Il guerriero solitario
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Il guerriero solitario

Trump e la Mission Impossible

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Il guerriero solitario

Trump e la Mission Impossible

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Informazioni sul libro

È lo stesso Trump dal 2016. Miliardario, populista, amico degli operai e dei contadini. A Washington è contro tutti e tutto (i repubblicani, i democratici, i media), persino contro se stesso per i troppi autogol. "The Lone Warrior!", tweet del 29 giugno, è però il grido di guerra di un presidente che crede nella rielezione. O il suo epitaffio.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788869393822

Capitolo 1
MISSION IMPOSSIBLE? È IL FORTE DI TRUMP

“Il rischio politico che i democratici corrono è di essere associati ai tumulti scoppiati sulla scia di questa tragedia, e di spostarsi troppo a sinistra nella propria risposta, il che porterebbe il Partito a perdere la Casa Bianca e a rischiare la maggioranza alla Camera.”
Douglas Schoen, consulente democratico pro-Biden in un commento ai vandalismi dopo l’omicidio Floyd, Fox News, 4 giugno 2020
È la notte delle elezioni dell’8 novembre 2016 e l’America è sotto choc. Alle urne la maggioranza degli elettori ha votato per Hillary Clinton, 65.853.514 voti contro i 62.984.828 per Donald Trump: il 48,2% contro il 46,1%. Ma il repubblicano ha “stracciato” la democratica per 304 a 227 – il 56,5% contro il 42,1% – nel voto che conta, quello del collegio nazionale in cui affluiscono i risultati dei “Grandi Elettori” assegnati ai due candidati Stato per Stato. Nella media dei sondaggi effettuati negli Stati cruciali dal sito di notizie politiche RealClearPolitics Hillary era data vincente per 297 a 241.
Quattro anni dopo l’America di sinistra – il vecchio Partito democratico “centrista” di John F. Kennedy e di Bill Clinton è infatti defunto con Barack Obama – è ancora sotto lo stesso choc, che si è semplicemente evoluto in una sindrome cronica. La “resistenza a Trump”, che va da Obama alla deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez passando dal New York Times, e che comprende Joe Biden – candidato ufficiale per i voti raccolti alle primarie, ma improbabile per il basso profilo politico e per la scarsa stima di cui gode tra gli stessi democratici – non contempla neppure l’idea di un bis di Donald Trump per il prossimo novembre. La pandemia non ha distratto nessuno di loro dalla patologia contratta quella notte di novembre; anzi la Covid-19, la “peste” cinese che ha mietuto oltre 140.000 anime in pochi mesi e ha sprofondato l’economia nella più grande depressione economica dopo quella degli anni ’30, è stata calorosamente adottata come un alleato benvoluto.
Se neanche stavolta i democratici ce la faranno a scalzare il presidente, ciò vorrà dire una delle due cose: o che hanno sbagliato di nuovo tutto, come quando scelsero Hillary Clinton, oppure che Donald Trump è bravo a fare il presidente. Come politico, nel 2016 era un signor Nessuno, ma adesso il Paese ha avuto modo di valutarlo nella buona e nella cattiva sorte. Nella buona, quando ha creato un’economia di successo dal 2017 alla fine del 2019. Nella cattiva, dall’esplosione della pandemia (di cui parlerò nel Capitolo 2), quando ha dovuto vestire i panni del “medico in capo” nella guerra al “nemico invisibile” e ha visto dissolversi i record raggiunti dalla Trumpeconomics. Senza contare i tumulti razziali a seguito dell’uccisione dell’afroamericano George Floyd per mano di un poliziotto bianco il 25 maggio a Minneapolis.
LA RECESSIONE DA COVID-19
I numeri della tabella alla pagina seguente sono la misura, alle date di gennaio, maggio e giugno 2020, di un tracollo economico mai visto nella storia americana e che si è verificato nell’arco di un solo semestre, sebbene con qualche interessante segno di ripresa dell’occupazione alla fine di quei sei mesi. In maggio e giugno sono stati creati rispettivamente 2,7 milioni e 4,8 milioni di posti di lavoro, invertendo quindi il trend di marzo e aprile, quando l’economia statunitense ne aveva persi complessivamente 22 milioni.
