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Springsteen e l'America: il lavoro e i sogni

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Springsteen e l'America: il lavoro e i sogni

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Informazioni sul libro

Nessuno sa raccontare Bruce Springsteen come Alessandro Portelli. La sua capacità di leggere i testi delle canzoni, unendo gli strumenti della storia orale alla conoscenza della letteratura e della società americana, gli permette di esplorare in profondità l'universo del Boss. Dopo il successo di Badlands, uscito nel 2015, Portelli rimette mano alle sue carte per consegnarci un'edizione completamente rivista e aggiornata di quel fortunato libro, diventato un oggetto di culto non solo per i fan di Springsteen, ma anche per chiunque voglia conoscere più a fondo il rapporto fra popular music e società americana. Portelli continua il dialogo con Springsteen confrontandosi con le sue produzioni più recenti: la leggendaria performance di Broadway, a cui ha avuto la fortuna di assistere, e il nuovo album Western Stars. Slittando dalla musica alla letteratura, dalla storia al presente, Portelli mette la sua nota affabulazione al servizio del cantore dell'America che più ama, quella fondata sul lavoro, un'America in cui la promessa della mobilità sociale e della realizzazione di sé è spesso frustrata e tradita. Ed è proprio attraverso la lente del lavoro che il libro guarda al mondo del grande artista: il lavoro che divora le vite dei suoi personaggi, e il suo lavoro, quello di musicista e di uomo di spettacolo. Il Bruce Springsteen narrato in queste pagine è quello che racconta vite di seconda mano, come le vecchie Cadillac su cui i ragazzi sfuggono al tedio di una quotidianità ripetitiva e senza sbocchi; che canta la rabbia di chi si ribella e di chi sogna di ribellarsi; che dà voce al senso di tradimento di chi crede che essere nato negli Stati Uniti lo autorizzi ad aspettarsi qualcosa di meglio; che avverte come il fantasma della rivolta torni ad aggirarsi sulle strade di un'America in crisi.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788855221061

VIII. Land of Hope and Dreams

Non ho mai lavorato cinque giorni alla settimana fino a oggi. Non mi piace per niente! Non ho mai visto com’è fatta una fabbrica dentro, eppure non ho mai scritto altro che di questo. Avete davanti a voi un uomo che ha avuto un successo assurdo e sconvolgente scrivendo su cose di cui – non ha avuto assolutamente nessuna esperienza diretta. Ho inventato tutto. Visto quanto sono bravo?
(Bruce Springsteen, Springsteen on Broadway, 2017-18)

1. È il mio lavoro.

