Lenin e la dialettica
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Lenin e la dialettica

Teoria e prassi di un metodo rivoluzionario

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Teoria e prassi di un metodo rivoluzionario

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Ponendo al centro il tema della contraddizione oggettiva, la dialettica descritta da Hegel e accolta da Marx rappresenta uno dei più interessanti e persuasivi modi per decifrare il conflitto. Ignorata o fraintesa dalle socialdemocrazie europee, la dialettica suscita il grande interesse di Lenin, che la studia e la usa come arma teorica per l'individuazione delle contraddizioni dell'arretrata Russia zarista e nel confronto con le altre correnti politiche del tempo. Affiancando allo studio di Marx la dialettica di Hegel, Lenin sottrae il marxismo all'ortodossia della Seconda Internazionale, riflettendo su nodi critici irrisolti quali la teoria dello Stato e la prospettiva comunista. Alla luce di queste considerazioni, l'autore si propone di ricostruire alcune tappe del dibattito sulla dialettica dopo Hegel, concentrandosi non solo sugli aspetti strettamente teorici, ma anche sul peso che essa ha avuto nelle analisi e nelle scelte politiche di Lenin, sullo sfondo delle vicende che hanno preparato la Rivoluzione d'ottobre e accompagnato la costruzione dell'Urss.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788857567174
Cap. 3
Categorie del conflitto di classe nella Russia prerivoluzionaria
La Russia forma l’avanguardia del movimento rivoluzionario in Europa (MEW, Bd. 4, p. 576)
1. L’organizzazione della lotta, l’immaturità delle masse e la costruzione del partito
Fino a Materialismo ed empiriocriticismo, abbiamo visto, Lenin conduce diverse battaglie contro quelle che considera deviazioni dal marxismo. Si tratta di un periodo di chiarimento politico e ideologico interno al partito o circoscritto ai gruppi di opposizione allo zarismo, di una battaglia teorica in difesa del marxismo e del suo nucleo vitale: il materialismo storico, la lotta di classe e la dialettica. Le barricate e gli scontri del 1905 hanno dimostrato che il sentimento rivoluzionario stava crescendo, che esisteva una popolazione insofferente e desiderosa di mobilitarsi contro un regime tra i più arretrati e dispotici. Secondo Kerenskij in quei momenti si era verificato un cambiamento radicale nelle masse lavoratrici, si era spezzato il legame che esse avevano con lo zar243. La battaglia teorica non è tuttavia sufficiente a stabilire chi detiene l’egemonia244 sui movimenti e tra le classi in lotta. Parallelamente Lenin è anzi convinto che una lotta incisiva ed efficace contro lo zarismo presupponga una forte organizzazione, soprattutto in un paese caratterizzato da una notevole dispersione e frammentarietà ideologiche, per non parlare della elevatissima ignoranza delle masse operaie e contadine.
Occorre ora verificare quale ruolo svolga la dialettica nell’ambito di problemi essenzialmente pratico-politici. Si tratta di capire in che misura Lenin, nelle scelte politiche e organizzative e nella valutazione della natura dei soggetti in campo, faccia valere categorie dialettiche, si sforzi di cogliere le contraddizioni responsabili del marasma in atto nella Russia zarista per determinare l’orientamento del lavoro politico. Ancora una volta a imporsi è la tesi secondo cui le azioni politiche devono essere non il frutto di scelte soggettive, bensì l’esito di un’analisi concreta delle contraddizioni reali.
Nel rapporto tra operai e partito l’organizzazione e la preparazione delle masse assumono un peso importantissimo per Lenin. Ma quale idea ha il dirigente bolscevico della classe operaia? Egli giudica le classi sfruttate, destinate a prendere in mano gli strumenti per spezzare le loro catene, del tutto prive delle conoscenze e talora della coscienza indispensabili per azioni di lotta efficaci: “La storia di tutti i paesi attesta che la classe operaia colle sue sole forze è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradunionista, cioè la convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni, di reclamare dal governo questa o quella legge necessaria agli operai, ecc.” (V, 346). Il tema non è nuovo. Gran parte del pensiero filosofico-politico moderno ha considerato il popolo, anche se in grado di farsi talora un’idea più o meno chiara delle proprie drammatiche condizioni socio-politiche, comunque impossibilitato a superarle, proprio a causa di quelle condizioni, o privo del potere necessario per spezzare le proprie catene. Non lo si considerava in grado di sostituire la classe