La vita si cerca dentro di sé
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La vita si cerca dentro di sé

Lessico autobiografico

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La vita si cerca dentro di sé

Lessico autobiografico

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Informazioni sul libro

Raccontarsi per rileggere la propria esistenza alla luce di una nuova prospettiva. Duccio Demetrio, filosofo dell'educazione e fondatore della Libera Università dell'Autobiografia, ci mostra in questo libro come intraprendere un percorso di autoformazione coraggioso e creativo. Nella prima parte, Demetrio discute da un punto di vista teorico l'approccio autobiografico come fonte di formazione di sé e come modalità per un'interpretazione simbolica della propria vita. Nella seconda, vengono presentate le parole chiave che compongono il "lessico autobiografico", un insieme di termini che rinviano al lavoro di autonarrazione. È dunque questo un libro sul senso dello scrivere personale in grado di orientare il lettore verso i passaggi tematici e gli snodi esistenziali indispensabili per intraprendere una scrittura autobiografica non superficiale o banale. Perché, come sostiene Demetrio, "il bisogno di raccontarsi è una costante della nostra esistenza. Arriva il momento in cui raccontare la propria storia diventa una necessità. Non si tratta solo di affi dare le proprie memorie a un foglio di carta o a una pagina elettronica; scrivere di noi e della nostra vita passata sollecita una maturazione interiore".

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788857547824

PAROLE OPACHE IN INTRIGO
Alle quali porre domande


Ci sono scrittori che raccontano “dall’esterno”. Altri “dall’interno”, come se ciò che raccontano appartenesse alla loro vita: posseggono cioè un alambicco che riesce a trasformare l’io narrante in io autobiografico, la vita del loro personaggio diventa la loro stessa vita.
(Antonio Tabucchi)

Non vuoi capire che la tua coscienza significa
gli altri dentro di te.
(Luigi Pirandello)

Un lessico, è risaputo, ci fornisce quell’insieme di parole alle quali non è possibile rinunciare. Da conoscere anche approssimativamente, per trattare un dato argomento. Per aver a disposizione le cosiddette chiavi del discorso. Ma il termine, come Natalia Ginsburg ci mostrò nel suo celebre romanzo famigliare, include impliciti e riferimenti che vanno oltre la parola. I quali si costruiscono nell’andamento narrativo come “famiglie” e aggregati emozionali, fattuali, tessendo trame e intrighi. Pertanto nella versione meno accademica e pedante, il lessico autobiografico non si limita ad essere un disadorno o raffinato vocabolario. È molto di più. Sia sul piano linguistico che semantico. È un contesto narrativo a complessità in evoluzione che offre indizi interpretativi nel prosieguo delle pagine. È uno spazio di parole, storie, idiomi, gerghi, ritualità (di silenzi persino) all’interno del quale, e in contaminazione e relazione con altri repertori che irrompono imprevisti, alterando con nuovi termini tale luogo ci offrono l’incalzare, ora il sostare riflessivo, ora dialettico, di un io narrante che mette in intrigo se stesso o più presenze. Cose, sfondi, paesaggi, idee compresi. Ogni autobiografia viene scritta (come ogni romanzo e testo narrativo) dal lessico antecedente di chi evoca quei ricordi che sono il fattore basico di ogni racconto di sé; dal lessico situazionale che l’autore assembla durante il periodare e, inoltre dal lessico epico: dalle parole opache, sulle quali diverse pagine già si sono spese, che rappresentano le direzioni di senso, il fattore generativo, ovvero motivazionale, che ha preceduto la decisione di por mano alla scrittura, talvolta restando silente per anni. Siamo frequentati da lessici segreti o criptici, per i quali non riusciremo mai del tutto a trovare quelle parole che ci consentirebbero di comporre il nostro definitivo, rassicurante, acquietante, repertorio semantico. Epico è dunque ogni insieme formato dalle parole che non riusciremo mai a sillabare, che pure si muovono nella filigrana della pagina, che se volessimo finalmente decifrare ne rovinerebbero l’incanto. Sono parole opache, ancora al di là dal poter essere coniate: sono sensazioni in quanto tali percepibili, ma non definibili capaci di sfidare ogni lessico sapiente ed etimologico. Sono l’animus della messa in forma della nostra autobiografia, la controfigura e l’ombra delle infinite parole cercate per offrire di noi e del nostro mondo qualche icona decente e accessibile. Epico è l’impulso a narrare, nutrito di energia vitale (di eros), i motivi che ci hanno indotto ad accettare di continuare a vivere che ci hanno posto dinanzi agli appuntamenti cruciali che nessuno può evitarsi di scansare.
I lessici autobiografici – nelle loro declinazioni – sono qualcosa di più delle frequenze o occorrenze terminologiche che un testo, il cui argomento sia la nostra stessa esistenza, contiene. Possono essere in parte comparati a ciò che Michel De Certeau definisce, con Merleau-Ponty, uno spazio antropologico. All’interno del quale il narratore si riconosce come mai prima gli era accaduto, nel momento in cui lo ricostruisce scrivendone includendovi la sua percezione soggettiva.32 Ma, proprio in quell’istante, l’autore della propria vita che pensava, scrivendola, di possedersi ancora di più, si riperde di nuovo in un comprensibile sconcerto. Nel duplice andamento evocato da Antonio Tabucchi (dentro-fuori: si torni alla citazione in esergo) e nell’enfatica sottolineatura pirandelliana.
Lo spazio autobiografico personale ebbene include nel proprio lessico i desideri, le motivazioni, i passaggi critici che ogni vita universalmente incontra e attraversa (amore, dolore, perdita, cambiamenti, sogni, successi e insuccessi, giochi di falsità e verità, corporeità e illusioni, ecc.). Si rivela il luogo interiore dove ogni parola nasce e si nasconde.

