Anna Karenina
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Anna Karenina è la storia della relazione travolgente e rovinosa fra la moglie di un alto funzionario ed un giovane ufficiale, il conte Vronskij. Perfettamente integrata nella società di cui fa parte, brillante e fascinosa, Anna rinuncerà a suo marito, al figlio e alla sua posizione sociale in nome della sua passione, sfidando ogni convenzione. Fuggita dalla casa coniugale con l'amante e la figlia illegittima, Anna crede di avere trovato la felicità e vive il suo idillio in un serrato isolamento; ma molto presto la mancanza del figlio, l'emarginazione feroce dello stesso mondo che l'aveva adorata ed una gelosia sempre più morbosa nei confronti di Vronskij faranno di lei una vittima di se stessa. Tormentata nel profondo, incapace di trovare una via d'uscita, si stordirà in un vortice paranoico e disperato la cui unica soluzione sarà il suicidio.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788897543572
Argomento
Literature
Categoria
Classics

Parte I

1

Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.
Tutto era in scompiglio in casa Oblònskij. La moglie aveva saputo che il marito intratteneva una relazione con la governante francese che era stata in casa loro, e aveva dichiarato al marito di non poter più vivere nella stessa casa con lui. Questa situazione durava già da più di due giorni ed era avvertita in modo doloroso dai coniugi e da tutti i membri della famiglia, nonché dai domestici. Tutti i membri della famiglia e i domestici sentivano che la loro convivenza non aveva più senso e che persone riunite dal caso in una locanda qualsiasi erano più legate fra loro che non essi, familiari e domestici degli Oblònskij. La moglie non usciva dalle sue stanze; il marito non era in casa da più di due giorni. I bambini correvano abbandonati per la casa; la governante inglese aveva litigato con l’economa e scritto un biglietto a un’amica, pregandola di cercarle un nuovo posto; il cuoco se n’era andato già il giorno prima durante il pranzo; la sguattera e il cocchiere si erano licenziati.
Il terzo giorno dopo la lite, il principe Stepàn Arkàdič Oblònskij – Stìva, com’era chiamato in società – si svegliò alla solita ora, e cioè alle otto del mattino, non però nella camera da letto della moglie ma nel suo studio, sul divano di marocchino. Rigirò il corpo pieno e ben curato sulle molle del divano, come se desiderasse addormentarsi di nuovo a lungo, abbracciò forte il cuscino e vi schiacciò sopra la guancia; ma d’un tratto balzò su, si sedette sul divano e aprì gli occhi.
«Già, già, com’era?» pensò, ricordando il sogno. «Sì, com’era? Ah, ecco! Alàbin dava un pranzo a Darmstadt, no, non a Darmstadt, qualcosa d’americano. Sì, ma Darmstadt, là, era in America. Sì, Alàbin dava un pranzo su tavoli di vetro, sì, e i tavoli cantavano: Il mio tesoro, anzi nemmeno Il mio tesoro, ma qualcosa di meglio, e c’erano poi certe piccole caraffe, e anch’esse erano donne», si ricordò.
Gli occhi di Stepàn Arkàdič brillarono gaiamente e, sorridendo, egli si mise a seguire un proprio pensiero. «Sì, era bello, molto bello. C’erano tante altre bellissime cose che non si potevano dire a parole e neppure esprimere da sveglio con pensieri.» E, notata una striscia di luce che trapelava da un lato della tenda di panno, buttò giù gaiamente i piedi dal divano, con essi cercò le pantofole ricamate in marocchino dorato, che gli aveva fatto la moglie (dono per il suo ultimo compleanno), e, secondo una vecchia abitudine che durava da nove anni, allungò il braccio verso il punto dove, nella camera da letto, era appesa la sua vestaglia. E qui a un tratto si ricordò come e perché non aveva dormito nella camera della moglie ma nello studio: il sorriso scomparve dalla sua faccia ed egli corrugò la fronte.
«Ah, ah, ah!...» mugolò, ricordando tutto ciò che era successo. E alla sua immaginazione si presentarono di nuovo tutti i particolari della lite con la moglie, la situazione senza via d’uscita e, più tormentosa di tutto, la propria colpa.
«Sì, lei non perdonerà e non può perdonare. E la cosa più terribile è che la colpa di tutto sono io, sono la colpa ma non sono colpevole. In questo consiste tutto il dramma», pensò. «Ah, ah, ah!» ripeté ancora con disperazione, ricordando le impressioni per lui più penose di quella lite.
Più spiacevole di tutto era stato il primo momento, quando, di ritorno dal teatro, allegro e contento, con un’enorme pera per la moglie in mano, non aveva trovato la moglie nel salotto; con suo stupore non l’aveva trovata nemmeno nello studio e finalmente l’aveva vista in camera da letto con in mano lo sciagurato bigliettino che aveva fatto scoprire ogni cosa.
Lei, quella Dolly eternamente affaccendata e preoccupata, e non troppo acuta, com’egli la considerava, sedeva immobile con il biglietto in mano e lo guardava con un’espressione di orrore, di disperazione e d’ira.
«E questo cos’è? cos’è?» domandava, mostrando il biglietto.
A questo ricordo, come spesso accade, Stepàn Arkàdič era tormentato, non tanto dal fatto in sé quanto dal modo in cui aveva risposto alle parole della moglie.
In quel momento gli era successo ciò che succede alle persone che inaspettatamente vengono colte sul fatto in qualcosa di vergognoso. Non aveva saputo preparare il proprio viso di fronte alla situazione in cui era venuto a trovarsi dopo la scoperta della sua colpa, nei confronti della moglie. Invece di offendersi, negare, giustificarsi, chiedere perdono o persino rimanere indifferente – tutto sarebbe stato meglio di ciò che aveva fatto! – il suo viso, del tutto involontariamente («riflessi cerebrali», pensò Stepàn Arkàdič, che amava la fisiologia), del tutto involontariamente s’era messo a un tratto a sorridere, d’un sorriso buono e perciò stupido.
Quello stupido sorriso non poteva ora perdonarselo. Vedendo quel sorriso, Dolly aveva sussultato come per un dolore fisico; con l’irascibilità che le era propria, era esplosa in un diluvio di parole cattive ed era scappata via dalla camera. Da quel momento non aveva più voluto vedere il marito.
«Colpa di tutto è stato quello stupido sorriso», pensava Stepàn Arkàdič.
«Ma che fare? che fare?» si diceva con disperazione e non trovava risposta.

