Storie di perdono
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Storie di perdono

Percorsi tra letteratura e psicoanalisi

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Storie di perdono

Percorsi tra letteratura e psicoanalisi

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Qual è il senso, se un senso esiste, della melanconia? Si tratta forse di un dolore interminabile, devastante, senza alcuna possibilità di significazione? In questo libro, che procede in bilico tra rigorosa riflessione teorica e piacere della sorpresa narrativa, l'autore compie un viaggio attraverso la psicoanalisi, l'estetica letteraria e la filosofia con l'obiettivo di comprendere che cosa dica il sentimento melanconico dell'esistenza umana, quale posto occupino il dolore e la sofferenza nella costante costruzione della soggettività e come possa tale dolore essere attraversato, se non anche trasformato. Una via d'uscita possibile, a lungo trascurata anche dalla psicoanalisi, viene rintracciata nel perdono, qui discusso nei termini di un processo alternativo a quello del lutto e da cui può emergere il lato inedito e combattivo dell'afflizione melanconica. Dopo un'attenta lettura del saggio Lutto e melanconia di Freud, per evidenziarne i pregi ma anche le possibilità di espansione, l'itinerario procede con l'analisi di storie letterarie in cui il perdono viene evocato nelle sue molteplici sfumature, che l'autore analizza a partire dalle nuove modalità di narrazione del discorso amoroso inscenate nella letteratura americana contemporanea (da Jeffrey Eugenides a Siri Hustvedt), passando dai romanzi intimisti di Anaïs Nin e Simone de Beauvoir fino ai versi che Ted Hughes ha dedicato a Sylvia Plath. Una sorta di autentico corpo a corpo con ciò che la letteratura dice del perdono, alla ricerca di una piega inaspettata. Una riflessione sul dolore e sulla perdita, ma anche su un'idea di perdono come scommessa di rinascita, come ricostruzione di una soggettività ridotta in frantumi

