Il contagio dell'algoritmo
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Il contagio dell'algoritmo

Le Idi di marzo della pandemia

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Il contagio dell'algoritmo

Le Idi di marzo della pandemia

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«Oggi si diventa entità civile e democratica se si dispone dell'autonomia nella gestione dei dati. Calcolare il trend della pandemia, certificare la sicurezza di un territorio e di un'attività, è il vero potere sovrano. È come battere moneta, amministrare giustizia, gestire i canali di informazione televisiva». Mai come oggi l'umanità intera ha condiviso negli stessi istanti la medesima tragedia, a prescindere da condizioni sociali e geopolitiche. Il virus si diffonde ovunque, come la rete. È potente, come la rete. Ma viaggia solo grazie a noi, e grazie a noi lascia tracce di sé proprio sulla rete. I miliardi di dati e informazioni pulviscolari che seminiamo nel web, se raccolti, interpretati e calcolati, possono essere cruciali per anticipare le mosse del virus, o per lo meno per tenere il suo passo e non arrancare. Il nodo è questo, e non riguarda solo la lotta al virus: il vero potere è oggi nelle mani di chi cattura e gestisce le nostre tracce online, e se si tratta dei tre o quattro colossi del web la democrazia latita. La pandemia, oltre al dramma delle morti, lancia un allarme più profondo: se vogliamo difendere la democrazia, è urgente riconsegnare il potere al pubblico, affidare la gestione dei nostri dati alle istituzioni, e parallelamente accrescere le nostre competenze digitali. Assumere un atteggiamento critico e consapevole nei confronti dei numeri che recepiamo passivamente e degli strumenti informatici che adoperiamo con disinvoltura: è questa l'unica arma che abbiamo per smascherarne la fasulla neutralità e riacquistare la nostra voce.ilcontagiodellalgoritmo.it

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788855221474
L’economia

A grim calculus

«L’epidemia è un fenomeno sociale che ha alcuni aspetti medici».
Rudolf Virchow, scienziato e politico tedesco dell’Ottocento
«Sappiamo più del futuro che del passato del virus», scrive Paolo Giordano nel suo instant book Nel contagio (Einaudi, Torino 2020), per dirci come sia ancora grande la confusione attorno a questa pandemia da cui, non riuscendo a metterne a fuoco dinamica e origine, cerchiamo di uscire con sortite numeriche per almeno predirne il futuro.
Non a caso è stato proprio l’autore de La solitudine dei numeri primi (Mondadori, Milano 2008), grazie alla sua formazione di matematico, a trovare un codice narrativo adatto a esplorare gli anfratti ontologici di questo sorprendente scenario epidemiologico già poche settimane dopo l’inizio dall’infezione virale, addentrandosi in quella cabalà di dati e indicatori che si affollavano attorno a noi, per spiegarci che, appunto, «le epidemie prima ancora che emergenze mediche, sono emergenze matematiche». E dunque «il contagio dipende da un numero che è il cuore di ogni epidemia».
Un’intuizione che abbiamo imparato nelle settimane della pandemia quanto fosse giusta, vedendo come i calcoli ci curavano più dei farmaci, in una patologia che passerà alla storia come la prima a essere stata affrontata dai fisici e matematici più che dai virologi e microbiologi. Gli algoritmi hanno preso definitivamente il centro della scena umana, decretando un’autarchia del pensiero umano, che oggi appare riconoscibile e credibile solo se si esprime mediante codici numerici.
