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Parlare di ecologia seduti in un comodo caffè riscaldato, mentre la gente discute del suo ultimo viaggio in un paradiso tropicale, dove un efficiente sistema alberghiero ha raso al suolo una foresta vergine e diversi chilometri di spiaggia incontaminata, per farci sorbire, comodamente sdraiati di fronte all’oceano, il nostro cocktail preferito, è un’impresa difficile, e probabilmente disperata. Ma è anche l’esempio della difficoltà (gli psicologi la chiamerebbero contraddizione) in cui siamo impantanati, senza vederne la via d’uscita, da ormai lungo tempo. E anche se il nostro hotel tropicale si fa pubblicità sui social network, vantando l’installazione di nuovi (e di certo ecologici) pannelli fotovoltaici, per farci accendere la tv delle nostre stanze sui nostri canali preferiti, per farci ricaricare il nostro tablet e la nostra sigaretta elettronica, il nostro smartphone e il nostro «dildo» (che sia nostro di lui o nostro di lei), la condizione dell’umanità inquinante (quella che avremmo chiamato, neanche molti anni fa, l’umanità civile) è racchiusa tutta in questa immagine scintillante delle nostre vacanze, assolutamente in linea (dal momento che siamo ormai nell’ambito del patologico) con quanto abbiamo costruito sapientemente «a casa nostra».
Nei luoghi, cioè, in cui l’umanità civile inquinante ha pensato bene, per esempio, di edificare grandi distretti industriali (con relative emissioni di gas nocive) all’interno delle città in cui risiede la maggior parte della sua popolazione; dove ha potuto sviluppare un’industria dell’automobile a danno dell’aria che respira e della sua salute, mentre si compiace ogni giorno di poter avere motori sempre più potenti, con tubi di scarico sempre più larghi e auto sempre più grandi, nonostante utilizzi queste auto per tragitti sempre più brevi; e dove l’umanità è così tanto civile perché inquina con dedizione, ogni giorno, i fiumi e le falde di cui beve l’acqua, con enormi quantità di pesticidi, di erbicidi e di antiparassitari vari, da cui è probabilmente uccisa essa stessa in numero sempre maggiore – per quanto la sua morte sia addolcita da grande abbondanza di fragole in gennaio e di cocomeri a Natale.
E dove, ancora, l’umanità civile ha l’abitudine, ormai consolidata, di trasformare il più possibile anche le zone storiche delle sue città (perché non siano meno civili di quelle più inquinate) in un viluppo di bar, di ristoranti e di locali vari, affinché «il turista» trovi piacevole venirvi a passeggiare con la carta stradale in mano, il cappellino da safari sulla testa e gli occhiali da sole anche d’inverno (perché si sa che il sole fa ormai malissimo alla salute, come dicono i giornali, e bisogna starsene al sicuro in città), e trovi quindi il tempo, questo nomade civile delle moderne metropoli, di spendere un po’ dei suoi averi tra il suddetto ammasso di cappuccini fumanti, di pizze ai formaggi e di portate varie riscaldate a prezzi sempre più alti. E ciò anche se i bar, i ristoranti e le pizzerie aumentano gli scarichi che inquinano, le emissioni nocive e dannose, e disturbano la quiete e la salute di un intero quartiere, grazie ai rumori e all’affollamento di tutti quei viandanti ed esploratori da dieci pasti al giorno, che si riversano sfiniti nei bar dai loro safari turistici, lungo vie sempre più sporche e maleodoranti – che non si immaginavano così peraltro!, e che hanno già fotografato e commentato indignati via social in dieci-dodici lingue diverse, stupiti (nel migliore dei casi) che anche quella città fosse esattamente come la loro città, e che ci fossero voluti così tanti soldi e così tanti chilometri per vedere gli stessi negozi che si vedono abitualmente a casa loro, nella loro città…
