’ottobre del ’29, nelle due giornate di tracollo della Borsa valori di New York (anche nel 1907, la crisi partì nello stesso modo e dallo stesso luogo). In certi scritti (o perfino film) d’epoca, o di ricostruzione della stessa, si favoleggia della miriade di finanzieri gettatisi dai grattacieli di quella città. In realtà, l’aspetto più pregnante della crisi lo si vide nel 1932, e ancora nel ’33, con il ben noto Pil al più basso livello e la disoccupazione della forza lavoro al suo massimo; e una autentica miseria nera, la vera e propria fame di massa.
Fatto 100 il Pil del 1918, all’uscita dalla guerra mondiale, questo crebbe negli Usa per tutti gli anni ’20 (di boom) e giunse a 122 nel 1929. Nel ’33 fu 81 (un bel tracollo) e poi risalì a 116 (ancora ben sotto il 1929) nel 1940 – a nuova guerra mondiale già scoppiata, in cui gli Stati Uniti entrarono nel dicembre 1941 dopo Pearl Harbor – e balzò a 198 nel ’45 alla fine della stessa. Un bell’affare la guerra! Se guardiamo alla produzione industriale, fatta 100 quella del ’29, essa può essere così riassunta in tabellina:
Per quanto riguarda la disoccupazione, i dati hanno il medesimo andamento; gli anni cruciali restano sempre il 1932-33. Su scala planetaria, la disoccupazione fu sempre mediamente sopra il 20% tra il 1929 e il ’33. Negli Usa, i dati ufficiali furono assai imprecisi in quegli anni; comunque nel 1932-33 detta disoccupazione si stimò tra il 25 e il 33% della forza lavorativa, con almeno 15 milioni di senza lavoro.
Dopo la vittoria presidenziale di F.D. Roosevelt – a fine ’32, con insediamento nel gennaio ’33 – fu lanciato il ben noto New Deal; un programma di riforme sociali ed economiche. Interessa soprattutto il fatto che esso si basò su un forte incremento della spesa statale effettuata in deficit di bilancio (senza dunque preoccupazioni per il Debito pubblico), anticipando così, si può dire, la successiva teoria keynesiana formulata nel 1936: indubbiamente una sorta di sistemazione teorica (definita generale) di una pratica (politica) economica anticipatrice. Prima di passare ad alcune delucidazioni della stessa, voglio ricordare che il sollievo, per il sistema economico statunitense, si manifestò soprattutto nel ’34-’35; già nel 1936 e ‘37 l’economia diede segni di debolezza e, tutto sommato, la fase restò di sostanziale stagnazione, con modesti aumenti del Pil fino alla seconda guerra mondiale.
Non a caso, da quell’andamento derivarono, sempre con un certo ritardo, gli studi di autori come Alvin Hansen, Steindl e altri che, estendendo al lungo periodo la teoria di Keynes, sostennero tesi stagnazioniste sulla base di considerazioni, qui adesso di impossibile analisi, sulle innovazioni e l’aumento della produttività del lavoro, su certi limiti della crescita della domanda connessi, fra l’altro, a corrispondenti limiti nell’innovazione di nuovi prodotti. In modo sommario, potremmo dire che le tesi stagnazioniste davano forte rilievo alle innovazioni di processo (aumento quindi della produttività e della capacità produttiva del sistema a parità di fattori occupati) mentre pensavano ormai in esaurimento la prospettiva dell’apertura di nuovi grandi settori produttivi – come furono poi invece, l’informatica ed elettronica, l’aerospaziale e altri – con conseguente debolezza della domanda complessiva (consumi più investimenti).
3. Cercherò, sia pure in modo vergognosamente sommario, di dare un’idea delle idee sulla crisi esistenti all’epoca di cui stiamo trattando. La teoria economica neoclassica, che dominava nell’accademia ormai dal 1870, non ammetteva la possibilità di crisi se non come conseguenza di comportamenti che non si attenevano ai principi liberal-liberisti. Era necessario che si verificassero imperfezioni nel funzionamento del mercato, imperfezioni legate al comportamento non corretto di individui e gruppi di individui. Si credeva ciecamente alla ben nota “mano invisibile” (del mercato) di smithiana memoria, per cui era sufficiente lasciar funzionare gli automatismi mercantili senza intralci, in particolare da parte dello Stato. Sono costretto in questa sede a non discutere del carattere rivoluzionario (ma non troppo) che aveva la teoria smithiana nell’epoca in cui fu formulata (la Ricchezza delle nazioni fu pubblicata del 1776; eravamo nel periodo iniziale della prima rivoluzione industriale).
La teoria neoclassica si serviva di tali tesi per indicare la necessità che i soggetti da essa considerati “produttori”, gli imprenditori – nello svolgimento di quella che era pensata come loro funzione precipua: la combinazione dei fattori della produzione (terra e soprattutto capitale e lavoro), funzione svolta in reciproca competizione – fossero perfettamente liberi nelle loro operazioni di acquisto di detti fattori e di vendita dei prodotti nel mercato. Secondo la teoria in oggetto, ne sarebbe risultata la continua riduzione di costi e prezzi con vantaggio dei consumatori finali delle merci prodotte. Con la precisazione che la domanda complessiva riguarda sia i beni di consumo in senso proprio, necessari alla vita degli individui, sia i beni “consumati” nell’attività produttiva quali suoi fattori, il cui acquisto da parte degli imprenditori è ciò che viene indicato come investimento.
