Omicidio stradale
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La legge 23 marzo 2016 n. 41 ha profondamente modificato la disciplina in materia di omicidio colposo e di lesioni personali colpose cagionati con violazione delle norme sulla circolazione stradale.
La configurazione dei reati in termini di fattispecie autonome, le svariate circostanze introdotte con la novella, le modifiche riguardanti la competenza per materia e le sanzioni amministrative applicabili hanno determinato il sorgere di complesse questioni giuridiche, che coinvolgono anche principi e istituti tradizionali del diritto penale sostanziale e processuale ( tempus regit actum, successione di leggi penali nel tempo, reato complesso, ecc.).
Si tratta di questioni che, al di là del mero rilievo speculativo, rivestono un rilevantissimo risvolto pratico, come dimostrato dalle svariate pronunce della Suprema Corte e della Consulta che esse hanno “provocato”.
Proprio una recente sentenza della Corte Costituzionale, la n. 88 del 2019, che ha dichiarato l’incostituzionalità “parziale” dell’art. 222 c.d.s., ha dato la stura anche a una questione, relativa alla possibilità di estendere gli effetti della pronuncia ai “rapporti esauriti”, che tocca recenti approdi del “diritto vivente”.
Raramente la riforma di poche norme del codice penale ha dato vita a una tale varietà di questioni.
A quattro anni dall’entrata in vigore della novella, il testo, dopo una sintetica ricostruzione delle due fattispecie incriminatrici e delle principali novità introdotte con la riforma del 2016, approfondisce le questioni giuridiche di maggior rilievo, indicando in maniera analitica le soluzioni prospettate dalla giurisprudenza, per poi passare in rassegna i casi pratici che le hanno originate.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788833792132
Argomento
Diritto
QUESTIONI

1. Successione di leggi penali nel tempo

Art. 2, 4° comma, c.p.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato il seguente principio: “in tema di successione di leggi penali, a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge più sfavorevole, deve trovare applicazione la legge vigente al momento della condotta” (Cass. Pen., Sez. U, n. 40986 del 19 luglio 2018).
Tale pronuncia ha composto un contrasto manifestatosi nella giurisprudenza della Suprema Corte, in materia di successione di leggi penali nel tempo.
Va evidenziato che, tra la fattispecie di omicidio colposo con violazione delle norme sulla circolazione stradale (“vecchio” art. 589, 2° comma, c.p.) e quella di omicidio stradale (art. 589-bis c.p., introdotto con la legge n.41/16), sussiste proprio un rapporto di successione di leggi penali nel tempo: il legislatore del 2016, invero, ha sostanzialmente trasposto nella nuova norma il testo del “vecchio” art. 589, 2° comma, c.p. Orbene, l’art. 2, 4° comma, c.p. stabilisce che “Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo …”. Nel caso in esame, risulta evidente che, sebbene siano rimasti invariati i limiti edittali (da due a sette anni di reclusione), sia più favorevole al reo la vecchia disciplina.
Al riguardo, va rilevato che, mentre la precedente fattispecie costituiva circostanza aggravante dell’omicidio colposo (ex plurimis, Cass. Pen., Sez. IV, n. 18204 del 15 marzo 2016; Sez. IV, n. 44811 del 3 ottobre 2014), il nuovo reato di omicidio stradale è stato configurato come fattispecie autonoma (cfr. Cass. Pen., Sez. IV, n. 29721 del 1° marzo 2017). Di conseguenza, mentre la vecchia disciplina, attraverso l’eventuale bilanciamento con eventuali attenuanti, poteva condurre all’irrogazione di una pena, nel minimo, di sei mesi di reclusione (nel caso di giudizio di equivalenza) ovvero di quattro mesi di reclusione (nel caso di giudizio di prevalenza), la normativa vigente, nel caso di applicazione delle circostanze attenuanti generiche, può condurre all’irrogazione di una pena, nel minimo, di un anno e quattro mesi di reclusione.
L’art. 2, 4° comma, c.p., dunque, impone di continuare ad applicare la vecchia disciplina ai reati commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 41/16.
Per dare ancora spazio alla vecchia disciplina, in ragione dell’applicazione dell’art. 2, 4° comma, c.p., però, è necessario che il reato sia stato commesso prima dell’entrata in vigore della novella (25 marzo 2016).
