Le consolazioni della fisica
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Le consolazioni della fisica

Perché le meraviglie dell'universo possono rendere felici

  1. 192 pagine
  2. Italian
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Le consolazioni della fisica

Perché le meraviglie dell'universo possono rendere felici

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Un suggestivo manifesto a favore della fisica, che nello stile di un Boezio degli anni duemila fa scoprire il potere rasserenante della contemplazione dell'universo e delle sue leggi. In un'età divisa e in perenne conflitto, Tim Radford, storico editorialista scientifico di «The Guardian», si volge verso le meraviglie dell'universo per trovare consolazione. Dal lancio della missione Voyager per approfondire la conoscenza di pianeti, stelle e galassie, all'individuazione del pianeta interamente composto da diamanti e grafite

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Informazioni

Editore
Hoepli
Anno
2020
ISBN
9788820398446
Categoria
Fisica

1. In viaggio verso le stelle

Immaginatela come il migliore ed estremo rimedio per fuggire dalla realtà. È in viaggio verso le stelle ma nessuno la definirebbe affusolata o aerodinamica, nessuno la considererebbe all’avanguardia, nessuno oggi ne giudicherebbe sofisticata la strumentazione, né userebbe il linguaggio con cui è stato scritto il suo codice informatico. Niente a bordo è miniaturizzato e d’altro canto come potrebbe esserlo, se la sua memoria ha la forma di un registratore digitale a nastro a otto tracce che si svolge e riavvolge grazie a una fonte di energia sempre più labile, che eroga elettricità misurata in frazioni di watt? Il luogo in cui si trova non è accogliente, dato che la temperatura dello spazio interstellare è di poco superiore allo zero assoluto. Stagliata su un fondale fatto di buio e puntini di stelle remote, ben oltre gli ultimi avamposti del sistema planetario, appare immobile, perché gli unici elementi rispetto a cui si riuscirebbe a valutarne il movimento sono anch’essi irrimediabilmente lontani. Nonostante tutto, però, è uno degli oggetti più veloci che abbiano mai lasciato la Terra.
In questo momento si sta allontanando dal sole a più di diciassette chilometri al secondo, oltre 62.000 chilometri all’ora. È una velocità difficile da immaginare. Se un veicolo spaziale del genere sorvolasse a bassa quota Londra – e certamente non potrebbe farlo, a quella velocità – o l’area metropolitana di New York, o ancora la vasta e disordinata area urbana di Shanghai, compirebbe la traversata in poco più di un secondo e sarebbe ormai lontano prima che un bang supersonico ne annunciasse il momento dell’arrivo. Come lo shakespeariano Puck nel Sogno di una notte di mezza estate, potrebbe avvolgere una cintura intorno alla Terra in quaranta minuti. È davvero lontano l’unico emissario superstite partito dal nostro pianeta, lanciato da un manipolo di sognatori con lauree in ingegneria, fisica matematica e astronomia, sognatori armati di pazienza, determinazione e una forte vena pratica. Rappresenta l’ultima grande ambizione dei primi anni dell’era spaziale, quelli tra il 1957 e il 1977, che videro l’Unione Sovietica mandare nello spazio il primo oggetto, i primi cani, il primo uomo, la prima squadra di uomini, la prima donna e poi le prime missioni verso un altro pianeta; erano gli anni in cui l’ambizione e l’entusiasmo americani spedirono per la prima volta degli uomini sulla luna e li riportarono indietro vivi. Per qualche tempo si ebbe l’impressione che la Guerra Fredda prendesse la forma di una gara nello spazio, poi invece si ricadde in un conflitto combattuto per procura nel Sudest asiatico, con il napalm e il defogliante Agente Arancio, mentre i governi da entrambe le parti iniziavano a perdere interesse per la scoperta in sé.
Ma nel 1977 la missione Voyager era un progetto inderogabile, non si poteva aspettare. Era stata immaginata per sfruttare una congiunzione planetaria che si verifica soltanto una volta ogni due secoli: tutti i pianeti esterni si sarebbero trovati sullo stesso lato del sole, perciò una sonda spaziale avrebbe potuto visitarli uno dopo l’altro. Il progetto Voyager è sopravvissuto alle riduzioni dei finanziamenti decise dai politici del momento: coloro che lo avevano approvato, infatti, stanziarono fondi per un viaggio di quattro anni, mentre coloro che lo stavano realizzando lavoravano in silenzio affinché ne durasse quaranta. Le sonde Voyager furono lanciate con a bordo una lettera del presidente Jimmy Carter e una canzone di Chuck Berry, dotate di un sistema informatico paragonabile, per capacità e funzioni, a un moderno smartphone di modesta fattura, con tre computer separati invece che uno solo, ciascuno dei quali decisamente più grande di uno smartphone e identici tra loro, nel caso se ne guastasse uno.
