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Storia femminile di Internet

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Questo è un libro che parla di donne. È anche un libro sull'uso del computer. La storia della tecnologia che ci è stata raccontata fino a oggi parla di uomini e macchine ignorando completamente le donne e il loro contributo. Eppure all'origine dell'informatica ci sono delle menti femminili, donne che hanno portato le macchine computazionali da un funzionamento rudimentale all'arte della programmazione, donando una lingua a quella che per tutti era ancora una "scatola". Quando Internet era solo una matassa disordinata, sono state le donne a dargli una struttura e a permetterne lo sviluppo. Prima che il World Wide Web entrasse nelle nostre vite, accademiche e informatiche avevano già trovato il sistema per trasformare enormi quantità di informazioni digitali in conoscenza condivisa. Le donne sono state creatrici di veri e propri imperi nel mondo del web, e tra le prime a fondare e far crescere le comunità virtuali che oggi chiamiamo social network. Le loro sono storie dalle quali avremmo molto da imparare, se solo le conoscessimo.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788861055605
Parte seconda
Il viaggio verso la connessione

Capitolo sei

La grotta più lunga
La grotta più lunga al mondo si trova nel Kentucky centrale. I suoi passaggi in pietra calcarea si estendono sottoterra per seicentocinquanta chilometri di percorsi tortuosi e intricati quanto le radici delle antiche foreste di noce americano che li sovrastano. Sotto, gli speleologi si aggirano in abissi senza fondo, passano accanto ad affioramenti di pietra arancione e scoprono profondi fiumi sotterranei ghiacciati. Tra il mondo illuminato dalla luce del sole e le profondità sotterranee, una nebbia bianca aleggia ad altezza delle caviglie, come alito di fantasmi.
Gli abitanti del Kentucky si sono battuti strenuamente per avere il controllo degli accessi ai segreti della Mammoth Cave. All’inizio del Ventesimo secolo, le persone del luogo invitavano i turisti ad avventurarsi nelle voragini dei loro terreni, scatenando una “guerra delle grotte” che cessò soltanto quando il National Parks Department prese il controllo della situazione, eliminò i proprietari terrieri e installò scalinate, bagni sotterranei, e persino una grandiosa sala da pranzo ottanta metri sottoterra, con il soffitto tempestato di palle di neve di cristalli di gesso. Gli speleologi seri ora accedono alla grotta dalle entrate non ufficiali della Mammoth Cave, protette da inferriate chiuse, usando le chiavi che il Parks Department presta loro. Portano con sé piccole lampade a carburo per riscaldare e far luce al buio.
Le prime persone ad aver mappato la Mammoth Cave furono schiavi impiegati come guide nelle escursioni turistiche. Fu una di queste prime guide, Stephen Bishop, a dare il nome ad alcune parti della grotta – il fiume Styx, la stanza delle palle di neve, il viale dei pipistrelli – e a scoprire il pesce bianco senza occhi che nuotava nelle sue acque profonde.1 Quando Bishop fu venduto, insieme al sistema di grotte, a un medico di Louisville, gli fu ordinato di disegnare una mappa a memoria. Come sono spesso le mappe di grotte, il disegno sembrava un “piatto di spaghetti gettato a terra”2 ma presentava i sedici chilometri di passaggi che Bishop aveva scoperto e rimase la mappa più completa della Mammoth Cave per più di cinquant’anni. Un punto senza nome,3 un passaggio che si biforcava nel sotterraneo Echo River, divenne importante un secolo dopo che Bishop fu seppellito vicino all’ingresso principale della grotta, la sua tomba segnata soltanto da un albero di cedro.
