Lo specchio della produzione
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Critica dell'industria del desiderio

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Critica dell'industria del desiderio

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Già negli anni Sessanta del Novecento Jean Baudrillard scrive alcuni testi di critica della società dei consumi, e lo fa in una prospettiva di marxismo eretico che prende le mosse sia da Henri Lefebvre sia da Guy Debord e dai situazionisti. Il suo intento fin dai primi lavori è allargare il raggio d'applicazione della critica dell'economia politica di Marx agli effetti sociali della circolazione delle merci. Baudrillard mira a trascendere la produzione e lo scambio economico delle merci, inserendo a pieno titolo nella produzione stessa ambiti invece considerati da Marx come residuali o sovrastrutturali, quali la cultura, l'informazione, la sessualità. E ciò perché tali ambiti, acquisiti nel ciclo della valorizzazione del capitale, rendono immediatamente produttivo anche il consumo. In questa logica, Lo specchio della produzione ipotizza una forma/segno che identifica la stessa forma/merce e che è ancor più influente nella determinazione del valore rispetto al mero calcolo del costo economico dato dal rapporto tra salario, prezzo e profitto. Alla critica della forma/merce Baudrillard intende sostituire una critica dell'economia politica del segno e della sua espressione suprema, il valore/desiderio, che si presenta come variabile indipendente dalla produzione e come il sistema che sussume ogni possibilità di radicale rottura con il sistema nel suo complesso.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788857569932
V.
Il marxismo
e il sistema dell’economia politica
Una geometria euclidea della storia?
Il materialismo storico sorge nella società retta dal modo capitalistico – stadio della nuda attualizzazione delle contraddizioni legate al modo di produzione e alla peripezia finale della lotta di classe. Esso pretende di decifrare questa fase estrema dell’economia politica e di annunciarne la scomparsa. Insediamento di una ragione teorica e pratica universale; la dialettica delle forze produttive e dei rapporti di produzione, di una logica continua della contraddizione, di uno spazio omogeneo della positività e della negatività: tutto ciò, insieme al concetto stesso di storia, si organizza secondo l’idea che, con il modo di produzione capitalistico, questo processo universale raggiunga la sua verità e la sua fine. I precedenti modi di produzione non sono mai considerati autonomi o definitivi, ed è impensabile che la storia abbia potuto arrestarvisi. La dialettica li destina a essere fasi successive di un processo di rivoluzione che è anche un processo cumulativo di produzione, il modo capitalistico non sfugge a questa logica inesorabile, ma gode tuttavia di un privilegio assoluto: gli altri modi di produzione, infatti, hanno solo aperto la via alla contraddizione fondamentale fra produzione di ricchezza sociale e produzione del rapporto sociale, e alla possibilità, per gli uomini, di risolvere infine nei suoi termini reali la loro esistenza sociale. Gli uomini, nelle formazioni precedenti, producevano ciecamente i loro rapporti sociali insieme alla loro ricchezza materiale – il modo capitalistico è invece il momento in cui prendono coscienza di questa doppia produzione simultanea e tendono ad assumerne razionalmente il controllo. Nessuna società precedente si era posta questo problema, e tantomeno in questi termini; dunque esse non potevano risolverlo. Non potevano conoscere il fine (o la fine) della storia, perché non vivevano la loro stessa vita come storia o modo di produzione – proprio per questo erano precedenti: la loro verità era già al di là di loro, nel futuro concetto di storia e nel suo contenuto, la determinazione del rapporto sociale da parte della produzione materiale – concetto che apparirà soltanto nello stadio finale del capitalismo e della sua critica, e illuminerà contemporaneamente tutto il precedente processo. Il capitale è quindi una fine, e tutta la storia è raccolta nel processo finale della sua abolizione. Oppure: è il solo modo di produzione la cui critica diventa possibile in termini reali – per questo la rivoluzione che lo conclude è definitiva.
Due postulati sottendono queste idee:
– Un processo di sviluppo storico è già presente in tutte le società precedenti (un modo di produzione, una serie di contraddizioni, una dialettica), ma esse non ne producono il concetto, né, di conseguenza, il superamento.
– Il momento della presa di coscienza del processo (la produzione del concetto critico legata alle condizioni della formazione capitalistica) costituisce anche la tappa decisiva della sua risoluzione.
Tutto ciò è perfettamente hegeliano, e ci si può chiedere quale specie di necessità faccia sì che la contraddizione fondamentale, connessa all’istanza determinante dell’economia – tutte cose già “oggettivamente” all’opera nelle formazioni precedenti –, divenga manifesta, insieme al discorso capace di fondarla teoricamente (il materialismo storico). La realtà del modo di produzione entra, come per caso, nell’ordine dei fatti nel momento in cui si trova qualcuno disposto a farne la teoria. E come per caso la lotta di classe, mentre entra nella sua fase aperta e decisiva, trova la teoria che ne rende conto, scientificamente e oggettivamente (invece la lotta di classe nelle società precedenti, cieca e latente, produceva solo ideologie). La coincidenza è troppo bella, ed evoca irresistibilmente la traiettoria hegeliana, in cui l’epopea dello Spirito viene per intero illuminata retrospettivamente e culmina proprio nel discorso di Hegel.