Quando nel 1977 la missione decollò, agganciata a un razzo Titan, rappresentava il punto culminante di un sogno di per sé più antico dell’era spaziale. Eppure alcuni di quei visionari dell’esplorazione interplanetaria riuscirono ad assistervi e a vederne il successo. Si trattava di una doppia missione: vennero infatti lanciate due sonde, prima la Voyager 2 e poi, appena sedici giorni dopo, la Voyager 1: avevano diversi piani di volo, ma nel complesso raggiunsero Giove, Saturno e le loro lune, per poi proseguire verso Urano e Nettuno. Portavano con sé una schiera di strumenti: un piccolo arsenale di rivelatori progettati per catturare la luce necessaria alle fotografie, analizzare le radiazioni elettromagnetiche, localizzare e identificare qualsiasi particella lungo la rotta. I padri della missione Voyager si erano preparati per quasi ogni forma di radiazione, anche le meno immaginabili. Erano equipaggiati per qualsiasi campo magnetico o elettrico e per qualsiasi genere di particella cosmica scagliata contro il sistema solare dalle stelle più remote.
Per accelerare fino a una velocità che poteva portarli fuori dal sistema solare, entrambi i veicoli spaziali hanno sfruttato l’imponente campo gravitazionale di Giove. La faccenda in realtà è banale: le equazioni della fisica forniscono soluzioni che consentono di economizzare il combustibile e rendere possibili dei viaggi davvero epici, quindi le sonde spaziali hanno per così dire concluso uno scambio con il pianeta più grande del sistema solare. Mentre ciascuna delle due orbitava attorno a Giove ne rallentava la rotazione, catturandone in cambio la forza equivalente sotto forma di velocità. Ma non c’era di che preoccuparsi per quel baratto: l’energia del campo gravitazionale di Giove ha portato le due sonde a vertiginose velocità e – poiché le leggi della fisica prescrivono che l’energia debba essere conservata – l’ostacolo rappresentato dalle due Voyager ha rallentato la rotazione di Giove di una percentuale che si potrebbe misurare in centimetri su un periodo di un trilione di anni. Ciascuna sonda è stata scagliata nello spazio remoto dall’erculea massa del gigante gassoso, come un disco lanciato da un dio romano. Entrambe hanno poi proseguito verso Saturno e da lì la Voyager 2 ha puntato su Urano e Nettuno mentre la gemella abbandonava il sistema solare.
Nel febbraio del 1990, a sei miliardi di chilometri da casa e ben oltre il piano dell’eclittica – il polveroso disco rotante del sistema solare lungo cui si muovono i pianeti – alla Voyager 1 è stata fatta invertire la rotta affinché le sue fotocamere scattassero un ultimo ritratto di famiglia dei piccoli mondi che orbitano intorno al sole. Le sessanta fotografie sono lì, nell’album del mondo, e una di esse ha ispirato parole che mi hanno procurato un leggero brivido, non solo la prima volta che le ho lette ma ancora adesso, a distanza di quasi vent’anni: si tratta di Pale Blue Dot [Pallido puntino blu], l’inno al nostro pianeta composto dall’astronomo Carl Sagan nel 1995.
Guardate ancora quel puntino. È qui. È casa. È noi. Su di esso, tutti coloro che amate, tutti coloro che conoscete, tutti coloro di cui avete mai sentito parlare, ogni essere umano che sia mai esistito, hanno vissuto la propria vita. L’insieme delle nostre gioie e dolori, migliaia di religioni, ideologie e dottrine economiche, così sicure di sé, ogni cacciatore e raccoglitore, ogni eroe e codardo, ogni creatore e distruttore di civiltà, ogni re e plebeo, ogni giovane coppia innamorata, ogni madre e padre, figlio speranzoso, inventore ed esploratore, ogni predicatore di moralità, ogni politico corrotto, ogni “superstar”, ogni “comandante supremo”, ogni santo e peccatore nella storia della nostra specie è vissuto lì, su un minuscolo granello di polvere sospeso in un raggio di sole.
