Il teatro lancia bombe nei cervelli
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Il teatro lancia bombe nei cervelli

Articoli, critiche, recensioni 1915-1920

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Il teatro lancia bombe nei cervelli

Articoli, critiche, recensioni 1915-1920

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Una raccolta di articoli pubblicati sulle pagine de "l'Avanti" tra il 1915 e il 1920 per riscoprire la produzione di critico teatrale di un allora giovanissimo Antonio Gramsci. Prima di passare il testimone a Piero Gobetti, Gramsci svolse con grande passione l'impegno di cronista teatrale per conto del quotidiano socialista. Durante questo periodo, si distinse come uno dei pochi in grado di porre attenzione e di cogliere i risvolti sociologici e ideologico-politici legati al messaggio culturale che il teatro, per sua natura, genera. Era la fase in cui l'ideologia borghese conosceva in Italia un momento di profonda crisi. Nei suoi commenti, spesso polemici e corrosivi, Gramsci non mancò di evidenziare un rispecchiamento tra la decadenza dello spirito borghese e il conformismo di certe opere teatrali. L'attività di giornalista militante e di acuto pensatore politico, che ha doverosamente consacrato il filosofo sardo come una delle menti più lucide del nostro Novecento, non può dunque essere disgiunta da questa raccolta di scritti, tutt'altro che marginali da un punto di vista sia qualitativo sia quantitativo.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788857545233

1916




I denari sono pochi. Come diceva Fanfulla a Barletta. I denari che Torino ha dato per la guerra son pochi. Ma guai a dirlo. I giornali cittadini salterebbero su subito a protestare e, con uno di quegli sgambetti contabili in cui sono tanto abili i giolittiani e gli altri, dimostrerebbero in modo lampante che Torino, in rapporto alla sua potenzialità economica, ha anche fatto troppo. Ma è inutile; i denari son pochi. Si sente che in Torino manca quello slancio, quell’amore appassionato, quella fede in un’idea che… fa vuotare i portafogli, che sveglia la facoltà inventiva e fa trovare il mezzo più adeguato per rendere più fruttifera che sia possibile un’iniziativa. Cosa si è fatto dalla nostra patriottica borghesia? Si è scocciato tremendamente il prossimo con uno stillicidio di signorine armate di fiori e di sorrisi più o meno allettanti, si sono tirati fuori i più frusti ferrivecchi dell’oratoria di parata, si sono dati spettacoli che hanno fatto sbadigliare i pochi volenterosi, ma è stato inutile; i denari sono rimasti pochi, pochi… Solo la passione può suggerire certe cose. Può far capire che se si vuol far quattrini è necessario trovare qualcosa di nuovo, che i soliti impresari non possono offrire; che il mezzo più adatto non è quello di fare degli spettacoli di beneficenza una superfetazione dei soliti spettacoli quotidiani, perché altrimenti gli industriali del divertimento, vedendosi fare la concorrenza, e in modo, per di più, idiota, protestano e borbottano. Come è successo l’altro giorno a Torino. Il 3 doveva tenersi al Salone Ghersi una delle solite fiere, con esposizione dei versi di Arturo Foà, di signorine che avrebbero prestato gentilmente la loro opera, di film deamicisiane, e con la partecipazione di Dina Galli e di Amerigo Guasti. Si capisce che era su questi due ultimi che si contava per l’incasso. Ma all’ultimo momento patatrac: la società Suvini Zerboni pone il suo veto, e proibisce «in modo assoluto agli attori ed alle attrici di recitare fuori dei teatri». Ed è naturale ed industrialmente logico. Come era naturale e logico che a Milano, invece, gli attori e le attrici abbiano potuto dare la loro opera per una serata di beneficenza del genere, ma non della specie. Perché a Milano i giornalisti avevano organizzato uno spettacolo che nessun impresario avrebbe potuto dare, e che fruttò 13000 lire. A Torino si voleva semplicemente sfruttare il nome e la popolarità di due impiegati della ditta, e questa infine non ha accettato; e per incassare 13000 lire chissà quanti Fradeletto e quanti Doria dovranno ancora imbonire il pubblico.
Sicché… i denari rimangono pochi. I denari non bastano. E nessuno sa inventare il modo migliore per farli sborsare ai torinesi che pure tutte le sere affollano i ritrovi pubblici e per divertirsi ne spendono di denari, oh se ne spendono!
(6 gennaio 1916, Sotto la Mole)