Nel corso degli ultimi settant’anni, tra l’ultimo secolo passato e quello nuovo venuto, questa è stata la naturale trasformazione (che abbiamo chiamato sviluppo) delle nostre maggiori economie. A cui dobbiamo aggiungere l’impatto che questo comportamento ha avuto al di fuori della sua ristretta zona di appartenenza: al di là del suo limite di civiltà definito. Là dove il safari si fa per questo più estremo, e il turismo diventa lo sguardo curioso sull’esotico che vive all’esterno del nostro mondo civile, oltre l’inquinamento medio stabilito come valore dato del progresso vivente. Le zone del pianeta che non conoscevano la civiltà ne sono state infatti investite in modo altrettanto definitivo. Per sfortuna loro, molta parte delle materie prime che serviva (e che serve) agli uomini civili per sviluppare la civiltà si trovano sepolte al di sotto di boschi, deserti, mari o praterie al di fuori del mondo civile. Si trattava perciò di andarle a prenderle. A questo scopo, è stato presto stabilito che tutti i popoli della terra dovessero diventare per prima cosa, anche loro, dei popoli civili. E che questo significava sì qualche scuola e qualche scalcinato ospedale da costruire (ogni investimento ha i suoi costi), qualche regime oppressivo da finanziare e da sostenere (un regime è in fondo più affidabile di una democrazia, e non si può certo dare la democrazia ai popoli incivili!, devono passare prima attraverso le fasi stabilite della storia, e dunque si cominci da un buon lungo e sanguinario regime!). Ma, soprattutto, diventare civili significava in concreto anche lì (come in ogni luogo civile) disboscare, spianare, costruire e asfaltare. E dove c’era il deserto ancora meglio: il deserto è la condizione perfetta per costruire: si risparmiano i vari costi necessari a disboscare i terreni; per cui il deserto è la condizione idilliaca di ogni costruttore (a parte ovviamente il vento, il caldo e le tempeste di sabbia…).
Ed era un affare, questo di costruire le città, che creava già di per sé anche dei nuovi affari civili. Dopo di che si poteva pensare anche alle scuole, agli ospedali, agli autobus. Ma se no andavano benissimo, per gli ospedali, anche i missionari civili o le associazioni di volontariato di quegli stessi paesi civili, che erano arrivati anche loro a portare la civiltà; e che non era solo affari, no, c’era anche – nella civiltà – la bontà, la carità, e anche molto «vi vogliamo bene», eccetera, e «fammi vedere come sai cantare anche le canzoncine dei bambini civili», e «vieni qui che ti curo con la civiltà» e, insomma, davvero molto molto bene donato a tutti con molto molto amore!
In cambio di tutte quelle cure e di tutto quel favoloso sviluppo, i paesi che dovevano diventare civili hanno dato ai paesi civili ciò che serviva loro per essere davvero civili e per proseguire nel loro cammino di civiltà (il petrolio, innanzitutto, e ovviamente l’oro, l’argento, il rame, le terre rare, il legno pregiato delle loro foreste, eccetera – perché bisognava abbatterle il più possibile le foreste, per costruire il paese nuovo civile). E, insomma, hanno dato ai paesi civili tutte quante le loro «materie prime», come si chiamano. E inoltre, cosa ugualmente importante, i paesi civili hanno dato in cambio ai paesi che dovevano diventare civili (come un premio supplementare oltre agli ospedali, alle scuole e al volontariato) i loro rifiuti.
E questo perché i paesi civili avevano ormai un’enorme quantità di rifiuti, anche tossici, che non sapevano proprio più dove mettere, nei paesi civili, perché nei loro fiumi e laghi e montagne non c’era più posto, e la gente che voleva sempre un’auto nuova ogni tre anni e un regalo nuovo per ogni Natale, Befana, Capodanno e San Valentino, eccetera, si lamentava in realtà che tutti questi regali, insieme alle gomme delle loro auto, una volta buttati nei laghi nei mari e nelle campagne, puzzavano ed erano brutti, e minacciavano quindi di non votare più il partito liberale o il partito cristiano o il partito socialista o quello di destra, soprattutto, che lasciavano questo tipo di puzza da ogni parte. E per risolvere questo problema era quindi necessario che i paesi che dovevano diventare civili dessero anche loro un contributo – che significava semplicemente mettere a disposizione i loro fiumi, le loro campagne e i loro laghi per buttarci dentro un po’ della puzza dei paesi civili. E così facendo quei posti sarebbero stati anche già pronti per accogliere la puzza che la civiltà a venire avrebbe creato in quegli stessi paesi che dovevano diventare civili, e che lo stavano diventando, appunto, e che per questo puzzavano infatti sempre di più.
