Il paradosso della percezione
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Il paradosso della percezione

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Il paradosso della percezione

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Informazioni sul libro

Che natura ha l'oggetto della percezione? E come dobbiamo pensare le proprietà che lo caratterizzano percettivamente? Sono questi i temi che vengono discussi in queste pagine che cercano di far luce sul concetto di percezione, riflettendo sulla filosofia di Locke, Berkeley, Reid e sulle diverse forme del realismo diretto.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788857562957

Premessa

Quando si scrive un libro, anche piccolo, si immagina un lettore attento che legga con la matita in mano quel che si è scritto e che lo legga dalla prima pagina all’ultima, concedendosi poche, brevi pause – per pensare, naturalmente. È difficile rinunciare del tutto a questa fantasia, ma in questo caso devo riconoscere che questo librettino può essere affrontato con più libertà: in fondo, dopo aver letto il primo capitolo, che spiega per grandi linee il problema, si può decidere se sia opportuno continuare la lettura pagina dopo pagina, seguendo il percorso che il libro suggerisce o se sia meglio invece tornare all’indice e decidere di leggere anche soltanto uno dei capitoli che seguono – quello da cui ci si sente maggiormente attratti. È possibile farlo: si tratta di brevi ricerche, in larga misura autonome, il cui senso si comprende bene se le si dispone sullo sfondo del paradosso della percezione su cui si soffermano le pagine iniziali di questo librettino.
Sono ricerche brevi, che dovrebbero e potrebbero essere ulteriormente approfondite1, ma il loro fascino (se mai ne hanno uno) consiste nel riprendere in una prospettiva particolare problemi che sono noti, per ripensarli con un po’ di libertà. Può essere utile farlo talvolta, e io credo che leggere i filosofi tenendosi ad una certa distanza dai loro testi possa suggerire una via per riguadagnare lo spessore filosofico dei problemi che intendevano discutere. Così, anche se queste pagine sono rivolte a chiunque desideri riflettere sulla natura della percezione, le ho scritte soprattutto pensando a chi insegna e deve cercare di restituire ai suoi studenti il senso e non necessariamente la lettera dei problemi che filosofi come Locke e Berkeley, Reid e Husserl hanno saputo rendere così affascinanti e vivi.
Anche se questo libro ha un taglio prevalentemente didattico, la matita è, in ogni caso, utile. Non è un manuale e non è sempre di facile lettura: è un libro che propone e discute una tesi filosofica, sia pure nella forma di un suggerimento che andrebbe ulteriormente articolato. Bisogna quindi leggerlo con un po’ di pazienza2.
Un libro breve non può avere una premessa troppo lunga; eppure, prima di lasciarci alle spalle queste considerazioni introduttive, è opportuno riconoscere che il disegno di questo librettino ha un debito rilevante con due opere di filosofia, molto diverse tra loro per stile filosofico, ma meno lontane l’una dall’altra di quanto non possa sembrare di primo acchito.
La prima opera è la Crisi delle scienze europee di Husserl: chi legga con un poco di attenzione la storia della filosofia moderna che occupa la prima parte di questo libro si imbatte nella tesi secondo la quale la percezione è diventata un paradosso che rende enigmatico da un lato la natura dell’oggetto percepito, dall’altra il suo stesso manifestarsi nella percezione. Anche se la via che ho ritenuto giusto seguire non può essere ricondotta alle tesi husserliane, è indubbio che il paradosso della percezione che discuto è, nella sua duplice natura, proprio quello su cui Husserl riflette nella Crisi. Ed è altrettanto evidente che è da Husserl che traggo la convinzione che il paradosso possa essere messo in scena affidando le parti a filosofi della modernità – a Locke e a Berkeley. E naturalmente alla fenomenologia, cui Husserl affida il compito di suggerire la via per venirne a capo.
L’argomento di questo libro è suggerito dalla Crisi, ma non la sua forma espositiva. Husserl non dà una forma esplicita al paradosso e piuttosto che fissare le proposizioni tra cui occorre mostra perché l’una debba sorgere dall’altra nel tentativo di sciogliere il nodo che si è formato3. Una formulazione esplicita la propone invece Bill Brewer in un libro del 20114. Anche nei confronti di quest’opera, che lega a sua volta il paradosso della percezione alla storia della filosofia moderna, le pagine di questo libriccino sono in debito. In questo caso, tuttavia, il debito concerne forse più la forma dell’esposizione che le tesi effettivamente sostenute, che si discostano in più di un punto da quanto Brewer sostiene. Il debito, tuttavia, c’è, e anche in questo caso è giusto riconoscerlo apertamente.
Ecco tutto. Ora è il caso di cominciare.

1 Questo vale soprattutto per l’ultimo capitolo che avrebbe dovuto essere molto più ampio, contravvenendo alla regola di brevità cui questi librettini devono attenersi.
2 Per non chiedere al lettore troppa pazienza, ho ridotto al minimo le note e le citazioni che rimandano comunque quasi esclusivamente ai testi di Locke e di Berkeley. Si tratta di opere pubblicate in molte e diverse edizioni e traduzioni e per questo, per rendere più facilmente reperibili i passi che discuto, mi sono avvalso nella norma della partizione che del testo hanno fatto i loro autori – una partizione in libri, capitoli e paragrafi che rende i testi facilmente dominabili.
3 Husserl traccia una storia e descrive una genesi, e questo fa sì che il paradosso della percezione abbia nelle sue pagine una formulazione soltanto implicita.
4 B. Brewer, Perception and its Objects, OUP, Oxford 2011.

