Parte seconda
Ontologia utopica:
logica della materia
VI.
Verso
la stella utopica:
un viaggio tra sistema
e narrazione
1. Volontà di sistema
Bloch ricorda spesso, nei suoi scritti, una battuta del suo maestro Simmel: che il giorno più brutto nella vita di un filosofo è quello in cui gli viene chiesto di esporre in una mezza pagina il nocciolo del suo pensiero. Analogamente, si può capire quanto sia stato difficile, per un pensatore come Bloch, scrivere un libro che condensa in forma sistematica i contenuti fondamentali della sua riflessione sull’utopia e sulla speranza. Non certo perché gli mancasse la capacità di concentrare sinteticamente l’essenziale o di coniare formule lapidarie ed incisive. Ma piuttosto proprio perché la sapienza dell’aforisma o del saggio, che da un’angolatura parziale sa cogliere e illuminare la totalità, non è quella del trattato, dell’esposizione sistematica.
È stata probabilmente questa difficoltà ad indurre Bloch ad accantonare per tanti anni il progetto di quell’opera fondamentale (il Sistema del messianismo teoretico) che avrebbe dovuto seguire immediatamente i “prolegomeni” del pensiero utopico (cioè Geist der Utopie [Spirito dell’utopia], 1918); opera che effettivamente egli comincia a scrivere nel 1923 con il titolo di lavoro Der absolute Augenblick [L’attimo assoluto] e che riprende a scrivere negli anni Trenta col titolo di impronta ormai marxista Theorie-Praxis der Materie, senza mai concluderla come tale. Cosicché solo al termine di una lunga stagione “saggistica”, coronata da Das Prinzip Hoffnung [Il principio speranza] (1959), anzi a conclusione della serie delle sue opere, questo disegno ha potuto trovare realizzazione in Experimentum Mundi (1975, tradotto in italiano nel 1980), sia pur ridimensionato, rispetto alle ambizioni originarie, ad esposizione della dottrina delle categorie, cioè, propriamente, alla “Logica” del sistema filosofico.
Ma perché Bloch ha voluto affrontare questa fatica? Che senso ha questa “volontà di sistema” (GEB 300 s.) in un pensatore sempre avverso al formalismo pedante, alla mania di inquadrare e classificare? Su questo singolare atteggiamento può forse illuminarci un passo autobiografico in cui Bloch, rievocando il periodo giovanile trascorso a Heidelberg in “simbiosi” spirituale con Lukács, racconta come a loro due riuscisse insopportabile l’“espressionismo sociologico” allora imperante, con la sua falsa bohème e col suo superficiale “feuilletonismo” (GEB 32 s.). Ci si aspettava da loro il pathos soggettivo dell’entusiasmo, della libertà più spregiudicata; essi invece preferivano il pathos oggettivo dell’ordine, del pensiero sistematico, del linguaggio volutamente dotto ed esoterico.
Ovviamente non si trattava soltanto di una reazione contingente, né di uno snobismo di maniera (che tra l’altro poteva mirare a contrastare la fama negativa di radicalismo avventuroso che li avvolgeva nel milieu di allora). Sotto l’allusione ironica bisogna leggere piuttosto l’espressione di un atteggiamento di fondo, che vede la necessità di raccogliere i “frammenti”, ossia le domande, i tentativi, le intuizioni, le formulazioni particolari, in un insieme in qualche modo unitario e orientato. A Bloch premeva conservare, sì, l’infinita apertura e spregiudicatezza della ricerca antiaccademica di un Simmel, senza però cadere nella disperazione e nell’indecisione di una filosofia del “può darsi”. Respingendo un simile formalismo vitalistico e insieme relativistico, Bloch mostra di non potersi accontentare di un metodo impressionistico che rinuncia ad avere, anzi a cercare un centro e una direzione. La “volontà di sistema” esprime l’esigenza di rapportare ogni momento particolare della ricerca ad un unico principio e ad una totalità comprensiva.