Dice Bruce Springsteen: «Dylan era un rivoluzionario. Anche Elvis lo era. Io non sono così. [Mi vedo] piuttosto come un meccanico. Sentivo che se mai avessi concluso qualcosa, lo avrei fatto in un lungo periodo di tempo, non in un’enorme esplosione di energia o di genio. Per mantenere il senso delle proporzioni, lo consideravo un lavoro [“a job”] – qualcosa che fai tutti i giorni e per molto tempo»1.
Il 13 settembre 1984, dopo aver assistito a un concerto di Bruce Springsteen, l’opinionista conservatore George Will scriveva: «Se tutti gli americani – lavoratori e dirigenti, che fabbricano acciaio o automobili o scarpe o tessili – facessero il loro lavoro con la stessa energia e sicurezza con cui Springsteen e la sua allegra banda fanno musica, il Congresso non avrebbe nessun bisogno di pensare a misure protezionistiche»2. Pochi giorni prima, il giornalista televisivo Bernard Goldberg aveva affermato che i concerti di Springsteen sono «come gli antichi revival religiosi, con lo stesso antico messaggio: se lavorano abbastanza duro e abbastanza a lungo, anche loro possono arrivare alla terra promessa»3.
Si tratta di un paio dei più smaccati e superficiali tentativi di appropriazione di Springsteen nel furore di sciovinismo mascherato da patriottismo della campagna elettorale di Reagan nel 1984. Ma una cosa George Will l’aveva azzeccata: quello che fanno Springsteen e la E Street Band sul palco in concerto è lavoro, nel senso più pieno del termine. «Guardate le dita bendate di Max Weinberg. La dura fatica delle percussioni lo ha costretto a cinque operazioni ai tendini», scriveva. Tuttavia, conclude, «la E Street Band fa abbastanza soldi da lenire il dolore»4.
È vero: le gratificazioni non sono solo monetarie. Il lavoro della E Street Band è fatica e sudore, ma è anche qualcosa di più immateriale: un rapporto, una visione, una condivisione di valori, una fonte di orgoglio e di bellezza. Ma tutto questo è reso possibile dal lavoro. «Ho sempre amato sentirmi il sudore sulla camicia», canta Springsteen in «Shackled and Drawn»; in più di uno dei video postati su YouTube (per esempio, quello del concerto di Londra del 2013)5 si vede chiaramente il sudore che gli si allarga sulle spalle e sotto le ascelle. «Il segno fondamentale dell’autenticità di Springsteen», scrive il sociologo e musicologo inglese Simon Frith, «è il sudore»6. È un’autenticità, come sempre in Springsteen, sia spontanea sia accuratamente inscenata: un suo concerto è sia fatica sia una rappresentazione della fatica, in cui è importante che il sudore sia tanto prodotto quanto percepito7. Il metallo della musica è davvero heavy metal, metallo pesante, e lui e la E Street Band lo sollevano e lo fanno volteggiare con tutte le forze. In tournée, sono tre o quattro ore di rock and roll energico, più di trenta canzoni a sera e mai le stesse: qualunque cosa succeda, «io sarò sul palco a suonare le mie canzoni, a dare tutto quello che ho al pubblico. Questo è il mio mestiere»8.
Ricordo che molti anni fa, in pieno autunno caldo, il pianista Maurizio Pollini disse agli operai di una fabbrica occupata che anche il suo era un lavoro faticoso e manuale. Sembrò una sparata populista, accolta con ragionevole scetticismo; e certo Pollini non intendeva dire che il suo lavoro e quello degli operai erano la stessa cosa. Ma era un lavoro, e aveva anch’esso un aspetto di fisicità e di fatica. Raccontava Pollini che Rubinstein gli aveva insegnato a esercitarsi con un peso sulle spalle: «mi depose la mano sulla spalla facendomi sentire il peso del braccio; perciò non si stancava mai, così diceva. Il fisico ti consente di avere il suono che desideri»9.
«That’s my job»: ripetutamente, Springsteen parla di quello che fa come un «job», un mestiere, un lavoro, un dovere nei confronti di chi lo paga: «il tuo biglietto è la nostra stretta di mano»10. «C’è bellezza nel lavoro, in ogni genere di lavoro. Ed è così che lo considero. Questo è il mio lavoro [“my job”]. Il mio lavoro. E mi faccio un mazzo tanto, sul serio», dice al suo biografo, Dave Marsh. Nel 2012, parlando alla stampa internazionale a Parigi, a 63 anni, un passo da quella che per molti sarebbe l’età della pensione, Bruce Springsteen torna su quella che lui chiama – con un termine che viene dall’organizzazione del lavoro – la sua «job description», il suo mansionario, e sul suo contratto con quello che chiama il suo datore di lavoro, il pubblico.
Quello che voglio fare è, per esempio, quello che Bob Dylan ha fatto per me, cioè spalancare la porta del tuo corpo e della tua mente, e farti venire voglia di muoverti e di arrabbiarti e di innamorarti e di puntare a qualcosa di più alto di te stesso e razzolare anche in qualcosa di più basso. La job description è questa. È per questo che la gente ti paga: ti pagano per qualcosa che non si può comprare; si può solo manifestare e condividere. È allora che fai un buon lavoro («a good job»)11.
Al di fuori della musica, Bruce Springsteen non ha mai avuto un lavoro: «In realtà, ho lavorato come giardiniere una volta, ma non è durato a lungo, anche se probabilmente è stato l’unico vero job che ho mai avuto». Anche se considera la musica un lavoro, sa che i «lavori veri» sono altri12. Ma la risposta vera forse sta altrove. L’operaio di «Youngstown» dice che dopo morto preferisce essere rimesso a lavorare ai fuochi dell’inferno, perché lui il lavoro del paradiso non lo sa fare. Ecco, il lavoro di Bruce Springsteen e della E Street Band non sarà un lavoro d’inferno, ma il lavoro del paradiso reaganiano loro non lo conoscono e non lo vogliono fare. In paradiso non si suda, e loro continuano a lavorare sulla terra.