Diventa fondamentale, dunque, stabilire il tempus commissi delicti. Nei c.d. reati a evento differito, ossia in quelli in cui tra condotta ed evento intercorre un significativo intervallo di tempo, tuttavia, tale accertamento si presenta alquanto problematico e di rilevantissimo risvolto pratico, quando, in tale intervallo di tempo, si verifichi la sopravvenienza di una disciplina legislativa più favorevole per l’imputato. Evenienza quest’ultima che si era verificata proprio nel caso portato all’attenzione delle Sezioni Unite: la condotta ascritta all’imputato, contrastante con le norme del codice della strada, si era verificata il 20 gennaio 2016; la morte della vittima era sopravvenuta il 28 agosto 2016, dopo l’entrata in vigore della legge n. 41/16, intervenuta il 25 marzo 2016.
In generale, la questione relativa alla determinazione del tempus commissi delicti nei reati a evento differito ha dato vita ad un contrasto giurisprudenziale.
Secondo un primo indirizzo giurisprudenziale, nel caso in cui tra la data della condotta e quella in cui si verifica l’evento decorra un rilevante lasso temporale, nel corso del quale intervenga una modifica normativa, per la determinazione del trattamento sanzionatorio da applicare deve aversi riguardo “a quello vigente al momento della consumazione del reato: cioè al momento dell’evento lesivo” (Cass. Pen., Sez. IV, n. 22379 del 17 aprile 2015). Secondo tale indirizzo, nei casi in questione, è “assorbente” il dato letterale dell’art. 2, 4° comma, c.p., che “fa riferimento al tempo in cui è stato commesso il reato e cioè a quello in cui si è consumato”; è al momento della consumazione, dunque, che bisogna aver riguardo per individuare la normativa applicabile: solo “rispetto a tale momento può in ipotesi porsi una questione di applicazione di normativa sopravvenuta”.
Partendo da una diversa interpretazione dell’art. 2, 4° comma, c.p. e, in particolare del sintagma “reato commesso”, un diverso orientamento ritiene, invece, che si debba dare rilievo al momento della condotta, poiché “al fine di stabilire la legge applicabile, non si tratta di individuare il momento della consumazione, ma quello nel quale il reato è stato commesso, come espressamente stabilisce la legge. E se vi sono reati nei quali commissione e consumazione coincidono, ve ne sono altri nei quali il momento della consumazione, col realizzarsi dell’evento, si verifica successivamente o può verificarsi successivamente”. Il legislatore, infatti, uniformandosi ai princìpi di irretroattività e di non ultrattività, ha distinto tra commissione e consumazione del reato e l’interprete non può superare tale distinzione. In caso contrario, si giungerebbe “all’applicazione retroattiva della legge nel caso di nuove o più gravi statuizioni penali, quando la condotta si sia esaurita sotto l’imperio di una legge che non prevedeva il fatto come reato, o che lo prevedeva meno grave di quanto non sia considerato dalla nuova. Ed in tal modo il reo verrebbe ad essere punito più gravemente per il fatto puramente casuale che nel periodo di tempo intercorrente tra la sua condotta e l’evento sia sopraggiunta la nuova legge, in tal modo determinandosi quell’incertezza sul grado di illiceità del comportamento umano che è esclusa in modo assoluto dal principio dell’irretroattività” (Cass. Pen., Sez. IV, n. 8448, del 5 ottobre 1972, Bartesaghi, Rv. 122686).
Le Sezioni Unite hanno accolto il secondo indirizzo, ritenendo che, nel caso in cui la condotta sia stata interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e l’evento sia intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, debba trovare applicazione la legge vigente al momento della condotta.
In primo luogo, hanno chiarito che l’individuazione del tempus commissi delicti non può essere delineata in termini validi in via generale, ma deve essere riferita ai singoli istituti e deve essere ricostruita sulla base della ratio di ciascuno di essi e dei princìpi che li governano, non rinvenendosi nel codice penale una definizione “onnicomprensiva” del tempus commissi delicti. Tale, in particolare, non può essere considerata quella offerta dall’art. 6 c.p., che, al fine di individuare i reati commessi nel territorio dello Stato, fa coincidere la commissione del reato con il verificarsi nel territorio stesso della condotta (anche in parte) ovvero dell’evento. Proprio l’alternatività – o, meglio, l’equivalenza – ai fini dell’art. 6 c.p. del criterio della condotta e del criterio dell’evento dimostra l’inidoneità di detta disciplina a fissare il tempus commissi delicti ai fini della successione di leggi.