Trump ha reagito al coronavirus con il Cares Act, una legge bipartisan da 2.200 miliardi di dollari che ha fornito le risorse urgenti necessarie al sistema sanitario e che, nel contempo, ha offerto aiuto immediato e diretto alle piccole e medie imprese con meno di 500 dipendenti. Il Paycheck Protection Program (Ppp), un programma di protezione degli stipendi integrato in seguito dal Paycheck Protection Program Flexibility Act, ha fornito somme dai 100.000 dollari in su a milioni di imprenditori – ristoranti, negozi al dettaglio e aziende varie – che hanno chiesto il sussidio. Le imprese che hanno usato un minimo del 60% del contributo per pagare entro sei mesi gli stipendi al personale in organico non hanno dovuto restituire nulla e hanno usato il restante 40% a loro discrezione, per gli affitti e gli altri costi gestionali. A tutti i dipendenti che hanno perso il lavoro il Governo federale ha versato 600 dollari al mese fino alla fine di luglio, un contributo che si è aggiunto al normale assegno di disoccupazione, variabile da Stato a Stato. In molti casi la generosità del soccorso pubblico ha creato dei disincentivi: i lavoratori, soprattutto quelli di fascia più bassa, guadagnavano di più rimanendo a casa e hanno respinto l’offerta dei loro vecchi datori di tornare a occupare il vecchio posto, convinti – o, meglio, illusi – che in autunno avrebbero avuto un facile rientro nel mercato del lavoro. In effetti, dal 3,5% di febbraio, il tasso di disoccupazione è balzato al 14,7% in aprile, per scendere, sorprendentemente, al 13,3% in maggio e all’11,15% a giugno.
L’ occupazione negli Stati Uniti (gennaio, maggio e giugno 2020)
p15-1
Fonte: dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti d’America, Washington D.C.
*Nella forza lavoro il Governo federale inserisce sia coloro che hanno un impiego sia chi lo sta cercando attivamente. Coloro che non lo fanno sono definiti “scoraggiati”.
Secondo il National Bureau of Economic Research (Nber) la recessione è ufficialmente iniziata nel febbraio 2020, ponendo fine al periodo di espansione avviato nel giugno 2009. Il Federal Reserve System1 ha previsto in giugno che il Pil subirà una contrazione del 6,5% nel corso dell’anno, per poi tornare a crescere del 5% nel 2021 e del 3,5% nel 2022. La Banca Centrale degli Stati Uniti ha anche previsto che la disoccupazione calerà al 9,3% entro l’anno e ha promesso di mantenere a zero o vicini allo zero i tassi di interesse sul dollaro fino al 2022. La Casa Bianca non ha fornito cifre precise, ma ha espresso un marcato ottimismo sulla ripresa: a metà giugno Larry Kudlow, consigliere economico di Trump, si è detto certo che l’economia segnerà una forte ripresa già nel quarto trimestre, quello dell’andata alle urne il 3 novembre.
Mai come in queste elezioni i dati sulla disoccupazione dei mesi precedenti il voto, da maggio a ottobre, modelleranno l’umore finale della gente. In parallelo con gli indici della Borsa, i senza lavoro saranno il termometro più immediato della velocità e dell’intensità con cui l’America uscirà dalla crisi. Nel 2019 ci sono state in tutto 70 milioni di assunzioni, con 67,8 milioni di dimissioni e di licenziamenti, per una crescita netta di 2,2 milioni di posti. Il reddito mediano delle famiglie americane secondo i dati dell’ufficio del Censimento degli Stati Uniti è stato in media di 61.779 dollari nel 2016, di 62.626 nel 2017, di 63.179 nel 2018 e ha toccato i 65.666 nel dicembre 2019 (ultimo dato disponibile).
UN TRIENNIO DI SUCCESSI