La medicina si trova, lungo questo crinale, a trasformarsi in una delle forme di applicazione degli algoritmi fin dalla fase diagnostica, in cui si è determinata l’assoluta centralità dei sistemi computazionali nel riconoscimento e nell’analisi delle dinamiche patologiche.
Un’evoluzione, di forma e contenuto, della scienza medica che abbiamo potuto terribilmente osservare in una sorta di moviola della storia, che in poche settimane, in quello che sarà ricordato il lungo marzo 2020 del sistema sanitario, ha concentrato sotto i nostri occhi un’evoluzione di genere che in altre circostanze avrebbe richiesto decenni, se non secoli. Abbiamo infatti potuto vedere come l’anamnesi della malattia, la sua diagnosi e identificazione scientifica siano sostituite da un continuo sforzo di calcolo statistico, con conseguente graficizzazione, della sua dinamica, con l’obiettivo di prevedere più che gli effetti sulla salute del paziente il suo autonomo divenire sociale.
Per questo scrive appunto Paolo Giordano che sappiamo più del futuro che del passato di questa infezione: proprio perché ci sembra più utile sapere come andrà a finire, e dunque quali effetti sociali saranno rilevabili, più che perché sta accadendo, e dunque come curare i malati. Si rovescia il senso del passaggio del Talmud che recita: «Il miglior medico del mondo andrà all’inferno», in cui si denuncia come curare solo il corpo, ignorando il contesto del benessere complessivo del paziente, significhi tradire la missione sanitaria.
Ora invece gli apparati amministrativo-sanitari sembrano occuparsi più della dinamica della malattia che del destino dei malati, che diventano indicatori numerici, puri dati da calcolare.
In questa evoluzione si configura uno «Stato terapeutico non pubblico», un potere sovrapposto alle istituzioni oltre che agli individui, che grazie al supporto della potenza di calcolo privata, e a quel senso di allarme sociale diffuso e incontrollabile che spoglia le élites delle proprie sicurezze, e dei propri primati, per la riproposizione di un ormai dimenticato spettro del pericolo nelle società del consumo, considera la medicina come un vincolo disciplinare da applicare mediante automatismi tecnologici. In questo Stato terapeutico non pubblico l’immunizzazione diventa il nuovo vincolo sociale, in cui ci si frequenta solo per congiunti o simili, considerando una minaccia ogni estraneo, ogni esterno alla cerchia: si vive e si produce esattamente come ci si cura.
La metafora di questa metamorfosi ontologica della cultura medica, che mediante il calcolo diventa apparato di governo civile, in questi mesi rimane ancora il mitologico e non sufficientemente documentato salto di specie, il cosiddetto spillover, che ha portato il virus da un pipistrello di Wuhan a devastare la parte più tecnologicamente evoluta del pianeta.
La combinazione fra i limiti di una medicina, che come arte professionale non riesce a penetrare i misteri del virus, e un determinismo computazionale, che invece ci promette di anticipare l’evoluzione del pericolo per poterlo così ingabbiare, ci fa vedere un nuovo «grande fratello» che può lenire le nostre insicurezze legittimando, mediante i calcoli, l’istinto individuale di autoconservazione, che ci fa diffidare del prossimo e ci spinge a rifugiarci nelle certezze contabili. Mascherina e calcolo del contagio sono gli elementi di un kit di sopravvivenza che caratterizza una società del distanziamento come modello di vita. Una società, non una stagione. Il cuore di questo ragionamento poggia infatti sulla sua persistenza: non pochi mesi ma molti anni di distanziamento come relazione sociale.
Il regno dei numeri non accenna certo ad affievolirsi nel tempo.