Questa coincidenza dell’analisi con la “realtà oggettiva” (“il comunismo è il movimento stesso del reale”) non è che la variante materialista della pretesa di tutta la nostra cultura, che si arroga il privilegio di essere, più di qualsiasi altra cultura, vicina all’universale, a un’estremità finale della storia, o alla verità. Quest’escatologia razionalista, che si basa sull’irreversibilità di un tempo lineare dell’accumulazione e della rivelazione, appartiene per eccellenza alla scienza. Il fantasma della scienza è duplice: quello di una “frattura epistemologica” che rinvia tutto il resto a un’insensata preistoria della conoscenza e, simultaneamente, quello di un’accumulazione lineare del sapere, e dunque della verità come totalizzazione finale. Tale procedura consente alle nostre società di vivere e di pensare se stesse come superiori a tutte le altre – più avanzate non solo relativamente, in quanto successive, ma in assoluto, poiché, detentrici della teoria della finalità oggettiva della scienza o della storia, si riflettono nell’universale, si presentano come fine e dunque, retrospettivamente, come principio esplicativo delle formazioni precedenti.
La teoria materialista della storia non sfugge a questa ideologia: siamo al momento dell’obiettività, della verità della storia, dello scioglimento rivoluzionario. Ma su quale autorità si fonda allora il disprezzo della scienza per la magia o l’alchimia, ad esempio, la pretesa separazione di una storia a venire, di un destino di sapere oggettivo, nascosto all’infantile misconoscimento di queste società? E così per la “scienza della storia”: cosa autorizza la separazione di una storia a venire, di una finalità oggettiva che spoglia le società anteriori delle determinazioni di cui vivevano, della loro magia, della loro differenza, del senso ch’esse avevano per se stesse, per restituirle alla verità infrastrutturale del modo di produzione di cui solo noi possediamo la chiave? Il culmine dell’analisi marxista, da cui illumina lo scioglimento di tutte le contraddizioni, è rappresentato dalla messa in scena della storia – di un processo cioè in cui tutto è sempre chiamato a risolversi più tardi, rispetto a una verità accumulata, a un’istanza determinante, a una storia irreversibile. La storia potrebbe così non essere altro, alla fin fine, che l’equivalente del punto di fuga ideale che, nella prospettiva classica e razionale del Rinascimento, permette di imporre allo spazio una struttura arbitraria unitaria. E il materialismo storico non sarebbe che la geometria euclidea di questa storia.
Solo nello specchio della produzione e della storia, sotto il duplice principio di accumulazione indefinita (la produzione) e di continuità dialettica (la storia), solo attraverso l’arbitrarietà di questo codice, la nostra cultura occidentale può riflettersi nell’universale come momento privilegiato della verità (la scienza) o della rivoluzione (il materialismo storico). Senza questa simulazione, senza questa gigantesca riflessività dei concetti concavi (o convessi) di storia o di produzione, la nostra epoca perderebbe ogni privilegio; e non si dimostrerebbe vicina a un termine (di sapere) o a una verità (sociale) più di qualsiasi altra epoca.
Non si tratta di un punto di vista extraterrestre sul materialismo storico. Sarebbe piuttosto opportuno verificare se il materialismo storico (la storia dialettizzata per mezzo del modo di produzione) non costituisca esso stesso un punto di vista extraterrestre, il punto di vista cioè di un’idealità riduttrice su tutte le formazioni sociali, compresa la nostra. È allora importante iniziare questa riduzione etnologica spogliando la nostra cultura, fin nella sua critica materialista, del privilegio assoluto che si attribuisce imponendo un codice universale (l’elemento strategico di tale codice è infatti l’unione, sotto il segno della verità, della teoria con la realtà, o della teoria “critica” con le contraddizioni “reali”).
Althusser, riprendendo Marx, sviluppa la teoria di un momento della storia (il nostro) in cui la scienza esiste nella forma immediata della coscienza e la verità può venir letta, apertamente, nei fenomeni. Il modo capitalistico, sostiene Althusser, costituisce, in opposizione a tutti i modi anteriori, “il presente specifico” eccezionale in cui le astrazioni scientifiche esistono allo stato di realtà empiriche:
L’epoca storica, che inizia con la fondazione della scienza dell’economia politica, sembra messa qui proprio in rapporto con l’esperienza stessa – come una lettura a cielo aperto dell’essenza nel fenomeno o, se si preferisce, una lettura in sezione dell’essenza nel tratto del presente –, in rapporto con l’essenza di un’epoca particolare della storia umana, in cui la generalizzazione della produzione mercantile, e quindi della categoria della merce, appare a un tempo la condizione assoluta di possibilità e il dato immediato di questa lettura diretta dell’esperienza.