Quando Bishop era in vita, ogni proprietario terriero del Kentucky centrale rivendicava un ingresso alla grotta: una voragine naturale o un crepaccio creato con l’aiuto della dinamite. Bishop credeva che tutti questi frammenti fossero collegati in un unico ampio sistema, e la sua convinzione era condivisa da una generazione di speleologi dilettanti del Kentucky. In fondo ai passaggi più remoti, le grotte respirano: l’aria fredda soffia anche chilometri sotto la superficie della terra, e l’acqua sgorga sempre più in profondità.
Dimostrare la teoria dei collegamenti di Bishop divenne l’obiettivo della Cave Research Foundation, un gruppo di amanti della speleologia improvvisati che passarono quasi vent’anni a collegare le varie grotte nei dintorni della Mammoth Cave in un singolo sistema. Fu un’impresa che si tramandò in famiglia; i bambini cresciuti giocando nei boschi vicini al casotto in legno della fondazione, divenuti grandi, raccoglievano il testimone per proseguire le esplorazioni dei loro padri e delle loro madri. Nel 1972, la Cave Research Foundation aveva esplorato quasi ogni rivolo del Flint Ridge fino al punto di arrivo, a volte percorrendo tunnel strettissimi strisciando sulla pancia per dieci ore. Il collegamento finale, come lo chiamavano, era vicino.
Gli speleologi credevano che il Flint Ridge si incontrasse con la Mammoth Cave oltre una strozzatura di massi in arenaria nel punto di esplorazione Q-87, uno sperone remoto a chilometri dalla superficie, ma muovere quei massi con i tubi di metallo era un lavoro sfiancante. Una spedizione provò un percorso alternativo, attraverso un crepaccio verticale chiamato “The Tight Spot”. I capricci della speleologia hanno una vena di nichilismo: il Tight Spot è una fessura buia così sottile che soltanto una persona osò entrarci. Era un’alta ed esile programmatrice informatica che pesava cinquantadue chili e si chiamava Patricia Crowther.
Pat s’incuneò nel Tight Spot e uscì dall’altro capo su una riva di fango. Nel freddo bagliore della lampada a carburo, individuò il biglietto da visita di un precedente visitatore: incise sul muro c’erano le iniziali “P.H.”. Tornata in superficie, il gruppo tenne la scoperta segreta. Tutti nella zona conoscevano la leggenda del vecchio Pete Hanson, che aveva esplorato la Mammoth Cave prima della Guerra civile americana. Laggiù c’erano le sue le iniziali, e questo poteva significare soltanto una cosa: Flint Ridge e la Mammoth erano collegate in un singolo sistema di grotte che si estendeva per cinquecentocinquanta chilometri. Questa scoperta straordinaria sarebbe divenuta l’Everest della speleologia.
Pat tornò ad affrontare il passaggio dieci giorni dopo. “Pat, sarai tu a guidarci” le dissero gli altri. Poco oltre il Tight Spot, guadarono l’acqua fangosa che arrivava loro fino al petto, a un certo punto non rimasero che una trentina di centimetri d’aria tra il fiume sotterraneo e il soffitto gocciolante della grotta. Tutti zuppi e ricoperti di fango come fosse “glassa al cioccolato”4, faticavano a tenere all’asciutto le lampade. Attorno a loro zampettavano ovunque gamberi di fiume ciechi. Quando il passaggio si aprì, rivelò una grande sala, dove scorsero la fine di un corrimano: una pista per turisti nel cuore della Mammoth Cave. Il collegamento era completato. Un attimo prima si trovavano nel punto più lontano in cui si fosse avventurato qualunque speleologo nella storia; ora, tra le lacrime e cadendo uno sull’altro nell’acqua, si trovavano soltanto a qualche passo da un bagno pubblico.
