La parola presa e ripresa.
Certeau ha articolato il tema dominante di questi scritti su due movimenti, il secondo dei quali è presentato come l’inverso del primo: all’azione simbolica di prendere la parola, così come nell’89 fu presa la Bastiglia, si contrappone l’azione repressiva volta a “riprendere” la parola appena liberata. Ne sarebbe conseguito a lungo termine un effetto paralizzante per la società: niente poteva essere più come prima, ma niente di nuovo sarebbe più nato. Effetto negativo che ha attraversato cinquant’anni di contraddizioni insolubili, fino all’attuale riduzione a non senso delle parole.
La “presa” della parola.
Sul numero di giugno 1968 della rivista “Études” appare il primo articolo, la cui stesura è pertanto avvenuta nel pieno della contestazione studentesca, culminata con l’occupazione della Sorbona il 13 maggio.
L’attenzione di Certeau non è attirata dall’incalzare degli eventi, dal loro precipitare stupefacente che per almeno quindici giorni avrebbe interrotto servizi essenziali, bloccato in parte la produzione, tolto potere a un governo oramai privo del consenso. Egli, a differenza di tanti altri commentatori esaltati dall’imprevisto o spaventati da ciò che ne sarebbe potuto seguire, coglie da subito lo straordinario dell’avvenimento nel proliferare inaudito della parola: “Ci siamo messi a parlare!”. Parola che risuonava moltiplicata dall’improvviso tacere delle “autorità”. Un fatto politico e poetico insieme che precedeva e motivava la contestazione.
Tuttavia l’adesione alla rivolta non impedisce a Certeau di scorgere subito il rischio che il movimento stesso non ne colga la portata effettiva; che si tradisca, in cambio di misure riformiste, l’esigenza che nella presa della parola si esprimeva come affermazione di responsabilità in prima persona, di partecipazione, di pensiero critico, di creatività, opposta allo stato di soggezione a saperi, istituzioni, autorità omologanti.
Lo scorso maggio, la parola è stata presa come nel 1789 è stata presa la Bastiglia. La piazzaforte occupata è quel sapere detenuto dai dispensatori di cultura, destinato a mantenere l’integrazione o la reclusione di studenti lavoratori e operai entro un sistema che prestabilisce la loro funzione. Dalla presa della Bastiglia alla presa della Sorbona, tra questi due simboli c’è una differenza essenziale che marca l’evento del 13 maggio 1968: oggi è la parola imprigionata a essere stata liberata.
In tal modo si afferma, feroce, irreprimibile, un nuovo diritto, venuto a coincidere con il diritto di essere uomo e non più un cliente destinato al consumo o uno strumento utile all’organizzazione anonima della società. Era questo diritto a comandare, per esempio, le reazioni di assemblee sempre pronte a difenderlo quando sembrava minacciato nello svolgimento di un dibattito: “Qua tutti hanno il diritto di parlare”. Ma questo diritto era riconosciuto soltanto a chi parlava a nome proprio, dato che l’assemblea rifiutava di ascoltare chi si identificava con una funzione o interveniva in nome di un gruppo nascosto dietro le parole di un suo membro: parlare non vuol dire essere lo speaker di un gruppo di pressione, di una verità “neutra” e “obiettiva”, o di una convinzione nutrita altrove.
Una specie di festa (quale liberazione non è una festa?) ha trasformato dall’interno questi giorni di crisi e di violenze – una festa legata, ma non riducibile, ai giochi pericolosi delle barricate o allo psicodramma di una catarsi collettiva. Qualcosa ci è successo. Dentro di noi, qualcosa ha cominciato a muoversi. Voci mai sentite ci hanno trasformato – originate in un luogo ignoto, riempiono improvvisamente le strade e le fabbriche, circolano tra noi, diventano nostre senza essere più il rumore soffocato delle nostre solitudini. Perlomeno, avevamo questa sensazione. Quanto si è prodotto di inaudito è questo: ci siamo messi a parlare. Sembrava fosse la prima volta. Da ogni dove uscivano tesori, addormentati o silenziosi, di esperienze mai nominate. Mentre i discorsi a verità garantita si zittivano e le “autorità” si facevano silenziose, esistenze congelate si schiudevano in un mattino prolifico. Abbandonata la corazza metallica dell’automobile e interrotta la fascinazione solitaria della televisione domestica, in frantumi la circolazione, tagliati i mass media, minacciato il consumo, in una Parigi sfatta e radunata per le strade, selvaggia e stupita di scoprire il suo viso senza fard, sgorgava una vita insospettata.
Certo, la presa della parola ha la forma di un rifiuto. È protesta. La sua fragilità è quella di esprimersi solo contestando, di testimoniare solo per via negativa. Forse è, parimenti, la sua grandezza. Ma in realtà essa consiste nel dire: «Io non sono una cosa». La violenza è il gesto di chi ricusa qualsiasi identificazione: «Io esisto». Se dunque colui che si mette a parlare nega le norme in nome delle quali si pretende di censurarlo, o le istituzioni che vorrebbero utilizzare una forza apparentemente slegata da ogni appartenenza, egli intende davvero affermare qualcosa. Un atto di autonomia precede di gran lunga l’iscrizione dell’autonomia nel programma di una rivendicazione universitaria o sindacale. Di qui lo scandalo del veder sostituire a questa esigenza delle misure riformiste che appartengono a un altro ordine. Di qui anche il disprezzo per coloro che non “parlano”, ma esprimono solamente la loro paura (sotto il pathos dell’acquiescenza o del gioco al rialzo), le loro mire politiche (sotto la retorica del “servizio” o del “realismo”) o il loro potere (che attende pazientemente il suo momento).
Non si tratta di un...