Tutto questo proseguendo la lettura di Marx, quando parla dell’anatomia della scimmia e analizza il valore in Aristotele: “Bisogna che la produzione mercantile si sia sviluppata completamente prima che, dall’esperienza stessa, si liberi questa verità scientifica...”. Se il discorso marxista si fonda come scienza nella frattura epistemologica, questa frattura è solo possibile “in una società nella quale la forma di merce sia la forma generale del prodotto di lavoro”92. E Althusser continua:
Se il presente della produzione capitalistica ha prodotto nella sua realtà visibile la sua coscienza di sé, il suo fenomeno stesso è la sua autocritica in atto. Si capisce perfettamente come la retrospezione del presente sul passato non sia più ideologia, ma conoscenza autentica, e si comprende il legittimo primato epistemologico del presente sul passato.
A questa posizione marxista/scientifica si possono muovere due obiezioni:
1. Si può ammettere che questa frattura epistemologica che, resa possibile da un certo processo storico, rende a sua volta possibile l’analisi scientifica di tale processo, non segni una rottura “critica”, ma una circolarità viziosa. Il materialismo storico, reso possibile dalla forma mercantile generalizzata, rende conto di tutti i significati della nostra società in quanto governati dalla forma mercantile generalizzata (o dal modo di produzione, oppure dalla dialettica della storia – il concetto di cui ci serviamo per cogliere la circolarità ha scarsa importanza; in ogni caso, questa “scienza” non fa che descrivere, a partire dalla sua frattura, la coincidenza dello stato di fatto che la produce con il modello scientifico ch’essa traccia). Dialettica? Niente affatto. Autoverificazione di un modello che si compie nell’adeguamento reciproco del razionale (il suo) e del reale. Di fatto, la frattura di cui si avvale il marxismo equivale, come accade per ogni “scienza”, all’istituzione di un principio di razionalità, che rappresenta la razionalizzazione del suo stesso processo.
2. Invece di contestare al materialismo storico la ragione che esso si attribuisce (pretendendosi discorso scientifico fondato su un determinato sviluppo storico), gliela si può accordare, aggiungendo però che, proprio al tempo di Marx, la forma mercantile non aveva affatto raggiunto la sua forma generalizzata, che tale forma ha avuto una lunga storia dopo Marx, e che dunque Marx non era nella posizione storica adatta per parlare scientificamente, per affermare il vero. Si imporrebbe in tal caso una nuova frattura, che rischierebbe di fare apparire il marxismo come teoria di uno stadio sorpassato della produzione mercantile, e quindi come ideologia. Almeno se si pretendesse di essere scientifici!
Nel primo caso, si rifiuta in blocco la validità dei concetti marxisti (storia, dialettica, modo di produzione, ecc.) come appartenenti a un modello arbitrario che verifica se stesso, come ogni modello che si rispetti, mediante la propria circolarità. Rifiutando la forma del materialismo storico, esso decade al rango di ideologia. Nel secondo caso, si mantiene la forma fondamentale della critica marxista dell’economia politica, ma facendo saltare il suo contenuto al di là della semplice produzione materiale. Secondo questa ipotesi, si può ammettere che ci sia stata, dopo Marx, una simile estensione della sfera delle forze produttive, e anche della sfera dell’economia politica (nella quale sono integrati direttamente, o sono in via d’integrazione come forze produttive, il consumo come produzione di segni, i bisogni, il sapere, la sessualità). Insomma, hanno fatto irruzione talmente tante cose nell’“infra-struttura”, che la distinzione infra-sovrastruttura è saltata e le contraddizioni emergono oggi a tutti i livelli. Qualcosa è cambiato radicalmente nella sfera capitalistica, cui l’analisi marxista non riesce più a rispondere. È dunque necessario che si rivoluzioni per sopravvivere, compito in cui certo, dai tempi di Marx, non s’è impegnata.
Questa ipotesi si distingue dalla prima perché resta dell’opinione che tutto può essere ancora spiegato nel quadro concettuale di una critica ...

Indice dei contenuti

  1. Maurizio Ferraris Introduzione
  2. Lo specchio della produzione
  3. Lo specchio della produzione ovvero l’illusione critica del materialismo storico
  4. I. Il concetto di lavoro
  5. Epistemologia i:
  6. II. L’antropologia marxista e il dominio della natura
  7. Epistemologia ii:
  8. III. Il materialismo storico e le società primitive
  9. Epistemologia iii:
  10. IV. Intorno al modo arcaico e feudale
  11. Epistemologia iv:
  12. V. Il marxismo e il sistema dell’economia politica
  13. Maurizio Ferraris Postfazione alla nuova edizione