In questo modo, anche le persone di cui si diceva che non fossero ancora civili sono diventate a loro volta parte della cività! Il mondo è diventato finalmente unico e indivisibile, come sognavano da tanti secoli (così tanti secoli che possiamo dire da sempre) i teologi, i santi e i politici di quello stesso mondo civile che scriveva nei libri, che faceva le guerre, e che sfruttava sempre civilmente gli schiavi, che aveva scoperto questo e quest’altro, gli altri mondi, i microbi, eccetera, e che aveva definito soprattutto il Tempo e valorizzato sopra ogni altra cosa il Divenire: l’idea che ha fatto sì che tutto diventasse velocità, procedimento, sviluppo: la scoperta civile forse più importante! Perché il mondo civile e occidentale è ossessionato da sempre dall’andare al di là, nel dopo e nel futuro, dove c’è il nuovo e dove forse c’è anche dio. E se ormai dio non c’è più (perché il mondo civile ha deciso a un certo punto che dio non era un essere abbastanza civile, e lo ha quindi ucciso questo dio che non era abbastanza civile e che non frequentava troppo i salotti, i grandi magazzini, le boutique eccetera, e ha detto a quel punto: «sono io dio, il mondo civile: non avremo altro dio che la nostra civiltà!»), anche allora, anche se non c’era più il dio dell’aldilà, che bisognava andare a conoscere al di là della vita e di tutto, l’aldilà, l’oltre, il futuro è rimasto in ogni modo l’unico posto dove l’umanità civile vorrebbe andare il più in fretta possibile. E tanto in fretta perché la fretta è denaro, dice ancora l’umanità civile, e il denaro è diventato il nuovo spirito della civiltà. Uno spirito che ha sempre fretta, e che alimenta ogni essere civile con il fuoco della frenesia e con l’impazienza della velocità. Perché per possedere sempre più di questo spirito, per averne il corpo splendente a cui innalzare templi per celebrarne la grazia e la forza; per dedicargli case e palazzi sempre più grandi, macchine, abiti e vacanze ogni volta più costosi, per avere tutto questo occorre che l’essere umano civile riesca a fare più cose e sempre più in fretta. E, dunque, occorre che il tempo che impiegava per fare una cosa sia lo stesso tempo che serve adesso per fare quella stessa cosa cento volte, mille volte, un milione di volte.
Ma non solo. Questo andare in fretta e questo andare oltre non riguarda soltanto la vita degli esseri umani, riguarda contemporaneamente tutte le cose con cui gli esseri umani si rapportano. Perché le cose del mondo civile non sono mai le cose-e-basta delle cose che sono nel mondo che non è civile. E lo stesso per le forme viventi. L’albero, per esempio, non è mai nel mondo civile l’albero con i suoi uccellini, eccetera; o l’albero come l’albero del grande spirito (perché il bosco è pieno di spirito anche lui, eccetera, come dicevano le antiche leggende dell’umanità civile quando non era ancora civile, e come dicevano i nobili popoli delle praterie e delle montagne d’America). No!, dice l’umanità del mondo civile, che palle l’albero con gli uccellini, e gli uccellini anche, che palle!, e tutte quelle sciocchezze sullo spirito dei boschi, sullo spirito degli alberi che hanno anche loro lo spirito eccetera, che palle! E anche l’albero, dice l’umanità civile, deve andare al di là del suo essere soltanto un mero albero, del suo essere un albero-che-palle-di-albero eccetera. Perché l’albero così com’è non va affatto bene per l’umanità civile! Perché così com’è l’albero è come se non interagisse per niente con l’essere umano, come se ne stesse per conto suo, a farsi i fatti propri, con le sue palle di uccellini, e non volesse diventare un albero un po’ più civile p...