Dalla distanza da cui erano state scattate quelle fotografie, la Terra naturalmente è a stento visibile. Poco più avanti nello stesso capitolo Sagan scriveva:
Le nostre ostentazioni, la nostra immaginaria autostima, l’illusione che abbiamo una qualche posizione privilegiata nell’Universo, sono messe in discussione da questo punto di luce pallida. Il nostro pianeta è un granellino solitario nel grande, avvolgente buio cosmico. Nella nostra oscurità, in tutta questa vastità, non c’è alcuna indicazione che possa giungere aiuto da qualche altra parte per salvarci da noi stessi.
Quando mi sento un po’ più triste del solito e desidero evadere dallo squallore e dalla vergogna di molti comportamenti umani, ripenso al progetto Voyager e mi rendo conto che una fuga è impossibile: siamo incollati al pianeta che abbiamo e non possiamo far altro che buon viso a cattivo gioco. In un mondo che sembra caratterizzato da risentimento, sospetto e ostilità, da censure e fanatismi, da filo spinato ai confini e divieti di ingresso, da avidità e ineguaglianze a livelli quasi grotteschi, la missione Voyager ci ricorda che gli esseri umani sono capaci anche di collaborare altruisticamente alla ricerca di soddisfazioni del tutto immateriali; se mai si sentisse l’esigenza di una distrazione spirituale, il programma Voyager è lì per questo.
Alcuni di noi possono dunque ancora trarre una certa consolazione – sì, un po’ di conforto – pensando a quelle due sonde ormai oltre i limiti teorici del sistema solare, dirette verso lo spazio interstellare, sole e lontane l’una dall’altra, al freddo e nell’oscurità, la maggior parte della strumentazione ormai spenta, i registratori che continuano a girare per cogliere e trasmettere i loro 68 kilobyte di dati e non di più, per inviare verso casa messaggi sempre più deboli, che possono essere captati e decifrati soltanto dalle antenne più potenti al mondo, ma destinate a farsi silenziose man mano che le loro fonti di energia al plutonio si esauriscono, portando con sé non solo la testimonianza della civiltà che le ha create, ma immagini, parole e anche musica. La missione Voyager rappresenta un atto di speranza: che a un certo momento una qualche civiltà aliena, se mai esiste, intercetti una delle sonde, la esamini, ne scopra il disco placcato d’oro che reca i nostri saluti nelle lingue della Terra, oltre al chiacchiericcio emesso dalle balene, a fotografie di delfini che saltano, alla musica di Beethoven e a quella di Chuck Berry. Questo ipotetico esploratore alieno potrebbe avere qualche difficoltà a interpretare il significato della scoperta, a comprendere che il disco dev’essere fatto girare a una determinata velocità mentre viene graffiato da una puntina che rilascerà delle vibrazioni, che a loro volta acquisiscono un senso soltanto se trasmesse dall’aria a pressioni atmosferiche tipiche di un pianeta roccioso relativamente piccolo, coperto in gran parte d’acqua. Ma d’altra parte, ironicamente, lo stesso vale per alcuni di noi, adesso, sulla Terra.
La tecnologia ha fatto dei passi avanti, perciò i ragazzini in linea di massima non si servono più di giradischi e LP. D’altra parte neppure i programmatori usano più Fortran o gli altri linguaggi tipici dei primi sistemi informatici. La Terra è andata in una direzione e le sonde spaziali Voyager in un’altra. Si tratta ormai di emissari d’antiquariato, una risibile missione sovrappeso dotata di goffi sistemi ma con una sola virtù, ovvero il fatto che malgrado qualche temporaneo inconveniente le due navicelle lavorano ormai da quarant’anni, non importa quanto inverosimilmente, in un ambiente in cui nessun essere vivente riuscirebbe a sopravvivere per più di qualche secondo. Le sonde Voyager si trovano nella morsa di un freddo talmente spietato e micidiale che non esistono parole per descriverlo, se non che è «vicino allo zero assoluto». Attraversano in volo un’oscurità di cui possiamo soltanto dare un’immagine classicheggiante: la definiamo stigia ed evoca il paesaggio della morte e dell’oblio. Tuttavia sono vive, stanno raggiungendo dei luoghi e portano con sé un messaggio destinato al resto dell’universo. Anche se mai nessuno lo leggerà, o troverà una delle due sonde, resta un pensiero: niente dura a lungo, e in un universo infinito tutto quello che può accadere accadrà, perciò alla fine qualcuno troverà la Voyager e leggerà il suo messaggio nella bottiglia. Da parecchio tempo, ormai, noi non ci saremo più, cosa che trovo bizzarramente confortante. Le idee umane persisteranno finché persiste l’umanità. Gli ultimi pensieri spireranno insieme all’ultimo essere umano pensante. La missione Voyager invece andrà avanti e rappresenterà il palpabile esempio di questi pensieri. Implicitamente annuncia: «Noi eravamo qui.»