politica al potere, né di formare al proprio interno rappresentanti all’altezza degli affari di governo. Tutte le rivolte dal basso sono sempre state brutalmente represse. Se ci limitiamo alla storia moderna, una distinzione è tuttavia d’obbligo. Da una parte abbiamo la tradizione liberale che, per giustificare il monopolio del proprio potere, parla di una moltitudine eternamente immatura e della massa come di semplice bacino di forza lavoro (si pensi a Sieyès e Constant), ovvero evoca la sua eterna e naturale inattitudine politica e la sua conseguente inevitabile sudditanza. Dall’altra abbiamo parte della tradizione politica moderna, di stampo razionalistico e universalistico, che produce anch’essa un giudizio negativo sul popolo, al quale tuttavia ascrive il diritto di essere riconosciuto dal potere politico nei suoi diritti formali o anche reali, favorendo un processo di emancipazione. Da quest’ultima si distaccano comunque Marx ed Engels, che quel potere intendono superare, sebbene essi abbiano lasciato aperti e irrisolti molti punti proprio sulla questione del potere. Si tratta senz’altro di una schematizzazione, tanto maggiore se la si ricerca in autori e epoche diverse. Tuttavia, da Rousseau a Kant, dai giacobini a Hegel, non esclusi Marx, Engels e Lenin, la tesi di fondo, pur spiegata evocando contesti e motivazioni diverse, è che il popolo non possiede i mezzi culturali e le condizioni economiche per uscire dalla propria condizione di ignoranza e di impotenza. Ad esempio, la tesi secondo cui “il popolo è quella parte dello Stato che non sa ciò che vuole”, citazione tratta da Hegel, è annotata da Lenin nei Quaderni sull’imperialismo (XXXIX, 549).
La posizione di Marx sulla condizione dell’operaio, consegnata a più opere, non lascia adito a dubbi. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 – pubblicati come l’Ideologia tedesca per la prima volta nel 1932 – la sezione sul “lavoro estraniato” analizza ampiamente gli effetti dell’alienazione, consistente nel fatto che l’operaio “non si afferma nel suo lavoro, ma si nega, non si sente pago, ma infelice […]. A casa propria è solo quando non lavora, e quando lavora non è a casa propria. Il suo lavoro quindi non è volontario, ma fatto per costrizione, è lavoro forzato”. L’economia politica costringe l’operaio a un lavoro di “mortificazione”, che genera la “perdita di sé” e della propria “dignità”, “produce spirito, ma insieme produce stupidità e cretinismo per l’operaio”245. In Miseria della filosofia (1847) Marx ribadisce che “l’elemento caratterizzante della divisione del lavoro all’interno della società moderna è il fatto che essa genera le specializzazioni, le specie, e con esse l’idiotismo del mestiere”246. L’operaio, del tutto privo di responsabilità circa il proprio ottundimento – espressione usata da Hegel per definire la condizione del lavoratore di fabbrica247 – tende a tradurre rabbia e frustrazione in un ribellismo irrazionale e inefficace (per esempio il luddismo). Se questa sua condizione favorisce il formarsi di una coscienza di classe, ciò non vale per il “sottoproletariato”, da Marx e Engels definito nel Manifesto “putrefazione passiva degli strati più bassi della vecchia società”, solo potenzialmente rivoluzionario, in realtà “più incline a farsi comprare per manovre reazionarie”248. La classe operaia non basta dunque a se stessa; non a caso sono personalità che riescono a unire teoria e prassi a porsi all’avanguardia delle lotte, producendo organizzazione, linee politiche, parole d’ordine e strategie. Tutti elementi centrali in Lenin, calato in una realtà assai arretrata politicamente, in cui decenni di lotte contro lo zarismo non avevano sortito grandi risultati.
Il giudizio di Lenin si salda così anche all’esperienza storica, è il frutto di una riflessione sulle repressioni delle sollevazioni operaie. A mancare erano sempre l’organizzazione e la coscienza politiche. Non basta condurre lotte vantando semplicemente la legittimità delle proprie rivendicazioni. Riflettendo sul 1848, ma soprattutto sulla Comune del 1871 e sulla Rivoluzione del 1905, Lenin si convince della necessità di affiancare alle rivendicazioni un’organizzazione preparata ad affrontare e rovesciare il potere della borghesia. Ora, se quest’ultima dalla sua parte ha il potere politico e militare, una duttilità pari all’ipocrisia dettata dalla più spregiudicata politica per la conservazione del proprio status privilegiato, gli operai e in questo caso i contadini hanno bisogno di dotarsi di una propria strategia di lotta, di dare vita a una battaglia non solo teorica. Rispetto al passato la grande sfida di Lenin consiste nella teorizzazione e nella creazione di una specifica idea di partito, luogo di elaborazione teorica e di organizzazione pratica.
