Bouvard e Pécuchet
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«Bisognerebbe piuttosto mandarli in manicomio.» Bouvard e Pécuchet, romanzo mirabile, famoso e di divertente lettura, di Gustave Flaubert, l'ultimo che ha scritto e che non ha terminato, anche se ha annotato come avrebbe dovuto concludersi; pubblicato nel 1881, un anno dopo la morte.I due copisti, il gioviale Bouvard e il segaligno Pécuchet, lasciato il modesto lavoro d'ufficio a Parigi, si insediano in campagna, dove per occupare il tempo si avventurano, da principianti inesperti ed eroicomici, in tutti i campi del sapere umano, con risultati ogni volta disastrosi e spassosi: agronomia, giardinaggio, arte delle conserve (ma tutto va a male e i barattoli scoppiano), chimica, medicina, geologia, teatro, politica, spiritismo, religione, pedagogia... in uno scivolamento di scienza in scienza, di mania in mania, sempre dissolto dalla loro ridicola incapacità. Eroi del fallimento perenne, prototipi della nostra umanità tutta scienza, progresso e stupidità. E finiranno come? a fare l'unica cosa che sanno fare, i copisti. Libro profondamente dissacratorio e satirico.

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Informazioni

Editore
Quodlibet
Anno
2020
ISBN
9788822911179
1.
Con quei trentatré gradi di caldo, il boulevard Bourdon era completamente deserto.
Più in basso, il Canal Saint-Martin, bloccato dalle due chiuse, stendeva in linea retta la sua acqua color dell’inchiostro. Nel mezzo dondolava un battello carico di legname e sulla sponda erano allineate due file di barili.
Oltre il canale, fra case separate da cantieri, il vasto cielo puro si frastagliava in strisce azzurro oltremare, e, sotto il riverbero del sole, le facciate bianche, i tetti di ardesia, i selciati di granito abbagliavano. Un rumorìo confuso saliva in lontananza nell’atmosfera calda: tutto sembrava reso torpido dall’ozio domenicale e dalla malinconia dei giorni d’estate.
Apparvero due uomini.
Uno veniva dalla Bastiglia, l’altro dal Jardin des Plantes. Il più alto, vestito di tela, camminava col cappello all’indietro, il panciotto sbottonato e la cravatta in mano. Il più basso, con il corpo che scompariva in un abito a falde marrone, chinava la testa sotto un berretto a visiera.
Quando furono giunti a metà del boulevard si sedettero, contemporaneamente, sulla stessa panchina.
Si tolsero il copricapo, per asciugarsi la fronte, e lo deposero presso di sé; e il più piccolo vide scritto dentro il cappello del vicino: Bouvard, mentre questi leggeva facilmente, nella fodera del berretto dell’individuo coll’abito a falde, la parola: Pécuchet.
– Ma guarda! – disse. – Abbiamo avuto tutti e due la stessa idea: scrivere il nostro nome dentro il cappello.
– Dio mio, certo: potrebbero rubarmelo in ufficio!
– E lo stesso a me, anch’io sono impiegato.
A questo punto si osservarono.
L’aria affabile di Bouvard incantò immediatamente Pécuchet.
I suoi occhi azzurrognoli, sempre socchiusi, sorridevano nel viso colorito. Dei pantaloni con ampi risvolti, che si allargavano su scarpe di castoro, gli modellavano il ventre e sollevavano la camicia alla cintola; e i capelli biondi, naturalmente ondulati in riccioli leggeri, gli davano un aspetto un po’ infantile.
Dalle labbra, gli usciva una specie di fischio continuo.
L’aria seria di Pécuchet colpì Bouvard.
Si sarebbe detto che egli portasse una parrucca, tanto erano appiattite e nere le ciocche che ornavano il suo alto cranio. Il viso pareva tutto di profilo, a causa del naso, molto allungato. Le gambe, imprigionate nei cilindri di gabardine, non erano proporzionate alla lunghezza del busto: la sua voce era forte e cavernosa.
Gli sfuggì questa esclamazione:
– Come si starebbe bene in campagna!
Ma i sobborghi, secondo Bouvard, erano sciupati dal chiasso delle bettole. Anche Pécuchet era dello stesso parere, ma cominciava a sentirsi stanco della capitale, come Bouvard.
I loro occhi erravano su mucchi di pietre da costruzione, sull’acqua sporca dove galleggiava un fascio di paglia, sulla ciminiera di un’officina che si ergeva all’orizzonte. Si sollevavano da ogni parte miasmi disgustosi. Si volsero dall’altra parte, ed ebbero di fronte le mura del «Granaio dell’abbondanza»1. Decisamente (e Pécuchet ne era sorpreso), si soffriva il caldo più per strada che a casa propria!
Bouvard lo obbligò a togliersi il soprabito: se ne infischiava, lui, di ciò che diceva la gente!
Tutt’a un tratto un ubriaco attraversò il marciapiede a zigzag; e, a proposito degli operai, intavolarono una discussione politica. Erano delle medesime opinioni; Bouvard forse un po’ più liberale.
