I pieni poteri e la politica finanziaria La ragione dei pieni poteri?
La dittatura in atto vuole avere dalla Camera non solo il voto di maggioranza, ma anche la delega per la dittatura, cioè l’esercizio provvisorio a tutto il 30-06-’23 e i pieni poteri tributari a tutto il 31-12-’23 o ’24.
Quella accolta di uomini mediocri, che il dittatore ha messi intorno a sé, come in certe compagnie drammatiche, ha fatto presto a stamburare gli imparaticci delle economie, del pareggio, della forza nazionale, del passaggio di servizi alla industria privata. Ma quando si è trattato di concretare, di tradurre in provvedimenti positivi, quella accozzaglia di diverse aspirazioni o illusioni onde risulta il fascismo, nessuno dei signori Ministri ha saputo fornirci nemmeno un canovaccio degno di discussione. Quando si è trattato di risolvere il problema burocratico e il problema tributario, invece di annunciare la risoluzione di questioni ormai da troppo tempo discusse e controverse, il Governo non ha saputo dire che questo: io farò domani, e lasciatemi fare quello che vorrò, senza un’indicazione preventiva, senza un controllo successivo!
Poteva il Governo fin dal suo inizio abolire qualche Ministero, sopprimere inutili sottosegretariati, ridurre il personale dei Gabinetti al minimo necessario, e indicare una serie di altre economie burocratiche già mature nella coscienza comune. Invece no, nulla di tutto questo – lo stesso Governo che mantiene Ministri, sottosegretari, gabinetti, e che promette posti ai disoccupati ex combattenti o squadristi, domanda, per le economie che non sa descrivere, pieni poteri.
Veramente per la riduzione e la semplificazione burocratica i pieni poteri ci sono già. Dalla legge 13 agosto 1921, prorogata al 30 giugno 1923, era delegata al Governo la facoltà di legiferare a sua posta nella materia; e la Commissione parlamentare che gli è stata messa accanto, non aveva altro potere che di vedere i decreti prima che fossero pubblicati e dare un semplice parere: non era che un mezzo di controllo e di anticipata pubblicità, per impedire che passassero inavvertiti eventuali arbitri del potere esecutivo.
Pieni poteri dunque, ma secondo un determinato indirizzo (semplificazione dei servizi) e con un osservatorio elettivo (la Commissione; la quale in fatto nulla intralciò dell’opera di riforma e semplificazione, anzi la stimolò continuamente, richiese quasi sempre riduzioni e tagli maggiori di quelli proposti dal Governo, e nella stessa riforma giudiziaria tenne ferma l’abolizione di molte circoscrizioni giudiziarie, fino alla proposta, difesa dalla minoranza, di abolire le quattro Corti regionali di Cassazione e parecchie Corti di Appello).
Perché allora il Governo vorrebbe liberarsi anche della Commissione parlamentare? Evidentemente e unicamente per accentuare la propria capacità di arbitrio e sottrarsi a ogni controllo.
Ma assai più grave e insopportabile è la richiesta del Governo dei pieni poteri in materia finanziaria.
In nessun Parlamento d’Europa, crediamo, mai certo in Inghilterra, in Francia, in Belgio, in Germania, sono stati dati al Governo i pieni poteri in materia tributaria. I Parlamenti traggono anzi la loro origine proprio dal concetto di limitare i poteri del Principe o del potere esecutivo, nel prelevamento delle imposte.
Ma non è tanto il motivo formale, costituzionale che c’importa, quanto la sostanza delle cose. Nei pieni poteri burocratici c’è almeno una linea, un indirizzo (la semplificazione) e una limitazione risultante dalla stessa resistenza burocratica che deve cooperare alla formazione dei decreti, e dalla inevitabile volontà espansiva dei Governi.
In materia tributaria, invece, nulla sarebbe detto o determinato; cioè l’arbitrio pieno e sconfinato in una materia che tocca direttamente tutti i cittadini contribuenti.
Nessuno saprebbe a quale scopo, con quale indirizzo.
Mentre noi, che siamo accusati di negativismo, di antinazione, di ignoranza demagogica, ecc., abbiamo anche poco tempo fa, dettagliatamente esposto un nostro preciso programma finanziario – i presenti rinnovatori della Nazione non hanno ancora precisato nulla e pretendono che la gente giuri senz’altro su quello che domani potranno sognarsi di fare. I concetti generici di aliquote basse, ma di accertamenti giusti, senza evasioni, senza frodi, sono stati da noi, non dai fascisti, tradotti in formule concrete.