2

Stepàn Arkàdič era un uomo sincero con se stesso. Non poteva ingannare se stesso e persuadersi d’esser pentito del proprio comportamento. Non poteva adesso pentirsi del fatto di non esser più innamorato – lui, bell’uomo trentaquattrenne, incline all’amore – di sua moglie, madre di cinque bambini vivi e di due morti, di un anno solo più giovane di lui. Era pentito solamente di non averglielo saputo tener meglio nascosto. Ma sentiva tutto il peso della propria situazione e compativa la moglie, i figli e se stesso. Forse avrebbe saputo nascondere meglio i propri peccati alla moglie se si fosse aspettato che quella notizia le avrebbe fatto tanto effetto. Non si era mai posto con chiarezza questo problema, ma aveva la confusa impressione che la moglie intuisse da tempo che lui non le era fedele e chiudesse un occhio. Gli sembrava persino che lei, consunta, invecchiata, non più bella e in nulla interessante, donna semplice, soltanto buona madre di famiglia, per un senso di giustizia avrebbe dovuto essere indulgente. Era risultato proprio il contrario.
«Ah, è terribile! ahi, ahi, ahi! è terribile!» si ripeteva Stepàn Arkàdič e non era capace di escogitare nulla. «E come tutto andava bene prima, come si viveva bene! Lei era contenta, felice dei bambini, io non l’ostacolavo in nulla, la lasciavo fare come voleva con i bambini, con la casa. È vero, non è bello che lei sia stata governante in casa nostra. Non è bello! C’è qualcosa di triviale, di volgare nel far la corte alla governante. Ma che governante! (e rammentò vivamente i neri occhi maliziosi di M.lle Roland e il suo sorriso). Finché è stata in casa nostra, però, io non mi sono permesso nulla. E il peggio di tutto è che lei già... Ci voleva proprio tutto questo, manco a farlo apposta! Ahi, ahi, ahi! Ma che fare, che fare?»
Non c’era risposta, eccetto quella generica risposta che la vita dà ai problemi più complicati e insolubili. La risposta è questa: bisogna vivere delle esigenze della giornata, ossia dimenticare. Dimenticare nel sonno non è più possibile, almeno sino a stanotte; non è più possibile ritornare alla musica che cantavano le donne-caraffe; bisogna dunque dimenticare con il sonno della vita.
«Poi si vedrà», si disse Stepàn Arkàdič e, alzatosi, indossò la vestaglia grigia con la fodera di seta turchina, chiuse i lacci con un nodo e, inghiottita gran copia d’aria nella sua ampia cassa toracica, col solito passo fermo dei piedi rivolti in fuori, che così leggermente recavano il suo corpo pieno, si avvicinò alla finestra, sollevò la tenda e suonò forte. Al suono del campanello entrò subito il suo vecchio amico, il maggiordomo Matvèj, portando l’abito, le scarpe e un telegramma. Subito dopo Matvèj entrò anche il barbiere con l’occorrente per la barba.
«Ci sono carte d’ufficio?» domandò Stepàn Arkàdič dopo, aver preso il telegramma, sedendosi davanti allo specchio.
«Sul tavolo», rispose Matvèj; sbirciò interrogativamente, con un atteggiamento di partecipazione, il padrone, e, dopo aver atteso un poco, soggiunse con un sorriso complice: «Sono venuti da parte del signor cocchiere.»
Stepàn Arkàdič non rispose nulla e si limitò a sbirciare Matvèj nello specchio: nello sguardo che si scambiarono dentro lo specchio era palese come si intendessero l’un l’altro. Lo sguardo di Stepàn Arkàdič sembrava domandare: «Perché mi dici queste cose? Non sai forse?»