Ma perché ci importa? I motivi sono due, forse tre, e affondano le proprie radici nella fisica. Se la fisica è la ricerca delle leggi, dei principi, dell’ordine che stanno alla base della nostra realtà e le danno forma – l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo, le rocce su cui siamo posati, l’energia solare e l’anidride carbonica che in qualche modo diventano alberi, cespugli, prati e naturalmente cibo – allora un esperimento come quello delle sonde Voyager è la prova che sappiamo qualcosa di quell’ordine e vogliamo saperne e capirne di più. Sappiamo fare i calcoli, determinare la quantità di carburante, costruire un veicolo spaziale, inviarlo e osservarlo mentre si allontana. E continua ad allontanarsi. Il programma Voyager è al contempo una dichiarazione di fiducia e una manifestazione di speranza. Coloro tra noi che sono stati educati a recitare il Credo di Nicea la domenica affermerebbero, senza starci troppo a pensare, che fra le molte altre cose crediamo alla resurrezione dei morti, e forse alcuni di noi pensano proprio che sia vero, senza essere tuttavia mai riusciti a dimostrare una verità del genere.
La missione Voyager ci conferma che un corpo sottoposto a una forza rimane in uno stato di moto uniforme finché non venga applicata una forza diversa e che quelle altre forze possono essere previste e poi verificate confrontandole con le ipotesi. In termini evolutivi non è così evidente la necessità di tale conoscenza: i delfini, gli edredoni e i dromedari si sono evoluti su questo pianeta e hanno felicemente occupato le proprie nicchie ecologiche senza fondare alcuna tradizione né sapere, senza formulare, per quanto ne sappiamo, la benché minima domanda sullo scopo e il significato della vita. C’è tuttavia un mammifero, che si è evoluto nella minuscola biosfera terrestre e ne dipende, in grado di calcolare velocità e prevedere traiettorie di volo tali da inviare un emissario verso le stelle più remote. Parliamo di «sete di conoscenza», ma queste frasi fatte non bastano. La curiosità non è una sete che può essere appagata: è una condizione permanente. Ogni risposta conduce ad altre domande, talvolta anche più profonde. E la conoscenza, di per sé, non le soddisfa affatto: vogliamo di più, vogliamo qualcosa di inafferrabile che si chiama comprensione, o sapienza. Vogliamo sia la visione d’insieme sia il nostro posto al suo interno.
Il programma Voyager non è stato soltanto il frutto di un’avventura intellettuale ma il lancio di un’altra: quello che le sonde vedevano e inviavano sulla Terra – un’aurora sopra il polo nord di Giove, per esempio, oppure affascinanti tracce di una ghiacciata violenza tettonica sulla superficie delle lune di Giove, Ganimede e Callisto, persino la scoperta di un’evanescente serie di anelli intorno al gigante gassoso – iniziava immediatamente ad aiutarci a comprendere non solo il pianeta su cui ci siamo evoluti, ma molte e molte più cose sull’improbabilità della vita su altri pianeti e sulla straordinaria fortuna che abbiamo a trovarci proprio su questo, proprio adesso. Non siamo solo esseri umani consapevoli, ma consapevoli delle immense possibilità della vita; non solo possiamo fare domande, ma – ci dice la missione Voyager – siamo in grado di rispondere, almeno ad alcune di esse, mentre ne troviamo di nuove e più sconcertanti da porre.
La missione Voyager ci ricompensa anche in altro modo. Si tratta della conferma che gli esseri umani – una specie caratterizzata da una lunga e spaventosa storia di avidità, egoismo, risentimento e omicidi – sono in grado di sognare un’avventura realmente altruistica e di lavorare insieme per realizzarla. L’abbiamo progettata, perfezionata, costruita, testata, lanciata e poi accudita dal 1977 fino a oggi, ma sembra piuttosto chiaro che non lo abbiamo fatto per denaro. Lo abbiamo fatto perché ci credevamo. E se Voyager è stata essenzialmente una missione americana, in fin dei conti finanziata dal governo degli Stati Uniti, ha portato comunque avanti i sogni e le ambizioni di fisici e astronomi di tutto il mondo.