L’ultima chance


Si tratta delle mute e non decifrabili parole apicali che costellano la vita di tutti noi. Mai conclusive, rispetto alla possibilità di determinarne l’origine, i riflessi sui nostri pensieri e comportamenti, il loro riapparire nel futuro. Le abbiamo imparate vivendole e spesso pronunciate raramente: eppure ci appartengono a nostra insaputa. La scrittura è l’ultima chance che ci viene offerta per disappannarle in quel breve lasso di tempo necessario a vivere un’agnizione imprevista. Poi è bene riaffidarle alle loro opacità. Non ho pertanto inteso nemmeno lontanamente por mano ad una sorta di grammatica o sintassi che possa consentirci di trovare un codice di accesso per tutte le occasioni. Tradiremmo altrimenti i chiaroscuri dell’impresa autobiografica, non offriremmo alla dimensione spaziale della nostra corporeità, storica e antropologica, il non luogo itinerante, che anche è.
Seguiranno ora, soltanto alcune parole opache che mi è accaduto di ravvisare – intuire e qui esporre – nelle mie scritture autobiografiche e in quelle di donne e uomini che si sono affidati liberamente a queste imprese iniziandosi all’ultima chance ermeneutica. Consistente nel renderle da opache un poco traparenti. Come si vedrà, sono parole quotidiane, comuni, ovvie: eppure, non appena le si riconduca alla propria vita, perdono di trasparenza, ci invitano ad oscurarle. In quel bagliore ritrovato, in quei lampi di consapevolezza, in questi stati di grazia nasceranno frasi che possano essere soltanto comprensibili a noi che le abbiamo create per rappresentarci.

