Premessa platonica
All’origine del discorso filosofico sull’amore vi era una composizione unitaria, un quadro o un affresco a tutto tondo che comprendeva un’ipotesi sull’origine di Eros e un itinerario di ascesi che permetteva di attingere alla sua preziosa quanto inusuale esperienza, prefigurandone una fruizione costante e imperitura. Quello offerto da Platone era certo un quadro unitario ma non del tutto armonico perché, a ben vedere, già in esso si annidava la possibilità di uno sviamento procedurale che conduceva verso soluzioni problematiche se non contraddittorie. Il possesso eterno del bene attraverso la fedele contemplazione del bello è soltanto il punto più alto, l’orizzonte più nobile a cui guarda l’intenzione di Eros, in cui si manifesta la disciplina d’amore. Tuttavia, il bello e il bene si esprimono quasi sempre nella mescolanza con i loro opposti, nella loro impurità, della cui opacità Eros fa continua esperienza, in ragione dalla sua filiazione privativa, nonché di quella acquisitiva, che lo induce ad abusare di metis, procacciandosi come un mirabile cacciatore qualcosa che lenisce temporaneamente la sua indigenza ma che lo espone al compromesso e lo allontana dall’idealità a cui pur tende nella sua qualità di filosofo. Abile artefice di astuzie, egli diventa sofista dimenticando la nobile ricerca della sapienza, del riconoscimento e della generazione del vero. A causa di questa continua tentazione della mescolanza, la pulsione vitale di Eros rischia di essere desiderio vano e inappagato, trasformandosi e dissolvendosi in amore di nulla.
Leggendo i Dialoghi di Platone, accade spesso di sorprendere Socrate in un contesto di larvato, se non esplicito, erotismo: il suo argomentare seduce gli interlocutori, progressivamente incapaci di resistere alle lusinghe di un eloquio così razionalmente articolato: se i sofisti seducono per esplicita intenzione, avendo essi rinunciato a un logos veritiero, capaci di raggiungere uno stato di persuasione transitoria, conforme all’indice di contingenza dei loro enunciati, Socrate seduce implicitamente, velando le intenzioni, attraverso la potenza di un dire più audace, la forza di un’analisi interminabile che tende asintoticamente al vero, che confida sempre nella possibilità di una conclusione universalmente condivisibile.
Osservando Socrate in azione, nel Simposio in particolare, lasciandoci condurre dalla forma dialogica del suo comunicare, siamo indotti a pensare che l’essenza della filosofia sia di natura erotica e che la felicità del filosofo risieda proprio nell’eros, nel suo esercizio inquieto, nel sostare inappagato in tale condizione, prodigandosi in un’attività che non conosce alcun approdo verso stabili punti di consistenza. Se – come sostiene Platone – è feconda soltanto l’anima innamorata, dovremo concludere, abbandonando ogni stereotipo relativo al razionalismo metafisico, che l’uomo consegue l’equilibrio armonico della propria anima (i moderni diranno psiche) soltanto laddove la ragione si dimostra ospitale nei confronti delle proprie componenti emotive, stabilendo con esse una relazione di mutua accoglienza. Il logos è fecondo quando può avvalersi dell’energia dei propri desideri, quando non si inaridisce in una perlustrazione analitica del reale priva di supporto passionale, che non attinge alla soluzione nutritizia degli affetti, perché altrimenti – scriverà l’antiplatonico Nietzsche – avremo «una filosofia che non sa varcare la soglia», un pensiero evasivo, di esonero o di sorvolo, insolvente nei confronti di ciò che lo provoca, che ne pone l’incoercibile istanza.
L’identificazione platonica dell’ascesi erotica con l’idea di bellezza non va dunque intesa soltanto come fuga nei logoi (quasi il Simposio fosse una variante del Fedone), neutralizzazione della dimensione corporea in nome della sublimazione sovrasensibile, quanto come indicazione del suo carattere inesauribile, inoggettivabile, perennemente inquieto: poiché non si dà mai completa parousìa dell’idea, ma sempre soltanto metessi contingente e transitoria, anche Eros non troverà mai appagamento («per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la vita…», aveva ammonito Eraclito) in singole configurazioni del bello, nei suoi simulacri effimeri, bensì procederà sempre oltre, inesausto perché stimolato dalla mancanza (generata dalla madre Penìa) e persuaso dell’inoggettivabilità del bello, correlata all’impermanenza della felicità.
In ragione di questa erranza metonimica, Eros è atopico, senza dimora, privo di ubi consistam e per il filosofo, suo alter ego, si profila una permanente dislocazione sul piano instabile dell’inquietudine; se amare significa desiderare qualcosa che non si possiede, allora il nostro sarà sempre amore del possibile, di ciò che eccede la configurazione presente. Se è vera tale correlazione di premesse, allora non sarà più possibile mantenere un rigido chorismós contrapponendo l’Eros celeste all’eros terrestre, Amor sacro ad amor profano, come se si trattasse di una scelta di campo tra bene e male, tra retta o perversa intenzione, bensì sarà necessario evidenziarne la coappartenenza, il plesso unitario, l’implicazione ontico-ontologica, il legame che li avvince: è proprio la vocazione iperuranica, il tendere al sovrasensibile, a un infinito che non si lascia mai cogliere attraverso le sue emanazioni finite, a un pleroma che trabocca solo parzialmente nel mondo dei fenomeni, a rendere inevitabile, inesauribile e inappagata la perlustrazione del finito, l’esplorazione della molteplicità che seduce con le sue mutevoli forme, ponendo peraltro immediatamente l’istanza dell’altrove. Quale manifestazione empirica della bellezza potrà mai esaurire la nostra capacità di commozione erotica, il mistero che si cela in ogni incontro?
Come ben intese Simmel interpretando Platone nel suo Frammento sull’amore, «il fine ultimo è scorgere la bellezza stessa, l’amore è soltanto l’ausilio, il synergós per tale fine. Perciò Platone può inoltre insegnare che l’erotico perfetto non si arresta a nessuna bellezza individuale, ma riconosce nell’uno la stessa bellezza che trova in un secondo e in ogni altro, e riconosce dunque che sarebbe folle e degno di uno schiavo legare il proprio sentimento a una singola persona bella; egli farà sfociare il suo amore nel vasto mare della bellezza». In altri termini, è proprio l’aver posto un canone assoluto e sovrasensibile di bellezza, averlo poi correlato plotinianamente all’Uno indiviso, che rende impraticabile ogni forma di amor platonico, s...