Il programma Voyager è soltanto un esempio di quella spinta a collaborare che sembra tipica della fisica e dell’astronomia fin dall’inizio, un’ambizione collettiva e condivisa di conoscere di più del mondo e del posto che occupiamo al suo interno: ce ne sono altri, e ciascuno di essi è la testimonianza della generosità di una grande idea, spesso apparentemente folle.
Al di sotto del substrato roccioso su cui sorgono la città di Ginevra e i paesini francesi al di là del confine, c’è un tunnel del diametro di ventisette chilometri che ospita quattro smisurati esperimenti, in una partnership composta da diecimila scienziati e ingegneri provenienti da ogni parte del mondo: si tratta dell’Organizzazione Europea per la Ricerca Nucleare, conosciuta anche con l’acronimo CERN, in cui si svolge quello che potrebbe infine rivelarsi un tentativo impossibile per risolvere un problema filosoficamente ridicolo: come ha avuto inizio l’universo? Quali strani eventi hanno preso forma nel primo violento microsecondo della creazione, rendendo possibile il mondo che attualmente definiamo «terreno»? Che cosa ha determinato le proprietà della materia?
Negli Stati americani di Washington e della Louisiana un progetto di collaborazione internazionale denominato LIGO, ovvero Laser Interferometry Gravitational Wave Observatory, ha sviluppato degli esperimenti identici: necessariamente identici, perché per convincere i ricercatori coinvolti nel progetto, ogni strumento deve confermare i dati dell’altro. Mentre gli scienziati di Ginevra desiderano interrogare la natura della materia, ovvero la sostanza dell’universo, i gruppi di ricerca del LIGO hanno iniziato a porsi delle domande sul tessuto dello spazio. Gli esperimenti esistono unicamente per localizzare delle distorsioni nello spazio-tempo a livelli di sensibilità così estremi che su una distanza di sei chilometri e mezzo gli strumenti potrebbero registrare una variazione di meno di un millesimo nel diametro del nucleo di un atomo e, da questo, identificare un evento inimmaginabile a velocità impensabili, avvenuto a un miliardo o più di anni luce di distanza e pertanto più di un miliardo di anni fa. Tutti questi esperimenti hanno in comune un elemento chiave: non è concepibile una ricompensa concreta per l’informazione che si cerca.
Nessun essere umano diventerà più ricco perché la missione Voyager ha confermato l’esistenza di una eliopausa, ovvero di una regione in cui la pressione del vento proveniente dal sole – la pioggia di particelle che caratterizza il sistema solare – è più o meno uguale a quella derivante dal gas e dalla polvere che giungono dalle stelle più lontane. Nessun governo può verosimilmente sperare di trarre vantaggi o promuovere un concreto miglioramento economico a favore dei propri cittadini grazie alla conferma da parte dei fisici teorici del CERN di Ginevra, nel 2012, dell’esistenza di una particella subatomica nel primo trilionesimo di secondo di tempo, quando l’universo aveva probabilmente le dimensioni di un pallone da calcio, o forse di un campo da calcio. I fisici «avevano bisogno» del bosone di Higgs per spiegare come mai la materia abbia una massa poiché nel loro modello omnicomprensivo del motivo per cui l’universo è fatto proprio così era necessario che esistesse un bosone nel primo attimo della creazione. Le teorie tuttavia hanno bisogno di conferme in ogni punto. L’identificazione della particella di Higgs, quindi, dimostrava che – fino a quel momento – avevano lavorato con il modello giusto. Questa conferma della sua esistenza è tuttavia limitata: nessuno potreb...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. Indice
  6. Ringraziamenti
  7. Un segnale nel vuoto
  8. 1. In viaggio verso le stelle
  9. 2. I vettori della memoria
  10. 3. Avventure con la macchina del tempo
  11. 4. Contemplazione in caduta libera
  12. 5. La distanza del buio
  13. 6. La fabbrica dei pianeti
  14. Quarant’anni dopo
  15. Fonti
  16. Informazioni sul Libro
  17. Circa l’autore