La lingua del padrone
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La lingua del padrone

Giovanni Giudici traduttore dall'inglese

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La lingua del padrone

Giovanni Giudici traduttore dall'inglese

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Il saggio analizza le traduzioni dall'inglese di Giovanni Giudici mettendo in risalto l'importanza che questa attività assume nella costruzione di una poetica e nell'invenzione di un immaginario collettivo, condizionato dal boom economico e dal modello americano. Materiali editi e inediti (traduzioni in rivista e in volume, carteggi, primi abbozzi, note diaristiche) vengono usati per raccontare il fermento culturale postbellico, l'attenzione di Giudici verso poeti come Eliot, Pound, Dickinson, e altri.

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Informazioni

1.
La forza degli errori

1. L’apprendistato di un dilettante

L’opera del poeta Giovanni Giudici si segnala per un costante e instancabile impegno nel campo della traduzione. La sua carriera ufficiale inizia nel 1954. Da questo momento, per oltre un decennio, il poeta è impegnato su due fronti: la ricerca di una voce autorevole nella scrittura in versi e la traduzione dei testi più vari. Le occasioni per questa non mancano, e Giudici ha modo di dedicarsi soprattutto alla saggistica di argomento americano che transita attraverso la rivista Mondo Occidentale o attraverso le Edizioni di Comunità, la casa editrice fondata da Adriano Olivetti, nella cui industria il poeta inizia a lavorare nel 1956. Nonostante venga dalle committenze, la traduzione si inserisce nella sua ricerca personale, come testimonia l’inclusione di Alcune traduzioni da John Donne in uno dei primi volumetti di versi, La stazione di Pisa, o la presenza di voci straniere all’interno dell’antologia Poesie scelte1. Grazie al suo apprendistato su testi di servizio, tradurre diventa un’abitudine, un nobile riempitivo che sostiene la fatica di ‘creare’ e accompagna le fasi cruciali nello sviluppo della poesia fino alla fine.
Pur con tanto lavoro continuo, Giudici ha sempre preferito tenersi addosso la maschera del dilettante, dell’amateur, da prendersi però anche nell’accezione etimologica. La passione risponde, dunque, al motus primus che lo avvicina alla traduzione, una sorta di esercizio comune a molti poeti, e gli consente di mantenere una grande libertà, assecondando curiosità e mode passeggere. Le sue prime scelte negli anni Cinquanta, infatti, dimostrano interessi per autori che erano in auge nell’Italia del dopoguerra (come ad esempio il John Donne del periodo ‘metafisico’, T. S. Eliot, Emily Dickinson) o ritenuti particolarmente controversi: è il caso di Ezra Pound, autore che Giudici conosce e incontra in un varie occasioni2. Tuttavia Giudici continuerà a definirsi un dilettante anche dopo la realizzazione di importanti volumi di poesia, e dopo che l’impresa di rendere il poema di Puškin in versi italiani gli avrà concesso definitivamente lo status di poeta traduttore3.
Questa fase ha inizio negli anni Settanta, quando Giudici comincia a riflettere sulla sua esperienza e, descrivendo il suo metodo di lavoro, si trova a misurare gli effetti che un’intensa pratica traduttiva ha avuto sulla sua poetica. Un requisito indispensabile per tradurre diventa, allora, la ‘lontananza’, uno stato di forte estraneità culturale, garantita, se così si può dire, dal segno linguistico, che gli consenta di dare inizio al processo di ricerca e attraversamento del testo straniero. Si tratta di un aspetto cruciale per prolungare il suo ‘amatorialismo’: una distanza che genera fascino, anche a rischio di delegittimare il traduttore ‘ingenuo’. Scrive Giudici:
assumiamo […] che tra le condizioni favorevoli alla traduzione di poesia si deva comprendere anche quella di una forte «escursione» (o differenza) tra la lingua da cui si traduce e quella in cui si traduce; […] E per forte escursione o differenza intenderei dunque quel divario o «salto» o gap che sia sufficientemente apprezzabile da invogliare allo sforzo di colmarlo e nel quale si colloca appunto lo spazio ideologico-motivazionale-operativo della traduzione4. [Corsivi dell’autore]
Giudici formula con molta chiarezza l’idea di un gap culturale in grado di accrescere il desiderio o la nostalgia del traduttore, radicalizzando così una condizione spesso avvertita da altri poeti traduttori. Viene in mente Caproni, per esempio, che nelle sue scelte, ammette di agire non obbedendo alla legge della ‘conformità’, salvo poi specificare che questo ‘non-conforme’ si pone comunque in linea con il suo percorso, ha di per sé una sua coerenza5. Più drastica e più vicina all’idea di Giudici sembra la posizione di Luzi quando afferma che «la vicinanza e l’affinità sconfortano i veri intendimenti del traduttore. La familiarità più è intrinseca più dissuade da tentazioni di mutamento di stato»6. Anche Fortini corregge l’affermazione crociana, troppo generica, sostituendo l’idea di ‘nostalgia’, così cruciale nella riflessione linguistica del filosofo, con la necessità di distinguere «differenti gradi di nostalgia corrispondenti a differenti gradi di conoscenza o di ignoranza di una data cultura»7.
I poeti citati traducono da una lingua che è veicolo di una cultura a loro nota e familiare, anche se non smette di essere avvertita come ‘straniera’, per lo più il francese o lo spagnolo. Escursioni nella terra di lingue più lontane ci sono, ma costituiscono esperienze secondarie, esperimenti, marginalia al fianco di un corpo centrale che ha altrove la sua residenza. Giudici invece sposta il dualismo di familiarità-estraneità sbilanciandolo verso il polo ostile di lingue non conosciute, come il ceco o il russo, o di lingue conosciute poco e male, come l’inglese. Assumendo in minimo grado il livello di nostalgia (sebbene fortissimo possa essere il richiamo di questo ‘amor de lonh’, come lo definisce, e altrettanto penetrante una nostalgia ‘romantica’ per quello che non si conosce), e accetta in massimo grado il rischio dell’errore8. La perseveranza di Giudici, il suo lasciarsi sedurre dalle difficoltà e dai personali misunderstanding, e ancora di più, la volontà di mantenersi costantemente a una ‘certa distanza’, si spiegano, quindi, con un’esigenza di sperimentazione linguistica che ha bisogno di essere continuamente alimentata dal contatto con le lingue straniere. Gli errori fatti nel tradurre sono vissuti come sintomi di una condizione di ‘illegalità’ con cui il poeta deve necessariamente fare i conti, perché, secondo quanto lui stesso afferma, la poesia originale è infrazione, atto illegale9.
Il senso di questa infrazione non nasce, tuttavia, da stravaganza10. La sua formazione è avvenuta a fianco di scrittori e traduttori che hanno vissuto il fermento cosmopolita degli anni Trenta e Quaranta e da lì hanno maturato un approccio più attento al testo. I già citati Fortini e Luzi offrono una chiara idea del cambiamento. Fortini, in apertura del suo quaderno di traduzioni, con la sua rigorosa tendenza all’analisi, ricorda il clima di censura e lo spirito necessariamente spavaldo che accompagnava «imprese selvagge e approssimative»11. Luzi si sofferma sulla quantità di pagine che si scrivevano sulla traduzione, nello sforzo di darsi dei principi ‘teorici’12. Dunque, c’è una differenza tra l’apparente ‘professionalità’, denunciata dalla generazione precedente, e la confessione di dilettantismo proposta da Giudici, le cui letture dimostrano invece un approccio tutt’altro che istintivo su questioni linguistiche (tra i nomi più ricorrenti nelle sue letture scorgiamo molti scrittori traduttori, ma anche critici di rilievo, come Blanchot, Barthes, Benjamin, Tynianov).
L’inarrestabile lavoro di traduzione, disseminato in riviste e in volumi e poi organizzato e presentato nei tre quaderni, può legittimamente essere inteso come un lungo processo variantistico, un segno dell’‘ostinazione’ fortiniana e della volontà di fare i conti con i propri errori. Curando l’ultimo dei quaderni, Rodolfo Zucco ha giustamente sottolineato l’«acquisizione di letteralità», attraverso cui Giudici giunge alla parola poetica13. In questo processo, il poeta passa dal ridondante all’essenziale, sfrondando la lingua di quello che non serve, facendo aderire le parole a un significato. Attraverso gli errori Giudici non rende visibile solo il lento processo di acquisizione di una lingua straniera, ma il percorso stesso della creazione poetica.