Bellezza


Scriviamo per cercare la bellezza, quando ci manca il conforto della memoria; per scoprire quanto non avevamo compreso in un tempo imprecisato che non ha cessato di pulsare in noi.
Scriviamo perché questa è una bellezza al lavoro. Povera, umile, mite. Ci sfugge, ma già sappiamo che possiamo rintracciarla soltanto là dove non siamo mai ancora stati.
Scriviamo per sentire che, scrivendo, siamo ancora vivi. Nel tempo irreale delle parole scritte, accontentandoci di una non dolente inquietudine.
Che cosa si nasconde, e cela, dentro la bellezza del ricordare? E se ciò che d’essa non abbiamo più percezione, di cui avvertiamo la mancanza, nella nostalgia, nell’acuto spasmo del vuoto, ne fosse la sorgente più intima? Che non sappiamo più inseguire, ripiegati, affannati, storpiati dal tempo presente? Forse, ci incontriamo con il bello, fonte di una felicità sottile, indicibile, taciturna là dove la coscienza non si accorse di averla sfiorata, in quell’istante, perdendola irrimediabilmente. Bellezza è anche questo: saper lasciarla andare, come certi amori inammissibili o troppo acerbi. Il motivo poetico della bellezza memoriale che non abbiamo a tempo opportuno saputo cogliere (poiché ci era fin troppo presente), non va inteso però riproponendo qualche trito motivo patetico e intriso di languori antichi. La bellezza che qui intendo, che per un equivoco, una fretta, una svista ci passò accanto, c’è ancora. C’è sempre stata. A lungo dormiente, va riconosciuta e svegliata dal fruscio di una penna, dei tasti, degli ormai smarriti ticchettii. Non ricorrendo all’esercizio pedestre, didattico; ai canoni estetici consueti nell’errore di volerne decifrare ogni mossa. Perché la memoria è sempre in moto. Nella veglia, nel sonno, in quei primi mattini soporosi. È una bellezza diafana, non sottostà ad alcun tentativo di descrizione e acribia fanatica. Nemmeno, le cose della bellezza, si sono annidate negli interstizi di una memoria generosa. Essendo esse stesse rimembranze sfuggono alle regole dello spazio e del tempo. Son cose che includono tanto la felicità quanto il dolore; l’amore, quanto l’odio; la malinconia quanto la gioia inesitata dal mittente: la memoria è la vita che abbiamo avuto. È totalità presupposta, è paesaggio, è irriducibile alle monotonie dei racconti di circostanza. Questa è, nuovamente, bellezza intoccabile, sacra; non accetta di essere mistificata e manipolata. Sacrilego è violarne i segreti ultimi. Essa esiste e persiste. Semplicemente è e continuamente diviene: intoccabile, intollerante alle illusioni, alle realtà sopraggiunte che ne han perduto i contorni. Può accettare soltanto di affidarsi alla mano che tenta di scriverla, la bellezza della memoria sa che anche la scrittura non può conoscere limiti e limitazioni. L’una e l’altra sono consapevoli dell’appuntamento impossibile che, qualche volta, tacitamente con sacra reciprocità si concedono. La bellezza della memoria accetta di essere trasfigurata dalla scrittura, purché la trappola del rimpianto non inizi a cercare un’esca qualsiasi (quel ricordo amaro, quell’atto mancato, quella strada non scelta) revocando l’impresa. Lo stato interiore di chi si muova in questa direzione, credendo di visitare il passato non in poche righe, è già bellezza. La penna non colma il senso di vuoto, lo crea piuttosto: donandogli leggerezza nello smarrimento fausto. Questo stato non ci farà più paura, la carta ci sorreggerà, l’inchiostro sarà unguento e lenimento.
Un respiro di sollievo è il sopraggiungere dei primi indizi di quella bellezza che accetta ogni frammento riemerso e lo redime, accogliendolo nella sua ineluttabilità vitale. Ci salviamo scrivendo, quando finalmente dichiariamo la nostra resa e ci accorgiamo che però non c’è scampo. Che il silenzio generato dallo scrivere è autentica bellezza; che il passato ne è l’emblema e che la penna che procede nella sua altera solitudine si ingegna, in verità, per avvicinarci alla soglia che si erge proprio laddove pensavamo di esserci rifugiati per sfuggire alla presa. Per non farci riconoscere, rimanendo profughi della nostra ricerca interiore.

