La svolta decisiva
per l’America e l’Occidente
LE ELEZIONI PRESIDENZIALI DEL 2020, oltre ad essere le più travagliate dal secondo dopoguerra a causa del Covid-19, rappresentano una svolta decisiva non solo per gli Stati Uniti ma anche per tutto l’Occidente. L’America ha influenzato il destino dell’Europa e dell’Italia prima nella guerra mondiale e poi con una successione di eventi che, iniziati con lo sbarco dei marines sulle coste europee, sono proseguiti con il piano Marshall, il mondo bipolare e la globalizzazione che ha coinvolto l’economia, la politica e la cultura di tutti noi.
Oggi, nell’anno delle presidenziali, ha fatto irruzione, imprevedibile e imprevisto, il coronavirus sovrapponendosi all’anomalia della presidenza Trump che ha interrotto la continuità politica dei leader Repubblicani e Democratici omogenei al canone democratico culminante ogni quattro anni nella macchina elettorale dell’alternanza in una sorta di laica sacralità rituale.
Gli americani devono ora combattere una cosiddetta «guerra» per la quale non sono attrezzati. Tutte le guerre combattute nell’ultimo secolo dalla possente nazione sono state condotte facendo leva su due strumenti ben padroneggiati: gli armamenti d’ogni tipo e una finanza esorbitante capace di superare qualsiasi ostacolo. Di fronte alla pandemia ambedue queste armi risultano spuntate.
Né la forza militare né la potenza economico-finanziaria sono in grado di fermare e sconfiggere il Covid-19, un nemico da affrontare con strumenti diversi da quelli abitualmente usati contro i «nemici» ideologici, politici e militari. L’America non dispone di una struttura federale sanitaria né potrà essere facilmente organizzata nei tempi della pandemia. La stessa cultura individualistica e libertaria dell’homo americanus renderà difficile il rispetto delle regole sociali emanate dall’Atlantico al Pacifico così come sembra improbabile una maggiore disciplina dell’economia come negli altri paesi dell’Occidente.
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La difficoltà per gli Stati Uniti di fronte al Covid-19 è accentuata dalla controversa figura di Trump. È la prima volta che concorre per un secondo mandato un Presidente che è stato impeached dalla maggioranza (Democratica) della House of Representatives, poi prosciolto dalla maggioranza (Repubblicana) del Senate. Per questo una larga parte degli americani lo ritengono delegittimato a guidare la nazione in un momento così grave in cui sarebbe stata necessaria quell’unità della nazione che il Presidente ha incrinato creando uno spartiacque tra «veri» e «falsi» americani, proclamato perfino in sede istituzionale con attacchi personalizzati contro alcune deputate di sinistra.
Di fronte al virus il Presidente Trump ha tenuto una ambigua linea oscillante tra la sottovalutazione arrogante e la propaganda muscolare. Ha pensato di esorcizzare la gravità della questione sanitaria attribuendo la crisi ai cinesi, con una singolare argomentazione rivolta contro il Paese eretto a nemico nazionale. Ed è passato da un atteggiamento esaltante la libertà individuale dell’americano devoto allo Stato minimo, alla drammatizzazione di un pericolo esterno agli Stati Uniti.
Il governo federale nella prima fase dell’epidemia non è stato in grado di unire la nazione federale per fare fronte alla pandemia, sicché alcuni governatori di Stati hanno autonomamente proceduto con provvedimenti differenziati. Washington ha puntato tutto sull’aspetto finanziario della crisi con l’immissione sul mercato di una enorme massa di denaro non valutando appieno che l’emergenza sanitaria è cosa ben diversa dalla crisi finanziaria. L’intervento in dollari darà forse i frutti in futuro ma non inciderà sull’organizzazione medica, vale a dire sull’aspetto civile e umano del dramma che ha investito allo stesso modo tutte le sezioni del popolo americano.