E lasciateli divertire. I proprietari dei padiglioni per i pubblici spettacoli in piazza Vittorio hanno indirizzato al sindaco un memoriale, del quale non si sa se ammirare di più lo spirito di civismo o la logica della grande tradizione liberale italiana. Sicuro, i proprietari ecc. hanno dato una lezione di liberalismo al giornale nel quale aleggia ancora, specialmente per quanto riguarda il formato e la distribuzione dei vari caratteri tipografici, lo spirito di Giovanni Botero.
Essi dicono: se a Torino anche durante questo carnevale, c’è della gente che vuole divertirsi e passare allegramente quei dati giorni del calendario destinati da tempo immemorabile alle grandi mangiate e alle grandi bevute, perché l’autorità costituita dovrebbe intervenire e impedire questa libera manifestazione della volontà nazionale?
D’altronde, se il pubblico vorrà per quest’anno rimanersene a casa e destinare il superfluo del bilancio domestico o al prestito nazionale, o alla Croce Rossa, o a qualsiasi altra istituzione di beneficenza bellica, a perderci saremo noialtri che ci saremo sacrificati per dimostrare ai tedeschi che in Italia l’allegria non manca anche in tempo di guerra, e che noi italiani siamo superiori anche a certi piccoli incidenti che sono la guerra europea e la morte all’ordine del giorno e della notte, come magnificamente ha sostenuto il consigliere nonché socialista dott. Aroldo Norlenghi.
Noi non possiamo contraddire gli egregi proprietari ecc., tanto più che siamo persuasi che il loro civismo e il loro spirito di sacrificio non andranno delusi. La prima impressione che i soldati reduci dal fronte manifestano venendo a Torino è questa: ma si sa a Torino che c’è in Italia lo stato di guerra guerreggiata, e che al confine si muore e ci si sacrifica ora per ora in sofferenze indicibili, in martirî inumani? In verità, a Torino, chi se ne accorge chiude il proprio dolore dietro il chiavistello della propria porta di casa, e spasima nel proprio interno monologando. La città continua olimpicamente nella sua vita tradizionale: i ritrovi sono frequentati come mai non furono, le strade sono affollate allo stesso modo, la borghesia guadagna dalla guerra come mai avrebbe sperato, e vuol spendere, naturalmente: in breve volgere di tempo sono state aperte due nuove elegantissime confetterie e un salone cinematografico quale non ce ne deve essere molti in Europa. Pasquariello e Petrolini furoreggiano; Dina Galli vede le pochades del suo repertorio far affollare il teatro di piazza Solferino.
Sì, è vero, si vedono in giro meno giovani, incominciano ad apparire dei soldati, che via! non sono in istato normale. Ma non ha detto il prof. Loria che tanto tutto nella vita è dolore? E dunque, noiosissimi seccatori, lasciate che i torinesi si divertano, lasciate che in piazza Vittorio riappaiano le giostre e le pulci ammaestrate e la bella Virginia nel bagno. I tedeschi sapranno che almeno a Torino la guerra non ha portato nessuno squilibrio, e l’onore d’Italia sarà salvo.
(9 gennaio 1916, Sotto la Mole)


«La falena» di Bataille al Carignano. Freddissima accoglienza ha avuto la nuova commedia del Bataille, La falena, portata dinanzi al pubblico torinese dalla compagnia Gramatica-Carini-Piperno. E il pubblico non ha avuto torto. Tre atti lunghi, pesanti, senza azione, costruiti completamente sul dialogo, che a forza di voler essere sottile, raffinato, diventa monotono, stucchevole, senza vivacità. La psicologia d’eccezione, se non è incarnata in una creatura viva, che diventi il centro motore di una azione adeguata, può riuscire a far costruire un romanzo passabile, ma nel teatro è fatalmente destinata a partorire opere fiacche, senza nerbo, come questa del Bataille. Vedendo svolgersi sulla scena i casi melodrammatici di una donna, che sapendo la sua vita crudelmente limitata da una malattia vuol godere tutto il piacere e vivere tutte le illusioni che un amore capriccioso le consente [censura].
Anche l’esecuzione fu da parte degli attori poco convincente e un tantino monotona, ciò che del resto non meraviglia.
(13 gennaio 1916)


