La corsia n°6
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La corsia n°6

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Andrej Efimjc è il medico di uno squallido ospedale di provincia, dove i malati sono trattati come bestie. Nella corsia n° 6 sono ricoverati cinque matti, e, in particolare, Ivan Dmitric, un filosofo afflitto da mania di persecuzione, che crede nell'immortalità. Andrej Efimjc viene assalito da una profonda crisi spirituale e prende a frequentare sempre più assiduamente il malato della corsia n° 6: ossessionato dal pensiero della morte e da un crescente nichilismo, il dottore si prende, invano, una lunga vacanza, perché il viaggio non fa che acuire il senso di inutilità; al ritorno lo ricoverano in ospedale, nella corsia n° 6, a soffrire nelle condizioni inumane in cui devono vivere i suoi ex pazienti. Incapace di resistere alle regole che lui stesso aveva contribuito a mantenere, si rivolta e viene picchiato dai suoi ex assistenti. Muore il giorno dopo. Polemica sociale ed allegoria sulla vita e sulla morte.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788897543138
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici

1

Nel cortile dell'ospedale c'è un piccolo padiglione, circondato da tutto un bosco di lappole, di ortica e di canapa selvatica. Il suo tetto è rugginoso, il tubo del camino è a metà crollato, gli scalini della scala principale sono marciti e c'è cresciuta l'erba, e dell'intonaco son rimaste soltanto le tracce. La facciata anteriore è rivolta verso l'ospedale, quella posteriore guarda nella distesa dei campi verdi da cui lo separa il grigio recinto dell'ospedale, tutto chiodi. Questi chiodi, con le punte rivolte all'insù, e il recinto e lo stesso padiglione hanno quello speciale aspetto triste che da noi hanno soltanto le costruzioni ospedaliere e carcerarie.
Se non avete paura di bruciarvi alle ortiche, andiamo per lo stretto sentiero che porta al padiglione e guardiamo che vi si fa dentro. Aperta la prima porta, entriamo nel vestibolo. Qui lungo le pareti e accanto alla stufa sono ammucchiate intere montagne di rifiuti d'ospedale. Materassi, vecchie vesti da camera a brandelli, pantaloni, camicie a righe azzurre, scarpe logore, inservibili - tutto questo cenciume gettato alla rinfusa, calpestato, mescolato, marcisce ed esala un odore asfissiante.
Su questo mucchio di rifiuti, sempre con la pipa tra i denti, sta sdraiato il custode Nikíta, vecchio soldato in congedo, dai galloni diventati rossicci. Egli ha una faccia dura, smunta, delle sopracciglia spioventi, che dànno al suo viso l'espressione di un montone della steppa, e il naso rosso; è di piccola statura, d'aspetto magro e muscoloso, ma il suo portamento è imponente e i suoi pugni solidi. Appartiene al numero di quegli uomini semplici, positivi, buoni esecutori e ottusi, che più di tutto al mondo amano l'ordine e perciò son convinti che bisogna picchiare. Egli picchia sulla faccia, sul petto, sulla schiena, su quel che gli capita, ed è convinto che altrimenti qui non ci sarebbe ordine.
Più in là entrate in una grande, spaziosa sala che occupa tutto l'edificio, se non si calcola il vestibolo. Le pareti vi son dipinte in una tinta blu sporca, il soffitto è affumicato come in una capanna senza camino, è chiaro che qui d'inverno le stufe fumano e ci si sente asfissiare. Le finestre sono deturpate all'interno da grate di ferro. Il pavimento è grigio e tutto scheggiato. C'è puzzo di cavolo acido, di stoppino fumoso, di cimici e d'ammoniaca, e questo puzzo nel primo momento vi dà l'impressione di entrare in un serraglio.
Nella sala ci sono dei letti avvitati al pavimento. Su di essi stanno seduti o coricati degli uomini, con l'azzurra veste da camera dell'ospedale e, all'uso antico, coi berretti da notte. Sono dei pazzi.
Ce ne sono in tutto cinque. Solo uno di condizione nobile, gli altri borghesi. Il primo venendo dalla porta, un borghese alto, sparuto, coi baffi rossicci, gli occhi luccicanti e lacrimosi, sta seduto tenendosi il capo e guarda fisso in un punto. Giorno e notte egli è triste, scrolla la testa, sospirando e sorridendo amaramente; di rado prende parte alle conversazioni e alle domande: di solito non risponde. Mangia e beve macchinalmente, quando gliene danno. A giudicare dalla tosse tormentosa che lo scuote, dalla magrezza e dal rosso delle guance, ha i primi sintomi della tubercolosi.