A che cosa sia stata l’America di Trump nel primo triennio è dedicata gran parte di questo libro, chiuso il 5 giugno dal Capitolo 3 in poi. Quando gli elettori entreranno nei seggi a novembre vi porteranno, ed è inevitabile, i segni drammatici del loro freschissimo presente. Dal lutto per i parenti e per i conoscenti morti agli oltre 40 milioni di posti di lavoro svaniti nel nulla, dalle perdite finanziarie in Borsa nei tre “mesi orribili” di marzo-maggio ai traumi psicologici di intere vite sconvolte: viaggi cancellati, matrimoni rinviati e cerimonie funebri annullate, come anche quelle, più festose, delle graduations, i riti di fine anno scolastico. Gli americani dimenticheranno i tre anni precedenti? Oppure terranno conto dell’operato del presidente nella sua interezza? Sono dubbi che hanno un peso relativo sulle prospettive di vittoria di Trump, perché il fattore decisivo sarà l’abilità del presidente nel saper convincere l’elettorato delle sue qualità di leader nel corso del 2020, sconfiggendo sia il virus sia la crisi economica. Sullo sfondo, la lotta al razzismo, la tutela delle forze di polizia e l’impegno patriottico a difesa dei monumenti e della storia statunitense. Una Mission Impossible? Trump ha già dimostrato di saper ribaltare i pronostici e ora ci riprova.
Dopo i primi mesi di emergenza assoluta nella lotta al morbo, è apparso sempre più evidente il fatto che la sfida pressante e destinata a durare è quella della “vita normale”, il postpandemia che significherà, allo stesso tempo, convivere con il coronavirus. Con tutte le incertezze e le speranze sui farmaci e sui vaccini. Con l’apprensione per un’eventuale seconda ondata dopo le confortanti cadute primaverili nel numero dei morti e dei contagiati. Con i rigori imposti dalle autorità statali e lo stress subito dai comportamenti individuali, dalle vecchie paure ai nuovi costumi sociali sul lavoro, a scuola, al ristorante, negli stadi e nei teatri.
Sarà in tale contesto che l’elettorato deciderà a chi affidarsi. Di Trump sa tutto, per esempio che già da fine marzo aveva detto di sperare in una graduale uscita dal lockdown per Pasqua. Ha poi incessantemente spinto per la riapertura dei business, pur con le cautele del distanziamento sociale, delle mascherine e delle mani lavate, precauzioni più o meno generalmente accettate dalla popolazione. Trump è stato, e lo ha strombazzato, il paladino della ripresa e del ritorno del Paese alla normalità. In luglio ha caldeggiato più volte la riapertura delle scuole a partire da settembre. Durante i mesi travagliati del dibattito “riapertura sì/riapertura no”, i democratici sono diventati il partito del lockdown, mentre i repubblicani hanno rappresentato la domanda di lavoro, di libertà di movimento e di ritorno a tutte le attività sociali precedenti all’arrivo del coronavirus.
IL CASO FLOYD
A fine maggio, l’America è stata colpita da un altro trauma: l’omicidio a Minneapolis dell’afroamericano George Floyd, 46 anni, commesso a freddo e senza alcun motivo da un poliziotto bianco, Derek Chauvin. L’agente aveva già ammanettato il poveretto, sospettato di aver cercato di comprare delle sigarette con una banconota contraffatta, ma poi lo ha gettato sull’asfalto e lo ha soffocato premendogli il ginocchio sul collo per quasi nove minuti. Un video ha mostrato a tutta l’America il gesto assurdo e criminale, e il poliziotto è stato licenziato, arrestato e incriminato per omicidio a tempo di record, insieme agli altri tre membri della pattuglia. La condanna dell’episodio è stata immediata e unanime da ogni parte politica. “La morte di George Floyd nelle strade di Minneapolis è stata una grave tragedia.”, ha detto il presidente il 30 maggio. “Non sarebbe mai dovuta accadere. Ha riempito gli americani in tutta la nazione di orrore, rabbia e dolore”.
Le piazze si sono affollate, di giorno e di notte, di dimostranti contro il razzismo e molti governatori e sindaci hanno attivato la Guardia nazionale imponendo il coprifuoco contro vandalismi e saccheggi. Larga parte dell’America liberal continua a denunciare la discriminazione contro i neri come un nodo ancora irrisolto, a 56 anni dal passaggio del Civil Rights Act del 1964, e nonostante la doppia elezione di Barack Obama alla Casa Bianca nel 2008 e nel 2012. Ma la miscela dei sentimenti provocata dall’omicida in divisa – l’“orrore, rabbia e dolore” descritti da Trump – non ha portato nelle piazze soltanto la gente che voleva protestare politicamente e chiedere giustizia. Come è consuetudine in occasione di tanti raduni organizzati