In tutte queste operazioni, effettuate nel mercato tramite uso di denaro, l’ente preposto agli affari pubblici, lo Stato, non deve mettere becco. Secondo le teorie liberiste esso avrebbe l’obbligo di limitarsi ad espletare una serie di servizi amministrativi di interesse generale, di regolazione dell’ordinata riproduzione dei rapporti intersoggettivi nella società dello scambio mercantile generalizzato. In un certo senso, si tratta soprattutto dei compiti di fondamentale “polizia” per impedire l’illegalità di certi comportamenti dei vari “soggetti” attivi nella “società civile”. Non a caso lo Stato veniva spesso definito veilleur de nuit, espressione assai significativa.
Il costo dei servizi statali va coperto con l’imposizione fiscale, limitata appunto alla semplice raccolta di quanto speso per fornirli. Uno dei principi fondamentali, cui si attiene la teoria neoclassica tradizionale, è perciò quello del pareggio del bilancio statale, al quale si è contravvenuto spesso soprattutto in caso di guerre, considerate però eventi eccezionali, che disturbano il normale e virtuoso funzionamento delle “leggi” del “libero mercato”. A parte queste eccezioni – che poco lo furono perfino durante l’epoca considerata fondamentalmente pacifica tra la guerra franco-prussiana del 1870 e la prima guerra mondiale, se non altro a causa della continuazione e accentuazione delle imprese coloniali – una spesa eccessiva dello Stato, comportante poi per detta teoria l’inasprimento fiscale onde ripristinare il pareggio in questione, fu sempre ritenuta comportamento irrituale e dannoso per il sistema economico.
Come le guerre, anche le crisi economiche erano trattate quali eventi eccezionali legati all’imperfezione dei comportamenti umani, il che tuttavia non inficiava la legge generale dello spontaneo equilibrarsi dell’offerta e della domanda dei beni se ci si fosse attenuti alla piena libertà degli scambi nel mercato. Volendo pensare analogicamente, è un po’ come la legge galileiana del moto rettilineo uniforme, il cui funzionamento è più o meno sempre alterato da vari attriti esistenti nel mondo reale; e tuttavia essa viene stabilita in base alla supposizione di assenza di attriti e considerata l’“attrattore naturale” cui tende il moto quanto meno esso è disturbato dagli stessi. La teoria neoclassica procedeva in modo simile: ammetteva l’esistenza di “attriti” (guerre, crisi economiche), ma pensava la “mano invisibile” del mercato quale legge “naturale” vigente nel mercato. Di conseguenza, sarebbe necessario perseguire lo scopo di attenuare il più possibile qualsiasi fenomeno perturbatore di tale “legge”.
Lo scoppio di crisi della gravità di quelle del 1907, e soprattutto del 1929, non poteva non destare una serie di discussioni. Esse richiedevano spiegazioni supplementari. Sarò molto sommario. La tesi liberista più tradizionale, rifacendosi comunque al fenomeno allora considerato più vistoso e socialmente preoccupante, la disoccupazione dei lavoratori, lo legava all’imperfezione introdotta dall’associazione sindacale nella libera contrattazione della merce forza lavoro. Il sindacato avrebbe spinto il salario al di sopra della produttività marginale del lavoro; diciamo, in soldoni, che questa è la produzione dell’ultima unità lavorativa occupata. Essendo tale produttività, almeno da un certo punto in poi, decrescente al crescere di tali unità occupate, se il salario viene irrigidito dalla contrattazione sindacale ad un dato livello, l’imprenditore impiegherà successive unità lavorative solo fino a quando l’incremento di prodotto così ottenuto resta eguale o superiore al livello in questione. Se in tale situazione sussiste la disoccupazione di una parte dei lavoratori, l’unico modo per eliminarla o ridurla è consentire l’abbassamento della retribuzione in modo da adeguarla alla produttività dell’ultima unità di lavoro da occupare.
Non fu questa la via seguita durante il New Deal. In varia guisa, si decise per l’attuazione di opere di tipo infrastrutturale, non certo profittevoli per l’impresa privata e dunque finanziate dallo Stato. Tali opere non puntavano affatto al rientro in tempi brevi della spesa sostenuta tramite vendita dei loro servizi. Si trattava invece di occupare la forza lavoro rimasta disoccupata per la crisi; il costo salariale era sostenuto in toto tramite l’iniziativa di vari enti statali, alcuni creati appunto per l’occorrenza. Si pensi alla Federal Emergency ...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Capitolo I Elementi di teoria delle crisi
  3. Capitolo II Crisi, sviluppo, trasformazione e trapasso d’epoca
  4. Capitolo III La crisi: si brancola nel buio (in primis gli esperti)
  5. Capitolo IV Riflessioni storico-teoriche sulla crisi
  6. Capitolo V Critica dell’economicismo
  7. Appendice I Un discorso “di fase”
  8. Appendice II Contro il neoromanticismo economico