Passando, poi, in rassegna le altre norme del codice che contengono formulazioni sostanzialmente espressive del sintagma “reato commesso” (ad esempio, quelle in materia di recidiva, di sospensione condizionale della pena, di perdono giudiziale), il giudice di legittimità ha rilevato che esse – essendo relative a istituti diversi, ciascuno dei quali connotato da una particolare ratio e inserito in contesti normativi specifici – non consentono di desumere in maniera chiara e inequivocabile concetti di ordine generale, relativamente alla questione in esame. In conclusione, spetta all’interprete determinare il tempus commissi delicti con riferimento allo specifico istituto.
Venendo alla determinazione del tempo di commissione del reato con specifico riferimento alla questione della successione di leggi penali nel tempo, il Supremo Consesso ha precisato che il dato letterale dell’art. 2 c.p. non è affatto incompatibile con il criterio della condotta dell’agente, recepito dal secondo degli orientamenti sopra esposti. In particolare, ha chiarito che l’espressione “reato commesso”, contenuta nell’art. 2, 4° comma, c.p., non pone alcun ostacolo al criterio della condotta, poiché con essa il legislatore non ha voluto far riferimento al “reato nella triade dei suoi elementi costitutivi, condotta - nesso causale - evento naturalistico”, ma ha inteso semplicemente indicare la fattispecie penalmente sanzionata (assoggettata al regime della successione di leggi penali), diversamente da quanto fatto nel primo e nel secondo comma dell’art. 2 c.p., dove ha utilizzato il termine “fatto” per evocare la fattispecie non (o non più) penalmente sanzionata.
Per la Cassazione “la mancanza, nel codice penale, di una nozione onnicomprensiva del tempus commissi delicti e la valenza dei richiami al fatto e al reato nell’art. 2 cod. pen. convergono nell’individuazione di un’area semantica dell’espressione reato commesso nella quale è riconducibile, in via interpretativa, il criterio della condotta, senza fuoriuscire dall’ambito dei significati autorizzati dal testo legislativo, ossia dal quarto comma dello stesso art. 2”.
Dopo aver chiarito che il dato letterale non pone ostacoli all’accoglimento del secondo degli orientamenti esposti, la Corte ha affermato che le ragioni per le quali, ai fini della determinazione del tempus commissi delicti, deve trovare applicazione il criterio della condotta derivano dall’interpretazione sistematica e dalla valorizzazione dei principi, innanzitutto costituzionali, che governano la successione delle leggi penali nel tempo.
Il criterio della condotta dell’agente, in primo luogo, si presenta rispettoso del principio di irretroattività della norma più sfavorevole, che attiene non solo alle norme incriminatrici, ma anche a quelle che incidono sulla qualità e quantità della pena (cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 306 del 1993). Tale principio costituisce una garanzia della persona contro i possibili arbìtri del legislatore e mette l’individuo in condizione di valutare preventivamente le conseguenze penali della propria condotta, in modo tale da determinarsi in maniera consapevole (cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 394 del 2006). Per essere rispettato in maniera effettiva, il principio di irretroattività necessariamente implica che le sanzioni penali che verranno applicate all’agente siano quelle che egli aveva valutato nel momento in cui si era determinato al compimento della condotta. L’individuazione della norma concretamente applicabile, pertanto, deve essere necessariamente effettuata avendo riguardo al momento della condotta.
Correlando, invece, l’operatività del principio di irretroattività al momento dell’evento del reato, la persona si troverebbe a dover patire delle conseguenze penali più gravi rispetto a quelle che egli aveva valutato nel momento in cui aveva deciso il compimento della condotta, subendo così, in sostanza, un’applicazione retroattiva della norma sfavorevole.