legittimamente per denunciare ingiustizie e tragedie, in strada si sono presentate puntualmente anche le cellule degli ultras del movimento Antifa2. La sigla sta per antifascists ma, con le loro divise nere, sempre in maschera a prescindere dal coronavirus e dichiaratamente “antisistema”, questi militanti sono a tutti gli effetti squadracce di sinistra che fanno una guerra violenta al capitalismo democratico: non a caso, tra le loro fila abbondano i simboli con la falce e martello. Il movimento è nato in Germania e in Gran Bretagna tra gli anni ’70 e ’80, ma la “filiale Usa” è fiorita durante l’Amministrazione Trump.
“Prove empiriche e aneddotiche dimostrano che gli Antifa dispongono di una rete eccellente, che tale rete è mondiale ed è molto ben finanziata. La loro struttura organizzativa è orizzontale con decine e forse centinaia di gruppi locali”, ha scritto il 20 giugno Soeren Kern, analista di scienze politiche e Senior Fellow del pensatoio conservatore Gatestone Institute. “L’obiettivo a lungo termine dichiarato degli Antifa, tanto in America quanto all’estero, è stabilire un ordine comunista mondiale. Negli Stati Uniti il loro obiettivo immediato è finalizzato a causare il crollo dell’Amministrazione Trump”. Si comprende così perché il New York Times e il Washington Post abbiano cercato a più riprese di negare o di minimizzare la partecipazione dei militanti Antifa ai violenti raid di Black Lives Matter che hanno messo a soqquadro tante città. A questa imbarazzante “alleanza operativa” si è riferito Douglas Schoen, il consulente democratico pro-Joe Biden (già pro-Mike Bloomberg), quando ha commentato il 4 giugno, sul sito di Fox News: “Il rischio politico che i democratici corrono è di essere associati ai tumulti scoppiati sulla scia di questa tragedia, e di spostarsi troppo a sinistra nella propria risposta, il che porterebbe il Partito a perdere la Casa Bianca e a rischiare la maggioranza alla Camera”. Un sondaggio effettuato il 2 giugno dalla Reuters e dall’Ipsos Group ha mostrato che il 73% degli intervistati era a favore delle proteste pacifiche, ma anche che il 79% pensava che saccheggi e vandalismi danneggiassero la richiesta di giustizia delle proteste iniziali.
Antony P. Mueller, un economista tedesco che insegna in Brasile, aveva scritto il 2 aprile 2018 su Newsweek che “il movimento Antifa usa una falsa terminologia per nascondere la sua vera agenda. Pur definendosi ‘antifascista’ e dichiarando nemico il fascismo, gli Antifa sono di per sé un movimento fondamentalmente fascista. I loro membri non sono avversari del fascismo, bensì i suoi genuini rappresentanti. Il comunismo, il socialismo e il fascismo sono uniti dalla comune fede nell’anticapitalismo e nell’antiliberalismo. Il movimento Antifa è un movimento fascista. Il nemico di questo movimento non è il fascismo, bensì la libertà, la pace e la prosperità”.
Negli Stati Uniti gli Antifa erano diventati famosi ben prima dell’omicidio Floyd, per aver impedito nei college con le loro azioni di guerriglia diversi comizi tenuti da professori conservatori e filoisraeliani e dai loro ospiti....

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Introduzione
  5. Capitolo 1 - Mission Impossible? È il forte di Trump
  6. Capitolo 2 - Trump alla guerra del coronavirus
  7. Capitolo 3 - L’economia di Trump prima della pandemia
  8. Capitolo 4 - Gli Usa di Trump, miniera mondiale di energia
  9. Capitolo 5 - Muro & legalità
  10. Capitolo 6 - Libertà religiosa e difesa della vita
  11. Capitolo 7 - Tutti i giudici del presidente
  12. Capitolo 8 - Il razzista che piace sempre più ai neri
  13. Capitolo 9 - “Distruggerò l’Isis”: detto e fatto
  14. Capitolo 10 - Trump e la Nato (non più “obsoleta”)
  15. Capitolo 11 - Pace tra Israele e Palestina: il piano di Trump con l’ok degli arabi
  16. Capitolo 12 - Dai dazi commerciali al protezionismo sanitario
  17. Capitolo 13 - Il mirino di Trump su Iran, Afghanistan, Cuba, Venezuela, Russia, Corea del Nord
  18. Capitolo 14 - Le sorprese del calcio e dello spazio… e la certezza della famiglia fedele