Matvèj mise le mani nelle tasche della sua giacchetta, tirò indietro una gamba e guardò il suo padrone in silenzio, benevolmente, sorridendo appena.
«Ho dato ordine che vengano domenica prossima e che prima di allora non disturbino se stessi e voi inutilmente», disse, pronunciando una frase evidentemente preparata.
Stepàn Arkàdič capì che Matvèj voleva scherzare e attirare l’attenzione su di sé. Aperto il telegramma, lo lesse correggendo con l’intuito le parole come sempre storpiate e la sua faccia si fece raggiante.
«Matvèj, mia sorella Anna Arkàdievna sarà qui domani», disse, fermando per un attimo la manina lucida e pingue del barbiere che stava tracciando una rosea strada fra le lunghe fedine ricciute.
«Grazie a Dio», disse Matvèj, con questa risposta mostrando che anche lui, come il suo padrone, capiva il significato di quell’arrivo, e cioè che Anna Arkàdievna, sorella diletta di Stepàn Arkàdič, poteva favorire la riconciliazione fra marito e moglie.
«Sola o con il consorte?» domandò Matvèj.
Stepàn Arkàdič non poteva parlare, perché il barbiere era alle prese con il labbro superiore, e si limitò ad alzare un dito. Nello specchio Matvèj annuì con la testa.
«Sola. Devo far preparare di sopra?»
«Riferisci a Dàrija Aleksàndrovna: dove ti ordinerà lei.»
«A Dàrija Aleksàndrovna?» in tono di dubbio ripeté Matvèj.
«Sì, riferisci a lei. Ecco, prendi il telegramma; comunicami poi che cosa ti ha detto.»
«Volete fare una prova», capì Matvèj, ma disse soltanto: «Sissignore.»
Stepàn Arkàdič era già lavato e pettinato e si accingeva a vestirsi quando Matvèj ritornò nella stanza con il telegramma in mano, camminando adagio con le scarpe che scricchiolavano. Il barbiere non c’era più.
«Dàrija Aleksàndrovna ha ordinato di riferire che lei parte. Che faccia quel che gli pare, lui, cioè voi», disse, ridendo soltanto con gli occhi e, messe le mani nelle tasche e piegata la testa da una parte, si mise a fissare il padrone.
Stepàn Arkàdič tacque. Poi sul suo bel volto apparve un sorriso buono e un po’ mogio.
«Eh, Matvèj?» disse, scuotendo il capo.
«Fa niente, signore, tutto si accomoderà», disse Matvèj.
«Si accomoderà?»
«Proprio così.»
«Credi? Ma chi c’è di là?» domandò Stepàn Arkàdič sentendo dietro la porta il fruscio d’un abito femminile.
«Sono io», disse una voce ferma e gradevole di donna, e di dietro la porta si affacciò il viso severo e butterato di Matrëna Filimònovna, la njànja.
«Che c’è, Matrëna?» domandò Stepàn Arkàdič, andandole incontro sulla porta.
Benché Stepàn Arkàdič fosse in ogni senso colpevole di fronte alla moglie ed egli stesso lo sentisse, quasi tutti nella casa, persino la njànja, la più grande amica di Dàrija Aleksàndrovna, erano dalla sua.
«E allora?» disse egli tristemente.
«Andate da lei, signore, dichiaratevi ancora colpevole. Forse Dio farà la grazia. Lei soffre molto e fa pena guardarla, e poi tutto in casa va a catafascio. Bisogna aver pietà...

Indice dei contenuti

  1. Frontespizio
  2. Copyright
  3. L’autore
  4. Epigrafe
  5. Parte 1
  6. Parte 2
  7. Parte 3
  8. Parte 4
  9. Parte 5
  10. Parte 6
  11. Parte 7
  12. Parte 8