A partire da queste esigenze il dirigente bolscevico sviluppa la propria teoria del partito rivoluzionario. La struttura del POSDR (fondato nella primavera del 1898) deve essere in grado di muoversi nell’illegalità e nella clandestinità, di allestire l’attività cospirativa e di propaganda. Nemico acerrimo di questa idea di partito è il “carattere artigianesco” del lavoro locale, da superare al fine di “fondere il movimento spontaneo in un tutto indissolubile”. Tutti i “modelli bell’e fatti” devono essere respinti perché “il movimento operaio russo è posto in condizioni del tutto diverse da quelle dell’Europa occidentale”. È interessante quest’ultima citazione, poiché mostra come Lenin ritenesse necessaria una declinazione nazionale del marxismo, ovvero del socialismo, resa del resto inevitabile da una corretta assunzione del materialismo storico, con la sua analisi determinata dei rapporti di forza e della lotta tra le classi. Il centralismo, come risposta alla frammentazione del lavoro locale-artigianesco, e il carattere rivoluzionario di un partito non ridotto alla pratica del complotto politico costituiscono per esempio esigenze imposte dalla lotta e dall’analisi concrete: “La socialdemocrazia è pienamente in diritto di ritenere di aver data la soluzione teorica di questi problemi […]”; occorre che la loro “soluzione pratica” sia affidata solo all’attività organizzata del partito. Essere marxisti significa ricercare le caratteristiche della lotta di classe all’interno delle contraddizioni reali in cui essa si dispiega, formulare un programma di emancipazione ritagliato sulle istanze delle classi oppresse e non sulle esigenze o sulle intuizioni più o meno fondate di singoli soggetti. Nei primi anni del Novecento – insiste Lenin in Una questione urgente – è dunque soprattutto la lotta contro il lavoro “all’artigiana” a imporre “organizzazione e disciplina rivoluzionaria” (IV, 218-20, 223).
Si è talora accusato Lenin di aver dato vita a un partito “militarizzato”. Quali i motivi alla base di tale necessità? In Che fare? la richiesta di una larga democrazia viene respinta non solo perché esprime una concezione “primitiva” della lotta, ma anche perché espone i membri del partito a facili retate. Spie e infiltrati della polizia segreta nelle organizzazioni rivoluzionarie erano una prassi consolidata. Lenin lo spiega con chiarezza, nessuna organizzazione rivoluzionaria “ha mai applicato, né, anche volendo, potrà mai applicare” una larga democrazia (V, 442, 444). Non solo, era necessaria una rigorosa selezione dei dirigenti, giustificata dal clima poliziesco instaurato dall’autocrazia e preferibile sul piano dell’efficienza. Il rafforzamento del movimento socialdemocratico presuppone non solo l’unità dei gruppi sparsi, ma anche la presa di coscienza dell’importanza di misure rigorosissime. A monte di questa concezione organizzativa non agisce una vocazione autoritaria fine a se stessa, bensì la necessità, dettata da circostanze oggettive, di rispondere con gli strumenti adatti alle difficili condizioni della lotta. Si tratta di una pratica diffusa, soprattutto nei periodi di maggiore instabilità, come conflitti o guerre. Intorno alla creazione del partito d’avanguardia, formulata da Lenin nel Che fare?, prende vita una polemica con Trockij, favorevole invece a un maggiore allargamento dello stesso. La spiegazione di Lenin è esemplare:
Egli [Trockij] ci ha detto qui che se intere schiere di operai fossero arrestate e tutti gli operai dichiarassero di non appartenere al partito, il nostro partito sarebbe ben strano! Ma non è forse vero il contrario? Non è strano il ragionamento del compagno Trockij? Egli ritiene triste ciò che non può che rallegrare ogni rivoluzionario un poco esperto. Se risultasse che centinaia e migliaia di operai arrestati per aver partecipato a scioperi e dimostrazioni non sono membri delle organizzazioni di partito, ciò dimostrerebbe soltanto che le nostre organizzazioni sono buone e che noi adempiamo il nostro compito: rende...

Indice dei contenuti

  1. Avvertenza e ringraziamenti:
  2. Emiliano Alessandroni Introduzione
  3. Cap. 1Tappe nello sviluppo della dialettica tra Hegel e Lenin
  4. Cap. 2 Il ruolo della dialettica nella battaglia teorica di Lenin
  5. Intermezzo Da Marx a Hegel
  6. Cap. 3 Categorie del conflitto di classe nella Russia prerivoluzionaria
  7. Cap. 4 La dialettica tra socialismo e capitalismo dopo la rivoluzione d’ottobre
  8. Bibliografia