Un rumore di ferraglie risuonò sul selciato in un turbinio di polvere: erano tre vetture da noleggio che se ne andavano verso Bercy, e portavano a spasso una sposa col suo mazzolino, dei borghesi in cravatta bianca, delle signore infagottate fino alle ascelle nelle sottane, due o tre ragazzine, un collegiale. La vista del corteo nuziale portò Bouvard e Pécuchet a parlare di donne ed essi le dichiararono frivole, bisbetiche e testarde. Nonostante ciò, esse erano a volte migliori degli uomini, a volte invece peggiori. In breve, era meglio vivere senza di loro; perciò Pécuchet era rimasto celibe.
– Io sono vedovo, senza figli! – disse Bouvard.
– Questo è forse un bene per voi.
Ma la solitudine, a lungo andare, era molto triste.
Poi, lungo la via, apparve una donnina allegra con un soldato. Pallida, con i capelli neri e il viso butterato dal vaiolo, si appoggiava al braccio del militare, trascinando le scarpe e dimenando i fianchi.
Quando si fu allontanata, Bouvard si permise una battuta oscena. Pécuchet divenne tutto rosso, e, certo per evitare di rispondergli, gli indicò con lo sguardo un prete che veniva avanti.
L’ecclesiastico percorse con lentezza il viale, lungo il quale dei miseri olmi fiancheggiavano il marciapiede, e Bouvard, quando non vide più il tricorno, si dichiarò sollevato, perché detestava i gesuiti. Pécuchet, senza assolverli, mostrò una certa deferenza per la religione.
Intanto scendeva la sera e, di fronte, delle persiane erano state sollevate. I passanti divennero più numerosi. Suonarono le sette.
I loro discorsi continuavano senza fine, le osservazioni succedevano agli aneddoti, le opinioni filosofiche alle considerazioni individuali. Criticarono il genio civile, il monopolio dei tabacchi, il commercio, i teatri, la marina e tutto il genere umano, come persone che avessero sofferto grandi delusioni. Ciascuno dei due, ascoltando l’altro, sembrava ritrovare frammenti dimenticati di se stesso. E, sebbene avessero passato l’età delle emozioni ingenue, provavano un piacere nuovo, una specie di serenità, l’incanto degli affetti al loro nascere.
Venti volte s’erano alzati, s’erano di nuovo seduti e avevano percorso il viale in tutta la sua lunghezza, dalla chiusa a monte a quella a valle, ogni volta con l’intenzione di salutarsi, senza averne la forza, trattenuti da una specie di fascinazione.
Tuttavia stavano per lasciarsi e si erano stretti la mano, quando Bouvard disse improvvisamente:
– E se pranzassimo insieme?
– Ne avevo l’idea, – rispose Pécuchet – ma non osavo proporvelo!
E si lasciò condurre di fronte all’Hôtel de Ville, in un ristorantino, dove si sarebbero trovati bene.
Bouvard ordinò il menù del giorno.
Pécuchet aveva paura delle spezie, perché temeva che lo riscaldassero. Ciò fu oggetto di una discussione medica. Infine, esaltarono i vantaggi delle scienze: quante cose da conoscere, quante ricerche… se ce ne fosse il tempo! Ahimè! Il lavoro per il pane quotidiano lo portava via tutto; e alzarono le braccia per lo stupore, e furono sul punto di abbracciarsi al disopra del tavolo quando scoprirono che erano tutti e due copisti, Bouvard in una ditta commerciale, Pécuchet al ministero della marina: cosa che non gli impediva di dedicare ogni sera qualche momento allo studio. Aveva scovato degli errori nell’opera di Thiers, e parlò con grandissimo rispetto di un certo professor Dumouchel.
Bouvard eccelleva in altre cose. La catenella dell’orologio fatta di capelli intrecciati e il modo con cui sbatteva la salsa rivelavano il vecchio satiro pieno di esperienza; mangiava tenendo l’angolo del tovagliolo sotto l’ascella, e aveva delle trovate che facevano ridere Pécuchet. Era un riso speciale, una sola nota molto bassa, sempre la stessa, emessa a lunghi intervalli. Il riso di Bouvard era continuo, sonoro, e gli scopriva i denti, gli scuoteva le spalle e faceva voltare gli avventori.
Finito il pasto, andarono a prendere il caffè in un altro locale. Pécuchet, contemplando i lampioni a gas, gemette sull’eccessivo lusso, poi, con un gesto sdegnoso, mise da parte i giornali. Bouvard era più indulgente nei loro riguardi. Amava tutti gli scrittori in genere, ed aveva avuto, in giovinezza, disposizione a divenire attore!
Volle fare volteggi equilibristici con una stecca da biliardo e due palle d’avorio, come faceva il suo amico Barberou. Ma invariabilmente esse ricadevano e, rotolando sul pavimento tra le gambe delle persone, andavano a perdersi lontano. Il cameriere, che si alzava ogni volta per cercarle, strisciando a quattro zampe sotto i tavolini, finì per lamentarsi. Pécuchet si irritò con lui: intervenne il proprietario, ma egli non ascoltò le sue scuse e fece storie anche sulla consumazione.
Propose poi di terminare la ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Indice
  4. Capitolo 1
  5. Capitolo 2
  6. Capitolo 3
  7. Capitolo 4
  8. Capitolo 5
  9. Capitolo 6
  10. Capitolo 7
  11. Capitolo 8
  12. Capitolo 9
  13. Capitolo 10
  14. Sull’ideazione e il seguito di Bouvard e Pécuchet, di Ermanno Cavazzoni