In sostanza, dunque, i pieni poteri si domandano per questo: la risoluzione del problema finanziario esige capacità, cognizione, precisa direttiva politica – il Governo attuale non brilla di competenze tecniche, e ha interesse a mantenere quell’equivoco politico sul quale ha fondato le sue fortune – quindi esso chiede che la dittatura già conquistata con la violenza, sia confermata dal voto più abbietto e avvilente che un Parlamento possa dare – per mantenersi altrettanta libertà politica di ricatto o di oppressione tributaria sui diversi ceti sui quali la Dittatura intende giocare a mantenersi.
[«La Giustizia», a. XXXVIII, 19 novembre 1922, 264, ripubblicato con titolo La ragione dei pieni poteri]
Come può addivenire «attiva» la gestione privata dei pubblici servizi
L’on. Tangorra1, Ministro del Tesoro, richiesto di dimostrare la affermata incapacità degli Enti pubblici a gestire i grandi servizi, rispose indicando la passività di oltre un miliardo nelle Ferrovie dello Stato. Ma con la stessa ragione ed efficacia, un oppositore avrebbe potuto dimostrare la incapacità delle Società private a gestire le industrie, indicando… il disastro assai più grave delle società private Ansaldo!
Evidentemente non è con codesti argomenti che si definisce la questione. Un esempio di cattiva gestione non dimostra che un sistema di gestione sia senz’altro da rigettare.
Diciamo anzi di più: l’Azienda privata è sempre e necessariamente attiva. Quando essa non è attiva, fallisce; o si scioglie o gliene succede un’altra che dal fallimento della prima trae delle proprie attività.
Ma l’attività dell’azienda privata non equivale necessariamente a una gestione economica socialmente, o, mettiamo pure, razionalmente attiva. Si può avere un’azienda privata che distribuisce alla fine dell’anno un dividendo dell’8 e del 10 per cento ai suoi azionisti, ma che economicamente non è utile, in quanto il peso delle sue passività è sostenuto da altri, o l’utile degli azionisti è procurato a danno di altri cittadini.
Così una gestione privata di telefoni o di ferrovie potrà essere rappresentata attiva, in contrapposto a una gestione pubblica passiva; ma ciò non vuol dire senz’altro che per i cittadini – non per gli azionisti! – quella sia economicamente più utile o meno costosa o dannosa di questa. Quando, in certi specchi diffusi dalla propaganda delle società telefoniche private, si dimostra che di due equivalenti reti telefoniche, una privata e una statale, la prima è attiva e la seconda passiva, la dimostrazione non conclude – perché l’attivo degli azionisti privati può essere ugualmente pagato alle spalle dei cittadini, come un volgarissimo deficit di azienda pubblica!
Infatti, spesso la società privata raggiunge necessariamente il suo pareggio e il suo vantaggio ai danni dei seguenti elementi:
A) del consumatore. Ognuno che si trovi per sua disgrazia dentro i confini di una rete telefonica privata, sa che il servizio non vi procede meglio dello Stato. Impianti spesso insufficienti, fili troppo sottili o comunque inadatti, personale che non risponde per il sovraccarico di lavoro, deficiente protezione delle linee, interruzioni per ritardi nelle riparazioni, ecc. In questi elementi vi può essere un rimpasto economico di personale, di materie, di capitali per la Società, ma ai danni del consumatore, che altrettanto fieramente protesta contro lo Stato, quanto più tace verso il privato.
Le società private assumono poi volentieri i servizi redditizi dei grandi centri o delle linee più frequentate, ma rifiutano energicamente di estenderli ai centri minori, dove farebbero molto comodo ai cittadini, ma dove l’intensità del servizio e i proventi sono proporzionalmente assai minori e quindi gli utili verrebbero decurtati. Gli Enti pubblici provvedono invece per definizione anche alle località più povere e inadatte, integrandone la deficienza e compensando la perdita di un luogo con i vantaggi di un altro.
Le industrie private non hanno altri limiti nella fissazione del prezzo dei loro prodotti, che quelli della concorrenza. Anzi anch...