Biografia


Scrivere le storie delle donne e degli uomini realmente esistiti nel corso del tempo non poté che salvarle almeno qualche anno e minuto in più. Grazie alla pazienza e alla devozione di un numero incalcolabile di raccoglitori, di scrivani per caso, di narratori ladri di racconti altrui. Dei quali, di solito, poco sappiamo e sapremo mai. Istruiti o più spesso quasi illetterati, cronisti e amanuensi dei nullatenenti. Per qualificarli, si rese comunque necessario il riconoscimento di una funzione sociale distintiva. Il che indusse a sostituire il termine scriba, le cui funzioni erano prevalentemente chirografiche e di segretariato, con quello più appropriato di biografo (scrittore di storie, ovvero, di vite). Le cui opere, spesso non dotate di pregio, elementari e approssimative, fecero si che le biografie venissero innanzitutto collocate in un genere narrativo popolare spurio, deprezzato, “volgare”, più che ambiziosamente letterario. La transizione dalla tradizione orale – dove la vocalità obbedisce per sua natura alle instabilità del momento, degli umori dei narratori, della loro precaria abilità espositiva – a quella scritta, in tutti i casi, conferì unitarietà, ordine, consequenzialità alle narrazioni ascoltate, racimolate, reinventate da biografi colti o poco istruiti. Nonostante la lunga, fecondissima, inestimabile storia del biografismo occidentale, che fecondò, dirozzandosi o raccolto da letterati di rango, gran parte delle letterature medioevali e umanistiche che oggi si definiscono “dell’io” o “ego-scritture”, non sempre nella scuola, per lo meno in quella italiana, si è prestata a queste opere, come a quelle autobiografiche, la dovuta e meritevole attenzione. Nonostante esse continuino a mantenere una suggestione finalmente rivalutata al di fuori di essa. Si trattò e tratta di un campo del sapere (quello della soggettività e singolarità delle presenze umane) affascinante cui è difficile sottrarsi per il suo potere identificativo, emulativo, seduttivo. Certo sospetto, per ciò che concerne la veridica attendibilità di quanto si narri in tali documenti specie se sottratti a talune grossolanità. A lungo sottovalutato se non ignorato dalla storiografia più attenta alle storie, per parafrasare un celebre titolo dello scrittore Giovanni Pontiggia, degli “uomini illustri”. Piuttosto testimonianza esemplare delle voci individuali irriducibili ad ogni massificazione, che in Italia il giornalista e scrittore Saverio Tutino, inventore negli anni ’80 dello scorso secolo del prezioso ed unico Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, volle intitolare alle “storie delle persone”. Un ente, non a caso, guardato e stimato dagli storici della contemporaneità con grande attenzione. Tornando alle precedenti considerazioni, i punti di vista biografici e autobiografici esulano pertanto dalle esclusive considerazioni e valutazioni estetiche o artistiche. Il genere narrativo in senso lato, non appartiene di diritto e di fatto a quello letterario e talvolta è bene che non abbia queste pretese. Per tale motivo, voglio insistere sul suo immenso valore non solo umanistico, bensì umanitario, solidaristico, talvolta persino terapeutico. Per il quale le storie, grazie a biografi per diletto e passione possono diventare libri capaci di affollare le librerie in campo medico, psicosociale, sociale, educativo. In quanto tali narrazioni, tali memorie salvate dall’oblio, rappresentano una possibilità, finalmente riconosciuta lenitiva anche in ambiti clinici e nei campi diversi delle relazioni d’aiuto, per coloro che, raccontandosi, possano contare sulla presenza di un uditore con la penna in mano deciso a salvarli, questi racconti del tutto personali e perciò sempre preziosi. E, dove possibile, ben disponibile a guidare chi lo desideri a cimentarsi con la scrittura della propria esistenza imparando a far a meno di ogni biografo. Queste storie vissute nelle situazioni più diverse, anche quelle salvate “miracolosamente” nelle circostanze e località più tormentate, rischiando la propria vita come biografi di strada, di guerra, della quotidianità, hanno di conseguenza un valore politico indubbio. Se la politica intenderà mai ancora occuparsi dei più deboli. Esse rappresentano e sono ispirate ora da gesti di amicizia e generosità, ora da prese di posizione antirazziste o anticlassiste, nonché da atti pubblici o privati in difesa delle memorie individuali e collettive di chiunque.