Secondo la Corte, dunque, “la ratio di garanzia del principio di irretroattività della norma più sfavorevole e il suo necessario riferimento alla valutabilità delle conseguenze penali della condotta dell’uomo sono decisivi nell’indirizzare la soluzione della questione rimessa alle Sezioni Unite verso l’adesione al criterio della condotta”. Le Sezioni Unite, poi, hanno desunto dai lavori preparatori dell’art. 25 Cost. una chiara indicazione a favore della necessità di correlare, dal punto di vista cronologico, il principio di irretroattività alla condotta dell’agente e non all’evento. La disposizione costituzionale, infatti, ha recepito un emendamento proposto al fine di stabilire “in maniera precisa che la norma di legge penale deve preesistere non solo all’evento, ma anche all’azione”, poiché è in quest’ultima che “si realizza il contrasto tra la volontà imputabile del delinquente e la volontà della legge”.
La Suprema Corte ha dato rilievo anche all’art. 7, par. 1, CEDU, che sancisce il divieto di applicazione retroattiva delle norme penali incriminatrici, assicurando, come ha chiarito la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che, nel momento in cui un imputato commette l’atto che ha dato luogo all’azione penale, esista una disposizione legale che rende tale atto punibile in modo da poter orientare il suo agire (cfr. Corte Edu, sentenza 22 giugno 2000, Coéme c. Belgio). Secondo la Cassazione, il criterio della condotta trova poi una decisiva conferma di ordine sistematico nella funzione di prevenzione generale della pena: è nel momento in cui agisce ovvero omette di compiere l’azione doverosa che l’agente si pone in contrasto con la funzione di orientamento della norma penale.
La Suprema Corte ha posto in evidenza anche la coerenza dell’orientamento in esame con gli insegnamenti della Corte Costituzionale in materia di conoscibilità della norma penale.
Sotto tale profilo ha rilevato come la Consulta, muovendo dalla lettura congiunta del primo e del terzo comma dell’art. 27 Cost., nel quadro delle fondamentali direttive del sistema costituzionale desunte, tra l’altro, dall’art. 25 Cost., avesse messo in luce che alla possibilità di conoscere la norma penale deve essere “attribuito un autonomo ruolo nella determinazione dei requisiti subiettivi d’imputazione costituzionalmente richiesti”, in quanto tale possibilità è “presupposto della rimproverabilità del fatto, inteso quest’ultimo come comprensivo anche degli elementi subiettivi attinenti al fatto di reato”; in questa prospettiva, con specifico riferimento al principio di irretroattività della norma penale sfavorevole, la Corte Costituzionale aveva sottolineato che, “avuto riguardo anche al fondamentale principio di colpevolezza ed alla funzione preventiva della pena, desumibili dall’art. 27 Cost., ognuno dei consociati deve essere posto in grado di adeguarsi liberamente o meno alla legge penale, conoscendo in anticipo – sulla base dell’affidamento nell’ordinamento legale in vigore al momento del fatto – quali conseguenze afflittive potranno scaturire dalla propria decisione […]: aspettativa che sarebbe, per contro, manifestamente frustrata qualora il legislatore potesse sottoporre a sanzione criminale un fatto che all’epoca della sua commissione non costituiva reato, o era punito meno severamente” (Corte Costituzionale, sentenza n. 364 del 1988).
La Cassazione ha evidenziato che la sottolineatura del momento della “commissione” e la sua correlazione all’affidamento sulle conseguenze penali previste dall’ordinamento legale (da conoscere in anticipo) richiamano ancora una volta la rilevanza essenziale della condotta tipica e la necessità di individuare in essa il criterio per determinare il tempus commissi delicti ai fini della successione di leggi penali.
Conclusivamente, le Sezioni Unite hanno enunciato il seguente principio di diritto: “In tema di successione di leggi penali, a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, deve trovare applicazione la legge vigente al momento della condotta”. In applicazione di tale principio, in tutti i casi in cui la condotta contraria alle norme del codice della strada sia stata posta in essere sotto la vigenza della “vecchia” normativa, ma il decesso della vittima sia intervenuto dopo l’entrata in vigore della legge n. 41/16 (25 marzo 2016), dovrà trovare ancora applicazione il “vecchio” art. 589, 2° comma, c.p.

2. Omicidio e lesioni personali stradali (fattispecie autonome di reato)

Art. 589-bis c.p.
Art. 590-bis c.p.

La legge n. 41/2016 ha introdotto due nuove fattispecie: art. 589-bis (Omicidio ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Indice
  5. INQUADRAMENTO
  6. QUESTIONI
  7. CASI