«Omne trinum» di Veber. Anche la novità recitata dalla Compagnia Galli-Guasti-Bracci all’Alfieri, se non fosse stata sostenuta dalla virtuosità e dal brio degli attori, non avrebbero avuto il buon successo di pubblico che invece l’ha accompagnata. I due atti del Veber, Omne trinum, sono una pochade in cui manca precisamente l’elemento che giustifica dal punto di vista teatrale l’esistenza di questa forma drammatica: l’azione. Un susseguirsi di situazioni psicologiche e non di fatto, paradossali, eccezionali, grottesche, che si reggono sul dialogo fatto per stupire i buoni borghesi, che del resto non domandano altro per poter dire d’essersi divertiti.
(13 gennaio 1916)


Dina Galli all’Alfieri. Magnifica la serata d’onore di Dina Galli, che ormai è diventata a Torino la più popolare e la più ammirata delle attrici. Ella ha saputo, pur nel tritume della produzione comica francese, crearsi una personalità, rinnovandosi in ogni personaggio, riuscendo a trovare per ogni figurino una nota nuova, che le desse almeno l’apparenza della vita, rendendo signorile e ingenua anche la volgarità che in altri sarebbe stata abietta. E il pubblico l’ha colmata di fiori e di applausi.
(20 gennaio 1916)


Elogio della pochade. Odio le persone così dette serie, che cercano, abusando di questo loro carattere da commedia, di truffare la nostra buona fede. Preferisco l’impudenza sfacciata, la monelleria più scrosciante di allegria, anche l’abiezione che non ha vergogna di se stessa e si mostra trionfante alla luce del sole. Almeno so con chi ho da fare, so come regolarmi, non sospetto trappole al mio buon cuore, e se mi prende vaghezza in qualche momento della mia giornata faticosa, di fare contro i reumatismi della logica i bagni di fango, so dove andare e come cavarmela. Corro qualche pericolo, lo so, ma non mi spavento. Il pericolo per esempio di finire per preferire la schiuma al resto. Ma non me ne pento e non arretro interrorito. So che i centri inibitori del mio cervello sono ancora abbastanza robusti per trarmi dal precipizio al momento buono. E il cimento del rischio, del paradosso non è meno indispensabile alla vita del solito trotterello dell’asino logico quotidiano. E perciò faccio una confessione: amo la pochade, e mi diverto immensamente ad ascoltarla.
Ne so i difetti, ne so i trucchi e le macchinazioni, prevedo quasi dal primo atto dove andrà a finire, ma mi sento appunto per ciò sicuro dagli inganni, dalle truffe dell’arte seria. I grandi nomi che fanno accorrere il pubblico grosso ai teatroni di qualità, mi spaventano e mi riempiono di apprensione. So già che avrò da fare con gente che vuol imbonire, che leviga e assottiglia le angolosità per rendersi meno urtante, che giulebba i noccioli più spinosi e meno digeribili per farli inghiottire senza singhiozzi, e sto male per qualche tempo pensando che è ancora possibile, vellicando un po’ la pancetta della cicala borghese, farla strillare in un senso piuttosto che in un altro. E perciò preferisco la pochade. La ritengo più igienica per i miei nervi, tanto più se l’arte di Dina Galli le toglie la patina più appariscente di volgarità, e le dà in prestito la sua vita artistica. Tra la Falena di Bataille, o le Donne forti di Sardou, e la Dame de chez Maxim’s, preferisco quest’ultima, che non ha pretese, e non nasconde il belletto e la sfacciataggine.
Ma una cosa non posso sopportare in nessun modo: la pochade che vuol essere solo «commedia comica», Virginia che vuol continuare la Locandiera, e Paolo che vuol continuare Florindo o Lindoro.
(22 gennaio 1916, Sotto la Mole)