2. Suono e senso.

In «Highway Patrolman», il protagonista ricorda quando lui e suo fratello si scambiavano giri di ballo con Mary, mentre «the band played “The Night of the Johnstown Flood”». Non esisteva allora nessuna canzone con quel titolo; però era esistita davvero la disastrosa alluvione, un Vajont ante litteram che nel 1889 aveva provocato più di duemila morti per il crollo di una diga in Pennsylvania13. Inventandosi la canzone, Bruce Springsteen non sta soltanto applicando la sua poetica fatta di dettagli minuti e realistici, anche se non necessariamente reali. Sta suggerendo anche qualcosa che riguarda un po’ tutta la sua musica: è possibile avere una canzone su una tragedia, e ballarci sopra. Come ha scritto Marina Petrillo, «i suoi singoli di maggior successo sono sempre stati ambigui, grandi ballabili (e cantabili) che celavano nel testo una cupa angoscia». Per esempio, scrive Eric Alterman, «la melodia ballabile [di “Hungry Heart”] ospita un cuore lirico di tenebra […] eppure la cantiamo in coro con la radio, catturati da un aggancio melodico irresistibile come un classico dei Beach Boys»14.
È vero questo, come è vera l’idea che i testi siano letteralmente nascosti dentro la musica – «il filo micidiale sotto la superficie della musica», come scrive Springsteen stesso a proposito di Magic15. Questo è dovuto in parte anche al fatto che il pubblico del rock, specie quello dei concerti, è disabituato a fare attenzione alle parole, e in parte al fatto che le parole sono talmente importanti per Bruce Springsteen che spesso (specie nei primi dischi, ma non solo) ne affastella tante che faticano a entrare nelle frasi musicali e la sua dizione non è sempre chiarissima: persino alcuni dei fan più accesi dicono che fanno più attenzione al suono perché non riescono a capire la dizione ingarbugliata con cui Springsteen enuncia le parole16. Del testo spesso si percepisce soprattutto una frase, un’immagine, che è quasi sempre quella del refrain («glory days», «born in the U.S.A.», «hungry heart», «we take care of our own»…); e siccome la relazione fra il refrain e il resto delle storie è spesso ironica, questa modalità di ascolto sbilancia il delicato equilibrio dei brani.
Ma è vero anche l’inverso: se li si ascolta, i testi gettano un’altra luce sulla musica. Gran parte del significato, allora, non sta né nei testi né nelle musiche, ma nella tensione fra loro. Scrive Luis P. Masur che «Tenth Avenue Freeze-Out» è «la canzone più gioiosa che sia mai stata incisa su una storia di solitudine e di abbandono». «Canzoni come “Darlington County” e “Working on the Highway” – scrive Jimmy Guterman – sono intenzionalmente ambigue. Le puoi ballare e le puoi gridare, oppure ti puoi chiedere che cosa succede sotto tutti quegli sha-la-la»17. Ascoltare solo il suono e il refrain trascinante di «Born in the U.S.A.» genera i malintesi che sappiamo; ma ne genera anche leggere solo le strofe e trattare il suono come una mera sovrastruttura.
Questa relazione peraltro non è sempre chiara. Scrive per esempio Jim Cullen: «“Hungry Heart” è una canzone allegra su un tale che lascia moglie e figli»; «ha un’aria così orecchiabile e allegra che è facile non accorgersi delle complessità che stanno in agguato lì dietro». E Larry David Smith: «“Cover Me”, “Glory Days”, “Dancing [in the Dark]” e “Bobby Jean” trattano di situazioni negative [ma] la sofferenza che c’è sotto è annegata dentro strutture musicali che mascherano le situazioni emotive dei personaggi». In realtà, quello di cui è difficile non accorgersi è quanto significato sta nelle «strutture musicali» di questi brani; non c’è bisogno di essere musicologi per capire che la musica non serve a nascondere le complessità, ma ad aggiungere un livello di complessità emotiva e politica ulteriore18. Giustamente, Dave Marsh osserva che c’è tanto senso della morte in «Glory Days» quanto in tutti i brani di Nebraska, ma che il senso del brano deriva proprio dall’«atmosfera contraddittoria della musica»19. Dice Bruce Springsteen che bisogna essere capaci di tenere in mente due idee completamente contraddittorie; in parte, questo lo fa anche creando una relazione di contraddizione, conflitto, dialogo, tensione fra quello che dice e come lo dice. Così, il ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione. Growin’ Up
  6. I. The Working Life
  7. II. Thunder Road
  8. III. Downbound Train
  9. IV. Born in the U.S.A.
  10. V. This Land
  11. VI. Jack of All Trades
  12. VII. Another Dance
  13. VIII. Land of Hope and Dreams
  14. Epilogo. Autostrada del Sole, 2015
  15. Bibliografia dei testi citati
  16. Indice degli album e delle canzoni citati