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788857568829
Capitolo 1
Lasciar andare:
che fare delle nostre perdite?
Convinta d’esserti fedele tradivo in me la gioia e
il dolore…
Amelia Rosselli
La mia depressione
Ho sempre pensato alla perdita come ad una ferita, una cicatrice invisibile, un dolore silenzioso che spezza la continuità simbolica e rivela l’esistenza di un vuoto, di un’assenza attorno alla quale si costruisce, più o meno inconsciamente, il proprio essere. Forse perché in fondo ognuno di noi sa, sin dal principio, che tutto ha origine da una perdita; che ognuno di noi è il portato di una perdita. Tanto per l’uomo quanto per la donna, il processo di soggettivazione ha inizio, forse non casualmente, con la perdita della madre e la separazione dal corpo materno, nonché dai significati che ad esso si accompagnano. Un gesto forte, un metaforico matricidio, che diviene tuttavia necessario affinché si possa procedere con il proprio ingresso nel mondo.
La separazione e la perdita dell’oggetto inaugurano ciò che la psicoanalisi ha definito fase depressiva. È una velata tristezza quella che fa da sottofondo alla trasformazione del bambino da corpo spezzettato, frammentato, a essere parlante. Perdendo il primo amore, il bambino comprende anzitutto che ora è solo, che non può contare su nessun altro all’infuori di se stesso. Certamente, si potrebbe obiettare, è una forma di tristezza a tratti positiva, dal momento che rappresenta una fase transitoria capace di traghettare il bambino verso la necessaria consapevolezza della propria autonomia. Tuttavia, tale separazione è anche la prima forma di lutto che ognuno di noi esperisce, una perdita radicale, che getta nello sgomento più assoluto. E proprio per la sua radicalità, vana appare anche la promessa per cui, col tempo, tutto potrà apparire più chiaro, e che quella dose di piacere e dispiacere che giace nei meandri del nostro inconscio e scandisce la paradossale costruzione del soggetto che noi siamo, potrà acquisire finalmente un senso.
Un corpo mi abbandona; è questa l’unica evidenza tangibile. Una presenza, finora così ingombrante, va perduta. Non è forse un caso che per paradosso, si finisce poi col rimanere sempre in qualche modo impigliati nella continua ricerca di quell’oggetto originario, tossico ma al tempo stesso prezioso, al punto tale da cercarne traccia nel volto di ogni amante. E quando anche questo ci lascia, “consapevoli come siamo di esser destinati a perdere i nostri amori”1, ecco che è quella stessa disperazione a riproporsi. Una depressione che silenziosamente parla, e mi dice che forse non so lasciare andare; non so perdere. Ma spesso, ancor prima di cercare il significato, il senso di un simile malessere, conviene forse ammettere a se stessi che non esiste verità se non in quel nocciolo misterioso custodito all’interno della propria depressione.
Sigmund Freud, in un brevissimo scritto del 1915, Caducità, nato in seguito ad una sua conversazione con due amici, uno dei quali era poeta, scrive:
Il lutto per la perdita di qualcosa che abbiamo amato e ammirato sembra talmente naturale che il profano non esita a dichiararlo ovvio. Per lo psicologo invece il lutto è un grande enigma, uno di quei fenomeni che non si possono spiegare mai ai quali si riconducono altre cose oscure. […] Ma perché questo distacco della libido dai suoi oggetti debba essere un processo così doloroso resta per noi un mistero sul quale per il momento non siamo in grado di formulare alcuna ipotesi. Noi vediamo unicamente che la libido si aggrappa ai suoi oggetti e non vuole rinunciare a quelli perduti, neppure quando il loro sostituto è già pronto. Questo dunque è il lutto.2
Parlare della perdita, delle nostre perdite, significa dunque parlare di un enigma. A tal proposito, ciò che mi propongo di fare nelle pagine seguenti è analizzare quegli enigmi che ogni perdita custodisce in sé, con l’obiettivo quasi di esaltare la sofferenza che ad essa si accompagna, perché convinto che sia proprio la vicinanza al dolore ad essere cifra e misura della soggettività. Si tratta di un gesto di nominazione della propria disperazione attraverso la scrittura e la letteratura – entrambe qui intese come spazi dentro cui si invera la richiesta costante di interpretazione del senso – volendo però oltrepassarla attraverso la faticosa scoperta di una forma inedita di indulgenza, ovvero, di perdono, della sua sorpresa che sembra spiegare, se non anche talvolta scongiurare, l’insuperabilità di ogni abbandono.
Lutto e melanconia
Punto di partenza di questo mio personalissimo itinerario che vedrà, via via, succedersi storie di perdite e di riconquiste, non può che essere il saggio che Freud ha pubblicato nel 1915, Lutto e melanconia3, un breve scritto divenuto oggi un classico, che vorrei ora riprendere in mano con l’intento di offrire una sua possibile rilettura.
Come si evince dal titolo, il tema privilegiato del saggio è proprio l’esperienza della perdita, indagata nelle sue molteplici accezioni. Per quanto, infatti, il riferimento al lutto – nonché una iniziale difficoltà ad attribuire un significato peculiare al termine melanconia – potrebbe indurre il lettore a pensare che la perdita a cui si sta facendo riferimento sia esclusivamente quella irreversibile di una persona cara defunta, l’originalità della trattazione freudiana risiede invece nella volontà di indagare quelle reazioni affettive più particolari, ovvero, quelle che elevano la perdita a un piano ideale, capace cioè di modificare il modo in cui osserviamo il mondo e viviamo nel mondo.
Nel momento in cui ci accingiamo a considerare l’esperienza della perdita, intuitivamente siamo portati a pensare che la morte sia l’evento che meglio la rappresenta, che meglio riesce ad esprimere quel sentimento di abbattimento che da essa si origina. Tuttavia, la morte non è l’unico evento possibile. Seppur con delle differenze non trascurabili, anche la fine di un amore rappresenta un’esperienza di perdita, un momento in cui è possibile misurarsi con l’assenza dell’Altro, per quanto questo Altro resti ancora lì, presente ma allo stesso tempo inavvicinabile per l’innamorato che lo desidera. E ancora, la caduta di un ideale, di un sistema di idee o valori: anche questa è una perdita, e non è forse casuale che Freud abbia pubblicato questo saggio nel momento stesso in cui l’Europa era sconvolta dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale, evento durante il quale si assiste alla massificazione della perdita, patita o inflitta.
Tema della riflessione freudiana, dunque, non è solo la perdita materiale e irreparabile di un oggetto che ricopriva un ruolo particolarmente significativo nella vita del soggetto, ma sopratutto lo scivolamento, il crollo nel non senso che quella stessa perdita riesce a generare. “Il lutto profondo, [ovvero anche] la reazione alla perdita di una persona amata, implica lo stesso doloroso stato d’animo, la perdita d’interesse per il mondo esterno. […] Nel lutto il mondo si è impoverito e svuotato, nella melanconia lo è l’Io stesso”4: sono queste le parole esatte utilizzate da Freud. Ogni esperienza di perdita, quando autentica, sottende la perdita del senso; è questo l’aspetto preliminare e più interessante che Freud rileva. In altre parole, è il senso del mio esistere nel mondo o, come vedremo, della mia stessa identità, che si disintegra quando l’Altro mi sfugge, quando l’Altro se ne va, lasciandomi in compagnia del niente che sopravvive alla sua dipartita.
Che fare, allora, di questa assenza, delle nostre perdite? Che fare quando comprendiamo che l’intero nostro essere ancora si accortoccia attorno alla scomparsa di quel qualcuno – o qualcosa – che un tempo abbiamo amato? Ecco cosa intendevo dire poco sopra, quando ho affermato che non esiste verità al di fuori della nostra depressione: questa interiorità dolorosa, scandita da assenze e ripetuti vuoti, diviene il volto invisibile dell’umano, il mio volto invisibile, la verità racchiusa nella recita della mia identità. E potrebbe essere proprio questo stesso vuoto a spingerci, di contraccolpo, a passare attraverso il dolore, accettando di patirlo, per provare almeno ad assegnargli un senso, nonché per addivenire a un grado più alto di consapevolezza della propria identità.
Proviamo ora a seguire passo per passo l’analisi proposta da Freud. Il lutto, spiega il padre della psicoanalisi, non è banalmente una reazione al dolore psichico che la perdita può provocare, ma si declina più propriamente nei termini di un vero e proprio lavoro (Arbeit) volto a conferire la possibilità di un’elaborazione simbolica, di una trasformazione attraverso il reperimento di un senso. Si tratta dunque di un lavoro, a tratti certamente penoso, che richiede tempo, cura e dedizione. Il dolore psichico causato dalla perdita di un oggetto che si riconosce come irrimediabilmente smarrito deve essere ...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Capitolo 1 Lasciar andare: che fare delle nostre perdite?
  3. Capitolo 2 Il perdono dell’altro e la pena di durare oltre quell’attimo
  4. Capitolo 3 Versi come (per)dono d’amore: la scrittura dell’impossibile
  5. Capitolo 4 Perdersi per perdonarsi: non cedere sul proprio desiderio
  6. Bibliografia