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Al Presidente uscente, il 3 novembre 2020 si opporrà Joe Biden di 77 anni che è balzato in testa nella corsa interna del suo partito qualificandosi per la nomination Democratica dopo avere sospinto al ritiro gli altri aspiranti candidati dell’ala moderata, il giovane sindaco Pete Buttigieg, la senatrice del Minnesota Amy Klobuchar e il miliardario Michael Bloomberg, e i due esponenti della sinistra, la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren e il capofila dei radicali autodefinitosi «socialista» Bernie Sanders.
Il successo dell’ex vicepresidente di Obama, malgrado la lunga carriera che lo identifica come parte dell’«establishment» Democratico, assume un significato che va al di là delle attuali presidenziali. L’ipotesi della sinistra populista di Sanders, sostenuta da un agguerrito gruppo di giovani militanti, così come le proposte radicali della senatrice Warren, sono state l’espressione della variegata corrente sviluppatasi sotto l’ombrello Democratico tendente a spostare il partito a sinistra sull’onda dell’insoddisfazione per la politica ritenuta «moderata» della presidenza Obama.
Le sinistre avevano da tempo dato luogo a diversi episodi volti a condizionare il partito Democratico: la nascita del giornale socialista «Jacobin», le dimostrazioni di Occupy Wall Street, la creazione di un nuovo partito dei Socialisti democratici d’America, e l’emergenza di gruppi come Black Lives Matter e i Dreamers a favore dei figli degli immigrati giunti negli Stati Uniti. Nelle elezioni di Midterm del 2018 furono eletti in Congresso diversi candidati, uomini e donne, riconducibili alla sinistra tra cui Alexandria Ocasio-Cortez, divenuta braccio destro di Sanders nella corsa presidenziale.
La sconfitta di Sanders alle primarie significa il rigetto del tentativo del «socialista democratico» di egemonizzare a sinistra il partito Democratico, restringendone il carattere storicamente imperniato su un’ampia coalizione di centro-sinistra comprensiva di moderati e leftist, neoliberali e keynesiani, cristiano-sociali e tradizionali sindacalisti, presenti tutti tra i bianchi «urbani» d’ogni latitudine e tra le minoranze afroamericane e latinos.
Biden è il simbolo della resistenza di quell’elettorato Democratico che rifiuta la svolta a sinistra del partito, già tentata in passato con le candidature di George McGovern sconfitto nel 1972 da Richard Nixon, e di Walter Mondale battuto nel 1984 da Ronald Reagan. L’insuccesso di Sanders indica che il sistema politico-elettorale imperniato sui due partiti – Democratico e Repubblicano – che ogni quattro anni si configurano in coalizioni elettorali ideologicamente e politicamente non omogenee, è un sistema che ancora funziona come canale decisivo per l’unificazione nazionale intorno al leader presidenziale.
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La partita che si gioca il 3 novembre tra Donald Trump e Joe Biden riguarda anche gli equilibri internazionali. Prima della pandemia, le presidenziali 2020 si presentavano come una possibile svolta storica dopo tre quarti di secolo da quella del 1948 quando si affermò sulla scena internazionale il dominio politico ed economico americano. Se non fosse intervenuto il Covid-19, nel 2020 la questione essenziale per i Democratici sarebbe stata come battere un Presidente anomalo che aveva rinserrato il Paese nel sovranismo di America First suscitando la radicalizzazione all’interno e provocando l’isolamento all’estero.
Il Covid-2019 ha sovrapposto all’anomalia Trump, l’imperscrutabilità di una rottura nella società del benessere con l’effetto psicologico di produrre un’oscura sensazione di sgomento collettivo senza precedenti. L’Europa ha conosciuto le tragedie delle guerre del XX secolo, mentre l’America si è cullata nell’illusione della sicurezza assicurata dal carattere insulare del continente tra l’Atlantico e il Pacifico, infranto soltanto dal blitz aereo terroristico del 2001 su New York e Washington. In questa situazione gli americani dovranno decidere chi dovrà essere il leader alla Casa bianca in grado di garantire un futuro di tranquillità all’interno e di arrestare il declino della nazione all’estero.
L’intero sistema americano è giunto impreparato alla «guerra» contro quello che Trump ha pretestuosamente definito un «virus cinese». La sua tradizionale ostilità verso il wel...