I.
Schopenhauer e Leopardi
1. La Vulgata del pessimismo leopardiano
Il paragone tra la filosofia leopardiana e quella di Schopenhauer, all’insegna di un condiviso Pessimismus, ha rappresentato a lungo la Vulgata prevalente del “leopardismo” nazionale, finendo col caratterizzare una vera e propria “ideologia italiana”, cui si è di recente voluta contrapporre una simmetrica contro-ideologia, di un Leopardi “antiitaliano”. Il topos del pessimismo, benché fondato su generiche analogie sentimentali e una esile mitologia biografica, risalente allo stesso Schopenhauer, non poteva che trovare facile accoglienza nel clima culturale dell’Italia postrisorgimentale, specialmente in quelle correnti impegnate nella costruzione di un profilo nazionale della filosofia, in grado di competere con la scienza europea e in particolare tedesca. Esso ebbe una duplice declinazione, a seconda che si volesse enfatizzare la diversa qualità morale del pessimismo nei due autori; o che, al contrario, si privilegiasse una chiave di lettura biografica di quella “filosofia dolorosa ma vera”, per espungere la concezione materialistica del poeta di Recanati dal novero delle tendenze realmente vive e operanti della cultura nazionale. Esponente del primo indirizzo è stato, come noto, Francesco De Sanctis, che al tema Schopenhauer e Leopardi dedicò un celebre articolo nella “Rivista contemporanea” del Dicembre 1858. De Sanctis coglie un possibile punto di contatto tra i due autori, nel condiviso anti-intellettualismo: “La vita non appartiene all’intelletto, ma alla volontà; e l’uomo vive e vuol vivere, ancoraché l’intelletto gli scopra la vanità della vita. [...] Il cuore rifà la vita che l’intelletto distrugge”. Ma mentre il pessimismo del primo era speculazione pura e atteggiamento estetico, quello del secondo è filosofia vissuta e sprone ad una affermazione eroica di vita: “è scettico e ti fa credente”. Esponente del secondo indirizzo è stato Benedetto Croce, che con la celebre stroncatura di Poesia e non poesia e lo sprezzante giudizio formulato sull’uomo Leopardi (“una vita strozzata”), ha inaugurato un intero filone critico. Croce nega giustamente alla antitesi psicologica ottimismo-pessimismo significato teoretico, e se ne serve in più d’una occasione per stroncare entrambe le filosofie: la schopenhaueriana e la leopardiana, di cui riconosce la comune radice storica nel Romanticismo europeo. Ma non ne approfondisce la questione metafisica, che sembra allontanare il pensiero di Leopardi dal Pessimismus della filosofia germanica contemporanea. Una posizione intermedia, tra quelle di De Sanctis e di Croce, è mantenuta da Giovanni Gentile. Da un lato, egli condivide il giudizio svalutativo nei confronti del pessimismo leopardiano, conseguenza delle false premesse sensistiche e materialistiche della sua teoria del piacere. Dall’altro, egli si tiene più vicino a De Sanctis, nella valorizzazione della leopardiana teoria delle illusioni, motore di una “dialettica pratica”, in grado di restituire ai concetti di virtù e di grandezza morale uno spazio residuo di critica e di denuncia della miseria naturale e della alienazione sociale dell’uomo. Più che a Schopenhauer, egli accosta qui il pessimismo leopardiano a quello di Pascal, al cui ésprit de finesse avvicina quel “senso dell’animo”, che consente al genio recanatese di operare una trasvalutazione della “filosofia negativa”, prodotto del “puro intelletto” in “ultrafilosofia”, sintesi di intelletto e sentimento, la cui prima ed ultima parola è “amore”.
Si diceva del mancato approfondimento – in Croce – della questione metafisica del Pessimismus. La tendenza inaugurata nella metafisica tedesca di fine Ottocento da Schopenhauer, e che ha avuto in Eduard von Hartmann, Julius F. A. Bahnsen, Philipp Mainländer i principali esponenti, non rappresenta affatto una deriva irrazionalistica della filosofia tardo ottocentesca o un effetto della “malattia morale” del Romanticismo (come pensa Croce); ma un tentativo di elaborare una metafisica empirica, in accordo coi risultati del positivismo scientifico, di cui Schopenhauer (nella sua polemica, a volte viziata da atteggiamenti personalistici, contro la Naturphilosophie di Schelling e di Hegel) era stato indubbio precursore. È del tutto evidente che tali sviluppi sarebbero in ogni caso risultati estranei alla formazione filosofica – tutta settecentesca – di Giacomo Leopardi, confermandolo (anche nel caso in cui fosse sopravvissuto tanto a lungo da averne parziale contezza) nel suo generale pregiudizio nei riguardi dei “sistemi” filosofici tedeschi, da lui dispregiativamente considerati alla stregua di “poemi della ragione”. Con tutto ciò, un diretto confronto tra le rispettive teodicee negative dei due pensatori, sarebbe bastato a dissipare l’equivoco del “pessimismo” leopardiano.
In un Supplemento al Mondo come volontà e rappresentazione Schopenhauer si ascrive il merito della confutazione logica dell’Optimismus leibniziano. Oltre che per motivazioni etiche, infatti, l’ottimismo va respinto per motivi schiettamente razionali, essendo in contrasto con quello stesso “principio di ragione sufficiente” teorizzato da Leibniz. La conclusione, secondo cui “questo è il migliore dei mondi possibili” non può essere ricavata dal principio logico nihil est sine ratione cur potius sit quam non sit (la cui validità è per altro ristretta da Schopenhauer al piano fenomenico), se non per uno scambio indebito tra ratio cognoscendi e ratio fiendi e un ingiustificato passaggio dalla possibilità “logica” a quella “reale”. Schopenhauer ripete l’argomentazione nel citato supplemento:
Possibile non significa infatti ciò che uno si può immaginare, bensì ciò che può effettivamente esistere e sussistere. Ora, questo mondo è costruito, così come doveva essere costruito, per poter a malapena sussistere: se fosse appena un poco peggiore, non potrebbe già più esistere. Di conseguenza, un mondo peggiore non è possibile, dal momento che non potrebbe esistere, e il nostro è dunque il peggiore tra quelli possibili.
Una simile reductio ad absurdum delle premesse logiche leibniziane non avrebbe probabilmente impressionato Leopardi, che l’avrebb...