Coraggio


Occorre educarsi ed educare al coraggio di scrivere sempre, in ogni circostanza: nella più felice e dinanzi alla più dolorosa. Soltanto così puoi prepararti a mutare il dolore nella voce della poesia. E se nessuno mai mi leggerà, ti chiedi? Non importa, dovrai imparare a dirti: avrai adempiuto ad un dovere civile, al rito di lasciare ad altri la responsabilità di dimenticarti. Di consolarsi sfogliando quelle righe, quei diari, quei quaderni postumi. Perché non avrai certo scritto alla morte, ma alla vita che resta. La morte, con le sue legittime paure e con terrore al solo pensarla, ci sfida ogni giorno: nella lucidità della ragione o nel quanto mai umano e doveroso oblio di dimenticarcene, affinché non ci uccida due e più volte. Ancora in vita. Poiché se il tema della fine, dell’addio, senza appello e remissione, nel suo approssimarsi imminente o nell’imprevedibilità dell’accadere infausto irrompe, in una prevedibilità che allontaniamo da noi, tutto allora ci appare vano. Poiché (giova forse ribadirlo?) la convitata di pietra in questione rappresenta quella verità certa che non possiamo permetterci, paradossalmente, né di scordare, né di perdonare, né di trattenere stretta più di tanto a noi come un’ossessione quotidiana. In questo secondo caso, vorrebbe dire che, almeno nell’animo, sarebbe già penetrata dentro di noi scacciando ogni voglia residua di vivere. Ogni entusiasmo per l’ancora possibile, non per il nulla di cui è la misteriosa custode. Tutti sappiamo, nella generalità delle circostanze incontrate, che riusciamo a sfuggire all’annichilimento di quella sua presenza pietrificante, così simile a Medusa, finché non venga a trovarci non in sogno, negli incubi, in un film, ma nella vita reale. Quando la realtà spazza via ogni soluzione tranquillizzante. Nelle fisionomie più diverse. Colpendoci in prima persona, oppure, e la rassegnazione così ci apparirebbe un sollievo ancor più improbabile, se non indecente, quando si industri a portar via con schianto o in un interminabile commiato chi ci è vicino.

Cura


In quest’opera continua di autodifesa e di ricerca di una cura adatta alla nostra esistenza, la scrittura ci offre una collaborazione impareggiabile: non solo in quanto forma di consolazione, come modalità di tutela delle storie degli innumerevoli sen...

Indice dei contenuti

  1. Più di una premessa Un monologo nel tempo
  2. Esordio Elogio delle parole opache
  3. Lasciate ogni speranza
  4. I. Intermezzo La prima volta: quel che di una lettera restò e si accrebbe
  5. QUEL GIORNO IRREVOCABILE
  6. Parte prima Scrivere è inseguire una distanza: sulla soglia di casa
  7. PER NON SBAGLIARE AL PRIMO PASSO
  8. II. Intermezzo Scritture in cammino
  9. In controtendenza
  10. Parte seconda Lessico autobiografico
  11. PAROLE OPACHE IN INTRIGO Alle quali porre domande
  12. III. Intermezzo Il giorno in cui Rachele iniziò a scrivere di sé
  13. Breve cronaca di persone, corpi e idee
  14. Parte terza Otto saggi brevi. Parole che divengono discorsi
  15. Approfondimenti
  16. i Stati di grazia
  17. Ii Presa di coscienza
  18. III SOGNANDO: Come su carta velina
  19. IV Verità?
  20. V Della finzione
  21. VI Soltanto apparenze
  22. VII La tristezza necessaria
  23. VIII Commiati
  24. Epilogo Il mio addio per sempre alla lettera 32
  25. TRA NOSTALGIE RENITENZE E ROSSORI