«Paolo e Virginia» di Ambrosini e Michelotti all’Alfieri. Dobbiamo riconfermare la prima impressione. Ce ne dispiace per l’Ambrosini, specialmente, del quale ricordiamo con sempre vivo godimento i bozzetti storici di grandissimo valore, ma la nuova commedia Paolo e Virginia non ci convince e non ci può piacere. E non per la ingenuità tecnica, per le manchevolezze sceniche, che si possono perdonare in un primo tentativo e che possono anzi essere prova di ingegno drammatico potente che si dibatte sulle prime fra le pastoie delle necessità della pratica, ma perché la commedia è una offesa al buon gusto e al senso comune. Tutto è artificioso, voluto, riflesso. Nessun abbandono dell’autore verso le creature della sua fantasia che le renda indipendenti, libere, vive di attività propria, ma invece la sensazione implacabile della preoccupazione del successo, dello sforzo cerebrale, e senza possibilità di uno sbocco nell’azione. Il primo atto è appiccicato colla colla al resto: serve per lo spunto, per giustificare il titolo, per poter riallacciare i personaggi col celebre romanzo del languido e rugiadoso Saint-Pierre, e per poter adombrare, senza riuscire a completarlo, il carattere di Virginia, condannata a vivere di una vita doppia, libresca per il ricordo dei due sfortunati amanti del buon tempo antico, e piena di impulsi e di curiosità di vivere della monelluccia moderna. Ma del resto tutti i personaggi ragionano, ricordano e mai operano. La comicità è di parole, di freddure, e non sempre di buon gusto, anzi per lo più tolte dal vecchio repertorio caricaturale, cosìcché spesso gli attori ne rimangono oppressi; come il povero Conforti (Paolo), al quale è fatta ripetere, per cercare di renderlo più scialbo e più grottesco, la vecchia boutade del viaggiatore che non può cambiare il posto incomodo con un altro, perché nello scompartimento egli è solo.
E altre e altre, stillicidio noioso e schiacciante con parentesi di grossolanità come quella dell’albergatrice da due anni vedova che non ha potuto nell’intervallo coniugale procurarsi la più piccola soddisfazione. Gli interpreti fecero del loro meglio per dare tutto ciò che era possibile: ammirevoli, come al solito, la Galli e il Guasti.
(23 gennaio 1916)


«Il pomo della discordia» di Testoni al Carignano. Pomo della discordia tra il conte e la contessa Alberti pare sia il fatto che il loro unigenito è femmina e non maschio. Quindi separazione legale, carta bollata, ecc., e sentenza del tribunale che fa sì che Luciana, la prole non desiderata dal padre, debba trascorrere la sua vita a pezzi e bocconi, quattro mesi con l’uno e quattro mesi con l’altro dei suoi così suscettibili genitori. E la fanciulla, educata dal padre, a quanto dice l’autore, senza pregiudizi, o almeno, senza troppi pregiudizi femminili, prepara un complotto per rifare la famiglia così poco tragicamente separata. Salva la mamma da un cattivo passo, la conserva degna del papà, e poi riconosciutasi innamorata di un amico d’infanzia, scappa dal papà, gli impone un dilemma: o far la pace o perdere la figliuola che va a marito, e riesce dopo un seguito di avvenimenti superlativamente banali, a non essere più pomo della discordia, ma a maritarsi e a riconciliare i suoi fieri genitori. Tutta la commedia è imperniata sulla figura della fanciulla, che la Gramatica seppe rendere con vivacità e con spontaneità veramente degne della sua fama di grande artista, e su alcune parti del dialogo, d’un humour per lo più convenzionale, ma non senza qualche sprazzo di sano spirito piccolo borghese. Questo ormai forma a un tempo la ragione dei mezzi successi delle commedie del Testoni e della debolezza del suo teatro, fatto tutto di tali piccole cose che non riescono mai a organizzarsi in una commedia, in tutta una commedia. Insieme alla Gramatica, che seppe, senza contrasto troppo stridente, rendere e forse migliorare ciò che il Testoni aveva fatto della figura di Luciana, fu notevole il Carini. Non altrettanto bene gli altri.
(27 gennaio 1916)


Serata d’onore di Amerigo Guasti. Per la sua serata d’onore A. Guasti ha voluto mostrare al pubblico che l’ha sempre seguito con affetto e ammirazione, che egli non è solo quell’attore raffinato e intelligente che tutti conoscevano, ma che nel suo arco vi sono anche altre… corde. Dopo la rappresentazione della Passerella, che è stato un vero trionfo per lui e per la Galli, ha fatto conoscere il suo preziosismo musicale e vocale e la sua abilità di macchiettista, sapendo mantenere intatta la sua linea e il suo carattere non da … caffè concerto. Oggi la Compagnia metterà in iscena una novità per Torino: Scampolo, di Dario Niccodemi, che a Milano ha avuto un numero interminabile di riprese.
(28 gennaio 1916)


Serata d’onore di Emma Grammatica. Per sabato è annunziata la serata d’onore di Emma Grammatica, con la Moglie di Cl...

Indice dei contenuti

  1. Un Gramsci minore, ma non marginale: il critico teatrale
  2. Il teatro lancia bombe nei cervelli
  3. 1915
  4. 1916
  5. 1917
  6. 1918
  7. 1919
  8. 1920
  9. Le ragioni di una mostra
  10. Mimesis Filosofie del teatro