Dopo di lui sta un vecchietto piccolo, vivace, assai mobile, con una barbetta a punta e i capelli neri e ricciuti come quelli di un negro. Di giorno passeggia per la sala da una finestra all'altra o se ne sta seduto sul letto, con le gambe incrociate alla turca, e irrequieto, come un fringuello, fischietta, canta sotto voce e ridacchia. La sua gaiezza infantile e il suo carattere vivace egli li rivela anche di notte, quando si alza per pregar Dio, cioè per battersi il petto coi pugni e grattare la porta col dito. È costui l'ebreo Mojsèjka, uno scemo, impazzito una ventina d'anni fa, quando andò in fiamme la sua fabbrica di cappelli.
Di tutti gli abitanti della sala n. 6, soltanto a lui è permesso di uscire dal padiglione e perfino dal cortile dell'ospedale sulla strada. Di tale privilegio egli gode da gran tempo, probabilmente come vecchio ospite dell'ospedale e scemo tranquillo e innocuo, trastullo della città che da un pezzo si è abituata a vederlo per le strade circondato dai monelli e dai cani. In una miserabile veste da camera, un ridicolo berretto da notte e in pantofole, a volte scalzo e perfino senza pantaloni, egli gironzola per le strade e si ferma ai portoni e alle bottegucce a chiedere una copeca. In un posto gli danno del kvas, in un altro del pane, in un terzo una copeca, cosicché di solito egli ritorna al padiglione sazio e ricco. Tutto quel che egli porta con sé, glielo toglie Nikíta a proprio vantaggio. Il soldato fa ciò brutalmente, stizzito, rivoltandogli le tasche e chiamando Dio a testimonio che mai più lascerà uscire l'ebreo sulla strada e che il disordine è per lui quanto c'è di peggio al mondo.
A Mojsèjka piace essere servizievole. Porge l'acqua ai compagni, li copre quando dormono, promette di portar dalla strada una copeca per ciascuno e di cucire a ciascuno un berretto nuovo; dà anche da mangiare col cucchiaio al suo vicino di sinistra, un paralitico. Agisce così non per compassione, non per una qualsiasi considerazione d'indole umanitaria, ma per imitare e sottomettersi involontariamente al suo vicino di destra, Gromov.
Ivàn Dmitric Gromov, un uomo sui trentatré anni, nobile, ex-usciere giudiziario e segretario al governatorato, soffre di mania di persecuzione. Egli o giace sul letto raggomitolato su se stesso, o cammina da un angolo all'altro, come per fare del moto; seduto ci sta assai di rado. È sempre eccitato, inquieto e in uno stato di tensione, in attesa di qualcosa di confuso, d'indefinito. Basta il più piccolo fruscìo nel vestibolo o un grido nel cortile perché egli sollevi la testa e tenda l'orecchio: vengono a chiamar lui? Non cercano lui? E il suo viso esprime un'estrema inquietudine e ripugnanza.
Mi piace il suo viso largo, con grandi zigomi, sempre pallido e addolorato, che riflette, come in uno specchio, l'anima tormentata dalla lotta e dal persistente terrore. Le sue smorfie sono strane e morbose, ma i tratti delicati, impressi al suo viso da una profonda e sincera sofferenza, sono ragionevoli e intelligenti, e gli occhi hanno un riflesso caldo e sano. Mi piace anche lui come persona, così affabile, servizievole e oltremodo delicato nei suoi rapporti con tutti, eccetto che con Nikíta. Se qualcuno lascia cadere un bottone o il cucchiaio, egli salta in fretta giù dal letto e lo raccatta. Ogni mattina dà il buon giorno ai compagni; andando a dormire augura loro la buona notte.
Oltre che nel continuo stato di tensione e nel fare smorfie, la sua follia si manifesta anche in qualche altra cosa. A volte di sera egli si avvolge nella sua veste da camera e, tremando in tutto il corpo e battendo i denti, comincia a camminare in fretta da un angolo all'altro e fra i letti. Sembra che abbia la febbre forte. Da come si ferma all'improvviso e lancia sguardi ai compagni, si vede che vorrebbe dire qualche cosa di molto importante, ma evidentemente, considerando che non lo ascolterebbero o non lo capirebbero, scuote con impazienza la testa e continua a camminare. Ma presto il desiderio di parlare prende il sopravvento su qualsiasi considerazione ed egli si abbandona e parla con calore e passione. Il suo discorso è disordinato, febbrile, come un delirio, a scatti e non sempre comprensibile, ma vi si sente, e nelle parole e nella voce, qualcosa di straordinariamente buono. Quando parla, riconoscete in lui il pazzo e l'uomo. È difficile riprodurre sulla carta il suo folle discorso. Parla egli della bassezza umana, della violenza che calpesta il diritto, della vita bellissima che col tempo ci sarà sulla terra, delle inferriate alle finestre che gli ricordano ad ogni minuto la stupidità e la crudeltà degli oppressori. Ne vien fuori un disordinato, sconnesso guazzabuglio di motivi vecchi sì, ma non ancora cantati fino in fondo.

