capitolo sesto
Domare la natura: un’agricoltura di
leggibilità e semplificazione
Quando hai finito d’enumerare le parti del carro,
ancora non hai il carro.
Quando cominci a prendere decisioni e a suddividere le cose, cominciano a comparire regole e nomi.
Tutto quello che ha nome viene trattato come proprio,
perciò sappi contenerti.
Tao te-ching
Come abbiamo visto, le astrazioni necessariamente semplici delle grandi istituzioni burocratiche non possono rappresentare in modo adeguato la complessità reale dei processi naturali o sociali. Le categorie impiegate sono troppo grossolane, troppo statiche e troppo stilizzate per rendere giustizia al mondo che presumono di descrivere.
Per motivi che presto chiariremo, l’agricoltura ultra-modernista sponsorizzata dallo Stato ricorre proprio a questo tipo di astrazioni. Il semplice modello avanzato da questa visione agraria, ovvero «produzione e profitto», non ha saputo rappresentare gli obiettivi complessi, flessibili e negoziati dei coltivatori reali e delle loro comunità. E nemmeno è riuscito a rappresentare lo spazio in cui i coltivatori seminano i loro raccolti, con i suoi micro-climi, le variazioni di umidità e precipitazioni, la micro-orografia e la storia biotica locale. Incapace di rappresentare in modo efficace la quantità e complessità di fattorie e campi reali, l’agricoltura ultra-modernista è riuscita solo a semplificare in modo radicale quei campi e fattorie, allo scopo di meglio inquadrarli, controllarli e gestirli. Ho sottolineato la radicalità della semplificazione agricola specifica dell’ultra-modernismo perché in ogni sua forma, comprese quelle più rudimentali e neolitiche, l’agricoltura è sempre un processo di semplificazione dell’esuberante flora naturale1. Altrimenti come spiegare il processo mediante il quale l’uomo ha favorito certe specie botaniche che riteneva utili e ne ha scoraggiate altre che giudicava infestanti?
La logica che soggiace alla radicale semplificazione del campo è pressoché identica a quella che soggiace alla radicale semplificazione della foresta. Anzi, fu l’agricoltura semplificata, sviluppatasi prima, che funse da modello per la selvicoltura scientifica. Il principio guida era massimizzare il raccolto o il profitto2. Le foreste furono ri-concentualizzate come «fattorie della legna» in cui un’unica specie di albero veniva piantata in filari rettilinei e «falciata» come il grano quand’era «matura». Le precondizioni di queste semplificazioni erano l’esistenza di un mercato di materie prime e la pressione competitiva, sugli Stati oltre che sugli imprenditori, a massimizzare profitti o resa. Nel campo a monocoltura, come nella foresta a specie singola, gli altri innumerevoli membri della comunità biotica venivano ignorati, a meno che non incidessero direttamente sulle condizioni di salute e la resa delle specie coltivate. Questo restringimento dell’attenzione a un unico esito – invariabilmente quello più attraente dal punto di vista commerciale o fiscale – conferisce un potere analitico che permette a forestali e agronomi di monitorare meticolosamente l’influsso di altri fattori su quest’unica variabile dipendente. Entro il suo ambito ristretto, non si può negare la capacità straordinaria di questo approccio di incrementare le rese. Tuttavia, come vedremo, la sua prospettiva potente ma circoscritta soffre di alcuni inevitabili punti ciechi e si espone agli effetti dei fenomeni sfuggiti al suo campo visivo. Proseguendo con la metafora, questa limitatezza di visione significa che l’agronomia di produzione è spesso colta alla sprovvista da elementi rimasti inosservati al suo sguardo analitico e costretta, dalla crisi che ne deriva, ad assumere una prospettiva più ampia.
La questione di cui ci occuperemo in questo capitolo è perché un modello di agricoltura moderna e scientifica che aveva funzionato nell’Occidente temperato e industrializzato abbia fallito tanto spesso nel Terzo Mondo. A dispetto dei risultati scoraggianti, il modello è stato ciclicamente imposto dai modernizzatori coloniali, dai nuovi Stati indipendenti e dalle agenzie internazionali. In Africa, dove gli esiti sono stati particolarmente desolanti, un agronomo di grande esperienza ha dichiarato che «in materia di ricerca ecologica applicata all’agricoltura africana, una delle lezioni più cruciali degli ultimi cinquant’anni è che l’opzione di una ‘modernizzazione drastica’ ha risultati talmente negativi che adesso bisognerà prendere in seria e attenta considerazione l’ipotesi di un ritorno ad approcci più lenti e graduali»3.