2. Dagli esordi francesi alla ‘via inversa’

Giudici esprime la volontà di praticare una «via esattamente inversa» alla traduzione, intesa, cioè, come un processo di esplorazione dentro una lingua ostile14. Per il poeta si tratta di un vero cambio di rotta, della necessità di sostituire un sistema culturale noto, il francese – consolidato dagli studi universitari e dai primi interessi critici – con un sistema culturale ancora in via di formazione, nato dal contatto con altre lingue straniere15. Si potrebbe dire, con Glissant, che Giudici acquisisce gradualmente una coscienza della presenza di tutte le altre lingue nella propria, pervenendo a una «créalisation» della sua lingua16.
Nel ricordo del poeta i primi tentativi di traduzione risalgono agli anni ’42-’43, con la lettura di Les fleurs du mal, e la mediazione di opere canoniche come l’antologia francese di Diego Valeri e La letteratura universale di Prampolini:
Provo a inseguire a ritroso negli anni le mie prime prove di traduttore di poesie e trovo, alle più remote sorgenti del ricordo, ma non sulle carte che saranno finite in un cestino, due poesie di Baudelaire: Élévation e L’albatros. Dovevo avere diciotto o diciannove anni, non ero poi così precoce…17 (PFPA, p. 20)
Attraverso la cancellazione dei testimoni, le carte cestinate, – un espediente retorico usato altre volte – Giudici attua una cancellazione metaforica: il suo interesse per la grande tradizione della poesia simbolista. La scrittura privata di quaderni e taccuini dimostra una familiarità con il francese che va ben oltre la tendenza, piuttosto sistematica, a fruire di un testo e di annotarlo in lingua originale. In un primo tempo, infatti, Giudici non solo affida le sue riflessioni a un Giornale intimo (fin troppo evidente tributo alla tradizione francese) e a un Cahier (termine familiare per quaderno), ma talvolta registra i suoi pensieri e le sue prove in versi direttamente nella sua seconda lingua. Proprio la fluida continuità del francese con l’italiano rende impercettibile il passaggio dall’una all’altra lingua, e di fatto poco praticabile la traduzione. Giudici ricorda la frustrazione di sentire gli alessandrini di Baudelaire trasformati in «fiacchi versi martelliani».
I fogli di lav...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Sinossi
  3. Profilo biografico dell'autore
  4. Colophon
  5. Abbreviazioni
  6. Introduzione
  7. 1. La forza degli errori
  8. 2. Due poesie nell’officina del traduttore
  9. 3. Tradurre per le riviste
  10. 4. L’incontro con un editore ‘inutile’
  11. 5. Un ritratto del traduttore da giovane
  12. 6. Tradurre per Einaudi e Mondadori
  13. Conclusione
  14. Bibliografia
  15. Ringraziamenti
  16. Note