2

Dodici o quindici anni or sono viveva in città, sulla strada principale, in una casa propria, l'impiegato Gromov, un uomo posato ed agiato. Egli aveva due figli: Sergèj e Ivàn. Quando era ancora studente del quarto corso, Sergèj si era ammalato di tisi galoppante ed era morto e questa morte era stata come il principio di tutta una serie di sventure che a un tratto si erano abbattute sulla famiglia Gromov. Una settimana dopo i funerali di Sergèj, il vecchio padre era stato rinviato a giudizio per frode e peculato e presto era morto di tifo all'ospedale della prigione. La casa e tutta la mobilia erano state vendute all'asta, e Ivàn Dmitric e sua madre erano rimasti del tutto senza mezzi.
Prima, quando il padre era vivo, Ivàn Dmitric, che viveva a Pietroburgo per frequentarvi l'università, riceveva da sessanta a settanta rubli al mese e non aveva saputo cosa fosse il bisogno; e così gli era toccato di cambiare bruscamente il tenore di vita. Aveva dovuto dare dal mattino alla sera lezioni per pochi soldi, occuparsi di copiature e tuttavia soffrir la fame, dato che tutto il guadagno lo mandava alla madre per il suo sostentamento. Ivàn Dmitric non aveva sopportato una simile vita; s'era perduto d'animo, era diventato malaticcio e, lasciata l'università, se n'era tornato a casa. Qui, nella cittadina, per mezzo di protezioni, aveva ottenuto un posto d'insegnante nella scuola del distretto, ma, non andando d'accordo coi colleghi e non piacendo agli scolari, ben presto aveva lasciato l'impiego. La madre era morta. Per sei mesi egli era rimasto senza posto, nutrendosi soltanto di pane e acqua, poi era entrato come usciere al tribunale. Aveva occupato questa carica fino a che non era stato licenziato per malattia.
Mai, neppure nei suoi giovani anni di studente, egli aveva dato l'impressione di un uomo sano. Era sempre pallido, magro, soggetto a infreddature, mangiava poco, dormiva male. Un bicchierino di vino gli faceva girar la testa e gli provocava una crisi di nervi. Si era sentito sempre attratto dalla compagnia, ma, a causa del suo carattere irritabile e diffidente, non era diventato intimo di nessuno e non aveva avuto amici. Sui concittadini si pronunciava solo con disprezzo, dicendo che la loro grossolana ignoranza e la loro vita animale sonnacchiosa gli sembravano abiette e ripugnanti. Parlava con voce tenorile, alta e calorosa, e non altrimenti che con disgusto e indignazione, oppure con entusiasmo e meraviglia, ma sempre sinceramente. Di qualunque cosa gli si parlasse, metteva sempre capo allo stesso punto, che è opprimente, cioè, e noioso vivere in città, che la società non ha interessi elevati, conduce una vita opaca, assurda, variata soltanto dalla violenza, dalla grossolana depravazione e dall'ipocrisia; i furfanti sono sazi e vestiti, gli onesti invece si cibano delle briciole; ci vogliono delle scuole, un giornale locale di tendenza onesta, un teatro, delle letture pubbliche e la fusione delle forze intellettuali; è necessario che la società prenda coscienza di sé e ne abbia orrore. Nei suoi giudizi sugli uomini adoperava colori densi, solo il bianco e il nero, senza ammettere sfumature; l'umanità si divideva per lui in onesti e furfanti; non c'era via di mezzo. Delle donne e dell'amore parlava sempre appassionatamente, con entusiasmo, ma non era stato mai innamorato.
In città, nonostante l'asprezza dei suoi giudizi e la sua nervosità, gli volevano bene e in sua assenza lo chiamavano affettuosamente Vanja. La sua innata delicatezza, il carattere servizievole, l'onestà, la purezza dei costumi e la redingote logora, l'aspetto malaticcio e le sventure familiari ispiravano un sentimento di bontà, di tenerezza e di tristezza; inoltre egli era ben istruito, aveva letto molto e, secondo l'opinione dei suoi concittadini, sapeva tutto e passava in città per una specie di enciclopedia.
Egli leggeva moltissimo. Spesso sedeva al circolo, tirandosi nervosamente la barbetta, e sfogliava riviste e libri; e dal suo viso si vedeva che non leggeva, ma inghiottiva, senza avere tempo di masticare. Bisogna pensare che la lettura fosse una delle sue abitudini morbose, poiché egli si gettava con la stessa avidità su tutto ciò che gli cadeva sottomano, anche su vecchi giornali e calendari. A casa leggeva sempre stando coricato.

Indice dei contenuti

  1. Frontespizio
  2. Copyright
  3. Capitolo 1
  4. Capitolo 2
  5. Capitolo 3
  6. Capitolo 4
  7. Capitolo 5
  8. Capitolo 6
  9. Capitolo 7
  10. Capitolo 8
  11. Capitolo 9
  12. Capitolo 10
  13. Capitolo 11
  14. Capitolo 12
  15. Capitolo 13
  16. Capitolo 14
  17. Capitolo 15
  18. Capitolo 16
  19. Capitolo 17
  20. Capitolo 18
  21. Capitolo 19