Qui non si occuperemo delle specifiche cause di fallimento di questo o quel piano agrario. Certo, le consuete patologie burocratiche, oltre alle pratiche apertamente predatorie, hanno spesso contribuito enormemente a questi fallimenti. La mia tesi, tuttavia, è che la loro origine sia da ricercare a un livello più profondo: in altre parole, quei fallimenti sono sistemici, e si sarebbero verificati comunque, anche nelle migliori circostanze di efficienza e probità amministrativa.
Mi sembra che in questi fallimenti sistemici siano in gioco almeno quattro fattori. I primi due sono legati all’origine storica e al nesso istituzionale dell’agricoltura ultra-modernista. Primo, poiché la loro disciplina è nata nell’Occidente temperato e industriale, i fautori del modernismo nella pianificazione agricola avevano ereditato una serie di postulati dogmatici sui raccolti e la preparazione dei campi che si rivelarono controproducenti in altri contesti. Secondo, data la presunzione di competenza intrinseca alla pianificazione agricola modernista, i suoi schemi venivano regolarmente ricalibrati a vantaggio del potere e dello status dei funzionari e degli organi di Stato sotto il loro controllo4.
Il terzo elemento opera invece a un livello più profondo: a favorire certe forme di fallimento è la sistematica visione monoculare, da ciclope, dell’agricoltura ultra-modernista. La sua attenzione rigorosa agli obiettivi di produzione mette in ombra tutti gli esiti che non pertengono direttamente al rapporto tra costi e resa. Ciò significa che sia gli esiti a lungo termine (struttura del suolo, qualità dell’acqua, rapporti di proprietà terriera) sia gli effetti su parti terze, quelle che gli economisti del welfare chiamano «esternalità», ricevono scarsa attenzione fino a quando non cominciano a condizionare la produzione.
Infine, lo stesso punto di forza della sperimentazione agraria scientifica – i presupposti semplificanti e la capacità di isolare l’impatto di un’unica variabile sulla produzione totale – ha come risvolto l’incapacità di gestire in modo adeguato certe forme di complessità: per sua natura tende a ignorare o sottovalutare le prassi agricole non assimilabili alle sue tecniche.
A scanso di equivoci sui miei scopi, ribadisco che la mia non è una dichiarazione di guerra alla scienza agraria moderna, e tantomeno un attacco sferrato alla cultura della ricerca scientifica. L’agronomia moderna, con le sue sofisticate ibridazioni botaniche, il suo studio delle patologie delle piante, l’analisi della loro nutrizione e del suolo, la sua virtuosità tecnica, ha creato un patrimonio di preziose conoscenze oggi impiegato in qualche forma persino dai coltivatori più tradizionali. Il mio intento è piuttosto di mostrare come le pretese imperiali della scienza agraria – la sua incapacità di riconoscere o incorporare saperi esterni al suo paradigma – ne abbiano drasticamente limitata l’utilità per molti coltivatori. Mentre i contadini, come vedremo, sono pragmaticamente attenti a qualsiasi conoscenza utile a prescindere dalle sue fonti, i pianificatori agrari moderni sono molto meno ricettivi ai saperi «altri».
Varietà di semplificazione agricola
Agricoltura antica. Coltivare significa semplificare. Persino le forme più superficiali di agricoltura producono tipicamente un paesaggio botanico molto meno diversificato di quello naturale. Una volta che sono pienamente domesticate, le piante coltivate dall’uomo dipendono dai coltivatori per la loro sopravvivenza – e da interventi come bonifica dei terreni, bruciatura dei cespugli, dissodamento, eradicazione delle piante infestanti, potatura, applicazione di fertilizzanti. I campi coltivati non sono un paesaggio artificiale in senso stretto, poiché tutti gli animali, compresi gli esseri umani, modificano il proprio ambiente nel corso delle loro attività di procacciamento del cibo. Quel che è certo, però, è che gran parte delle cultivar dell’Homo sapiens si è adattata a un ambiente alterato al punto da tramutarsi in ««mostro biologico»», cioè un organismo incapace di sopravvivere in natura5.
Millenni di selezioni e ibridazioni umane intenzionali hanno favorito cultivar sistematicamente diverse rispetto alle loro cugine selvatiche e infestanti6. Per convenienza noi abbiamo favorito piante con semi grandi e a facile germinazione, che producono più fiori e dunque più frutti, i quali a loro volta sono quelli più facili ...