Capitolo primo
Il paradosso della percezione

1. La percezione è un enigma?

Sul tavolo c’è una penna, la vedo e stendo la mano per prenderla – che cosa c’è di più ovvio di questo? È talmente ovvio che ogni tentativo di dire qualcosa di più per spiegarsi suona un po’ lambiccato e ridicolo. Se qualcuno ci dicesse che stendiamo la mano perché vediamo che la penna è là, fuori di noi, reagiremmo – credo – dicendo che questa precisazione è del tutto inutile e che è senz’altro meglio farne a meno, se non vogliamo creare inutili fraintendimenti 1.
I filosofi, tuttavia, sono molto bravi a trasformare le cose ovvie in problemi: in un certo senso si può dire anzi che sia il loro mestiere. Chiediamoci allora in primo luogo da dove abbia origine la percezione. La percezione è un evento che accade in me: è una modificazione reale del mio stato corporeo e psichico. Ora, ogni modificazione implica un’azione che costa energia, e questo è vero anche per la percezione: se vedo la penna è perché c’è un fronte di onde – la luce ambientale – che giunge sino ai miei occhi ed agisce sui miei organi di senso, sulle vie nervose e, infine, sul cervello. La luce ambientale è ricca di informazioni: i raggi di luce che giungono sino agli occhi permettono di ricostruire punto per punto, secondo le leggi della geometria proiettiva, la forma degli oggetti, mentre i colori ci dicono che le superfici oggettuali sono capaci di riflettere o di assorbire certe frequenze d’onda. Di anello in anello la catena percettiva giunge alla meta, recando l’informazione di cui è portatrice: la luce penetra attraverso la pupilla e sulla retina si disegna un’impronta; il nervo ottico la trasmette al cervello che la elabora in vario modo, ottenendo un’immagine accurata della realtà, proprio come dalle tracce lasciate nel fango ci si può fare un’idea di chi le abbia lasciate.
Un’idea indiretta, naturalmente, e in qualche misura incerta: prima di essere l’impronta di un uomo che corre, la traccia è una certa conformazione del fango che potrebbe essere stata prodotta ad arte o essere frutto del caso. Lo stesso accade quando vediamo qualcosa: l’ultimo anello della catena percettiva – l’unico che propriamente ci è dato – ci consente di dire che c’è una penna sul tavolo, ma lo stato cerebrale che corrisponde a questa esperienza avrebbe potuto essere frutto di infinite altre cause, esterne o interne al nostro organismo. Ma se così stanno le cose, allora non sembra lecito sostenere che vediamo la penna sul tavolo, ma solo che abbiamo un’esperienza percettiva – un certo vissuto – cui di solito corrisponde nel mondo l’esserci di un certo oggetto. La penna là fuori non la vediamo affatto; abbiamo invece, qui dentro, un evento psichico che può fungere da segno dell’esserci e dell’esser così di un qualche oggetto del mondo.
La conclusione cui siamo appena giunti sembra avere dalla sua le ragioni di una ricostruzione obiettiva del processo percettivo ed è, per certi versi, senz’altro plausibile; si scontra tuttavia con quella che ci sembra una verità elementare: noi diciamo di vedere e di toccare la penna sul tavolo e non abbiamo il minimo dubbio che quello che vediamo e tocchiamo siano oggetti reali e che siano come la percezione li mostra. A noi sembra di poter ragionare così: quando vediamo la penna sul tavolo non è solo perché vi è un qualche oggetto in un punto del mondo capace di creare in noi proprio questo effetto psichico. Noi siamo certi che ci sia una penna perché la vediamo e siamo certi che sia fatta così – come si mostra ai nostri occhi. La percezione sarà pure un vissuto soggettivo, ma ci parla delle cose del mondo e le rende manifeste.
È difficile conciliare queste due immagini della percezione che sembrano entrambe plausibili se consideriamo la percezione ora da una prospettiva esterna, come un accadimento tra gli altri nel mondo, ora da una prospettiva interna – dalla prospettiva del soggetto che ha un’esperienza del mondo e delle cose. Si tratta di due prospettive plausibili, ma apparentemente inconciliabili, ed è per questo che sembra necessario riconoscere che la percezione è un enigma che si manifesta sotto due differenti forme su cui è necessario riflettere.

2. Il duplice paradosso della percezione

L’enigma della percezione ha innanzitutto a che fare con la natura dell’oggetto percepito: se diamo ascolto alla prospettiva interna, la percezione è rivolta agli oggetti del mondo, alle cose che ci circondano, ma se ci poniamo nella prospettiva esterna sembra necessario sostenere che ciò che propriamente ci è dato sono i vissuti e che nulla nella nostra coscienza muterebbe se non esistessero le cose e il mondo che le racchiude. Cartesio ragiona così, ed è per questo che ci invita a reduplicare la nozione di oggettività: c’è l’oggetto mentale che ci è propriamente d...

Indice dei contenuti

  1. MIMESIS / Le scintille
  2. Premessa