Tornando alla base sul pianale del pick up di un ranger, alzarono lo sguardo alle stelle che luccicavano nel cielo d’estate. Sdraiati “sul retro del camioncino aperto, con le cime degli alberi che sfilavano sopra le loro teste per poi ripiombare nell’oscurità”5 contemplarono in silenzio la loro impresa. Il lungo tragitto ne amplificò la portata: avevano davvero percorso quei dieci chilometri sottoterra? Il passaggio finale, attraverso il Tight Spot e oltre quel che sarebbe divenuto noto come il “fiume perduto di Hanson”, collegava una linea non segnata nella mappa del 1839 disegnata a mano da Stephen Bishop. Dopo aver mangiato hamburger e bevuto champagne all’alba, si addormentarono.
“È una sensazione incredibile,” scrisse Patricia in un diario del viaggio “far parte della prima spedizione che è entrata nella Mammoth Cave da Flint Ridge. Come dare alla luce un figlio. Devi continuare a ricordare a te stessa che è successo davvero, che questa nuova creatura che hai messo al mondo ieri non c’era. Anche tutto il resto sembra nuovo. Quando ci siamo svegliati, giovedì, mi sono messa ad ascoltare un disco di Gordon Lightfoot. La musica era così bella, mi veniva da piangere”6.
La nuova creatura che Patricia sentiva di aver messo al mondo era sempre stata lì, nell’oscurità del tempo geologico. Quel giorno non aveva dato alla luce la grotta, ma la mappa – non l’oggetto, ma la sua descrizione. Infilando se stessa nel Tight Spot e portando la luce della sua lampada nell’oscurità, aveva spostato un luogo fisico nel piano cartesiano dei simboli. O almeno così dev’essere come lo percepì lei, da cartografa del gruppo.
Tornata a casa in Massachussetts, Pat e il marito Will aprirono un “laboratorio di mappe”7 in cui risalirono a tutti i dati cartografici di ciascuna spedizione della Cave Research Foundation. Essendo entrambi programmatori, aggiunsero una notevole raffinatezza tecnica alla loro attività di cartografia. Come descritto da Pat, la coppia inseriva i dati grezzi delle esplorazioni trovati in “libricini pieni di fango” in un terminale telescrivente che avevano in salotto, collegato a un computer PDP-1 mainframe sul posto di lavoro di Will. Da questi dati, generavano “comandi di tracciatura su enormi rulli di nastro di carta” usando un programma che aveva scritto Will – Pat aveva contribuito con una subroutine per aggiungere numeri e lettere alla mappa finale – che “trasferivano e tracciavano attraverso un plotter drum Cal-comp recuperato e collegato a un Honeywell 316 che sarebbe stato destinato a diventare un IMP di ARPANET”.8
Le mappe dei Crowther erano tracciati di linee semplificati, ma rappresentavano i primi tentativi di computerizzare le grotte, un salto nella tecnica reso possibile dall’hardware al quale avevano accesso: un PDP-1, un mainframe e un Honeywell 316, un minicomputer a 16 bit, ben oltre il livello allora disponibile agli utenti. Will Crowther lavorava per la Bolt, Beranek and Newman (BBN), un’azienda del Massachussetts specializzata nella ricerca avanzata. Nel 1969, la BBN fu presa in appalto9 dal governo statunitense per aiutarlo a costruire ARPANET, la rete militare e accademica di commutazione di pacchetti che generò il nostro Internet odierno. Qualche anno dopo averlo impiegato per tracciare mappe di grotte, il minicomputer Honeywell 316 fu convertito e perfezionato per divenire un Interface Message Processor, o IMP – quel che oggi chiamiamo router. Questi router formavano una sottorete tra computer più piccoli all’interno di ARPANET, passavano dati che trasferivano tra nodi primari, una componente vitale di Internet ora come allora.
Will era uno dei programmatori più bravi della BBN, e i suoi codici rigorosi ed essenziali erano espressione della sua pignoleria. Da sempre amante della mont...

Indice dei contenuti

  1. Connessione
  2. Indice
  3. Prefazione di Giulia Blasi
  4. Introduzione. Il Dell
  5. Parte prima. Le “Kilogirls”
  6. Parte seconda. Il viaggio verso la connessione
  7. Parte terza. I primi veri credenti
  8. Ringraziamenti