Occorre però intendersi sulla natura di questa sistematicità. È forse all’opera, qui, la seduzione di quella che oggi è di moda squalificare come “ragione totalizzante”? In un certo senso è innegabile che Bloch si muova nel solco della “ragione classica”, se per tale si intende non la ratio calcolatoria dello scientismo moderno, ma il logos della grande tradizione filosofica e soprattutto di Hegel. Bisogna però precisare che, per Bloch, la totalità cui il sistema rimanda non è un cosmo presupposto come già dato o necessariamente evolventesi, bensì il totum sperato, ancora fondamentalmente mancante e solamente anticipato nella teoria e nella prassi.
Analogamente, il principio che informa il sistema non è un fondamento assunto come dogma, bensì l’avvertimento inquietante e sospingente del “qualcosa” che manca, esprimentesi nel “domandare” originario, non sviato dalle prefigurazioni immature o parziali, ma aperto e teso alla ricerca della risposta appagante. Cosicché “ragione” non significa né pretesa assolutistica al monopolio della verità, né collezione di procedure o strategie conoscitive più o meno fortunate, bensì itinerario, cammino di esplorazione e di costruzione di un vivere sensato e realizzante che viene anticipato nell’esperimento del pensiero; viaggio avventuroso, se si vuole, ma guidato dalla “stella utopica” (GU1 341; GU3 217 [194]) che balugina nell’oscurità del domandare genuino non ancora assopito o distorto.
2. Logica e narrazione
Bloch disegna, dunque, un sistema dal carattere assai peculiare, per nulla (o ben poco) coincidente con i modelli tradizionali. Il che risulta già dal nesso ineludibile tra riflessione logica e racconto che Bloch introduce già in un frammento della Logik del sistema abbozzato nel 1923, parlando dell’atto e del soggetto del giudizio come momenti di un divenire che deve essere descritto come un viaggio nelle sue diverse tappe e nel correlativo rispondersi interagente di pensiero e realtà:
Ciò significa viaggiare ancora una volta con noi stessi, pensando, attraverso le cose. È ufficio del giudizio filosofico determinare l’io facendolo coincidere volta per volta col soggetto logico. [...] Triplice, anzi quadruplice è la significativa equivocazione del “soggetto”: è dapprima il soggetto pensante che determina, poi il soggetto del giudizio che con ciò si determina o predica, e infine il “soggetto figurale” con ciò pensato, che si oggettiva, o magari addirittura il soggetto cosmico che sta ad essi a fondamento, e che in definitiva viene esperimentandosi mediante il sempre nuovo urto dei soggetti figurali. L’atto stesso del giudizio è un accadere e così certo diventa qui necessario “raccontare storie”, ma ora non davvero nel senso di una qualunque psicologia (LM 44 s.).
In che senso allora la logica è costretta e tenuta a “raccontare storie”? Si possono indicare almeno due sensi, che peraltro sono anche connessi tra loro.
Il primo senso è segnalato dal fatto che, come la Logik del 1923 veniva affiancando la seconda edizione di Geist der Utopie, in cui si trova inserita una serie di piccoli brani narrativi, sotto il titolo “Alcune intenzioni simboliche, colte in concreto”, così l’elaborazione del trattato di logica degli anni Trenta è stata preceduta dalla pubblicazione del libro narrativo per eccellenza di Bloch: Spuren. Si tratta in realtà di una “priorità” sistematica: Bloch concepisce la narrazione, in quanto registrazione commentata di esperienze vissute, proprie o altrui, comunicate direttamente o tramandate indirettamente, reali o fittizie, come il necessario punto d’avvio di ogni riflessione, anche di quella filosofica. Egli l’ha anche dichiarato implicitamente collocando Spuren come primo volume dell’edizione complessiva delle sue opere, esplicitamente commentando e spiegando tale collocazione nel cap. 6 di Experimentum Mundi.
Si tratta di una precedenza del narrare sul riflettere, o meglio: di un iniziare a riflettere narrando, a partire da un’esperienza che suscita stupore e richiama l’attenzione, che si ripropone all’inizio di ogni singola tappa significativa dell’esposizione filosofica. Ancora più esplici...