L’auto-algoritmizzazione

Ancora a mesi di distanza dal primo lockdown, prevedendone comunque un altro, ogni giorno, seppur con una morbosità ormai attutita rispetto ai primi due mesi, si ripete il rito del controllo dei dati per capire fino a dove possiamo spingerci nella riconquista del territorio di vivibilità che avevamo ceduto al virus. E ogni volta, pur scoprendo qualche limite nei conti del giorno prima, ci rivolgiamo ai prossimi con la stessa speranza messianica.
Come scriveva quell’originale, e per certi versi profetico, pedagogo della modernità quale è stato Ivan Illich, nel suo testo La convivialità (Feltrinelli, Milano 2013), si configura un processo di auto-algoritmizzazione, in cui si può osservare un cambio della natura stessa della struttura e missione del servizio sanitario che muta l’oggetto della sua attività con «l’eclissarsi della persona, sostituita dalle popolazioni; un tentativo di evitare che il futuro potesse rivelare qualcosa d’imprevisto; e la sostituzione dei modelli scientifici all’esperienza sensoriale».
La cartella clinica diventa pretesto per ricavare un trend matematico, e l’insieme dei trend si sostituisce ai singoli trend individuali. Ma chi è il taumaturgo? Uno Stato orwelliano, che sfrutta l’emergenza, che solo il Leviatano può promulgare, come ci ricorda Carl Schmitt, oppure un nuovo dispositivo tecno-privatistico che congiungendo big data e algoritmi in una sfera rigorosamente privata guida ogni decisione che può essere inverata solo dai numeri? Il cambio di scena, la trasformazione del potere si realizza proprio in questa sostituzione al vertice della catena di comando di una società immunitaria: sono i numeri o la forza a imporne la disciplina?
La calcolabilità della patologia ingoia e annulla ogni singola specificità personale, ogni storia individuale. L’epidemiologia non è più l’insieme dei casi ma un caso a sé.
Se il calcolo prevale sui calcolati appare naturale che l’«Economist» del 2 aprile del 2020 chieda a gran voce che si ritorni comunque a produrre costi quel che costi, con un articolo che riduce il rischio di possibile recrudescenza del contagio a un grim calculus. Quell’articolo pone di fatto la12 necessità di società senza Stato, in cui sicurezza e Pil diventano due valori inversamente proporzionali, la cui somma deve sempre essere compatibile con le ambizioni sociali: se cala l’una deve almeno aumentare l’altro. La sanità come sistema previsionale e non curativo ci deve incoraggiare a combinare questi valori economici nella nostra cartella clinica.
Uscire quanto prima dal lockdown, e comunque da un regime vigilato di sicurezza sanitaria, è un calcolo rischioso, ma inevitabile, scriveva ancora nella fase nefasta dell’epidemia il settimanale di punta delle tecnocrazie d’impresa europee.
Una strategia, questa del grim calculus, seguita da interi Stati, dagli Usa al Brasile, da Israele alla Svezia, uniformati nella proclamazione del relativismo patologico del virus.
Abbiamo visto anche i più brillanti intellettuali liberal, i più infaticabili difensori dei diritti civili, allarmarsi per decreti e circolari di Stati o enti locali che arrancavano dietro alla sorprendente pervasività dell’infezione. Il nemico non era il virus quanto lo Stato. Come Massimo Cacciari, il quale ha rivendicato la difesa di uno spazio pubblico sociale non emergenziale, non riducibile alle decretazioni governative, che in un intervento sull’«Espresso» del 28 giugno del 2020 ha definito «la quintessenza di questo incoercibile impulso normativistico cui si accompagna un autentico delirio sanzionatorio, in omaggio alle tendenze più plebee del senso comune». Eravamo all’inizio dell’estate, quando la corsa irrefrenabile alle spiagge travolse ogni cautela rimettendo simultaneamente in moto contagi e decessi. Oppure l’immancabile Bernard-Henri Lévy che nel suo saggio Il virus che rende folli (La nave di Teseo, Milano 2020) proclama: «Non credo che la salute sia lo scopo della vita. […] Ci deve essere un modo per combattere una pandemia senza cadere nella trappola dello stato di sorveglianza sanitaria». Mentre si cerca questo modo, senza misure di cautela sanitaria si muore, o meglio muoiono sempre più le aree sociali meno protette e più costrette a esporsi per vivere.
La spirale fra indicatori matematici e priorità sociali rovescia così ogni gerarchia naturale, rendendo spietata la necessità di rimettere in moto l’economia e cieca la stessa scienza medica, che sembra ormai ignorare persino le più elementari norme di cautela nella sperimentazione farmacologica. Se la scienza medica deve forzare i ritmi della ricerca, lavorando sempre più sulle fasi finali dell’elaborazione di farmaci e vaccini, per rispondere a interessi che, per riavviare quanto prima la macchina economica, vogliono avere rassicurazioni e certezze sulla capacità di padroneggiare l’imprevedibilità patologica, si relativizza ogni funzione di controllo e verifica dei dati basilari. La ricerca diventa così business plan prima ancora che scienza esperienziale.
I data base sono allora precotti, già predisposti all’origine per la loro finalizzazione farmacologica.
Nel giugno del 2020, il «Guardian» di Londra ha denunciato lo scandalo di Surgisphere, la società di un gruppo di avventurieri che, essendosi impossessata di una grande mole di dati ospedalieri, era riuscita a venderli come data set sperimentali addirittura a riviste scientifiche come «Lancet» o centri di ricerca internazionali dell’Oms.
Sulla base della sintesi, che i capi della Surgisphere avevano elaborato di quei dati inattendibili, si erano sviluppate analisi e ricerche, del tutto fallate, sull’inutilità di farmaci proposti contro il Covid-19.13
Se anche la ricerca, come i capitali d’investimento, diventa impaziente, freneticamente volta a un risultato di mercato, al successo per i suoi autori, è ovvio che tutto allora si gioca sulla potenza di processamento dei dati, a prescindere della loro attendibilità.
Il dato valida se stesso, in quanto massa, dunque attendibile perché quantitativamente rilevante, e non per l’insieme dei singoli casi, che non sono più minimamente controllati.
Questo episodio dimostra come ormai non si possa affidare al mercato la relazione fra dati e ricerca scientifica, quanto invece sia indispensabile introdurre un regime di riserva pubblica sulla risorsa della conoscenza statistica, che deve essere sempre e comunque trasparente e condivisa, un vero bene comune, che possa essere costantemente verificato e ricontrollato dall’insieme della comunità di ricercatori. Altrimenti si sbiadisce il primato della cosa pubblica nella gestione sanitaria. Altro che Stato di sorveglianza sanitaria.
Così come per la registrazione di un farmaco, che uno Stato vuole dettagliatamente certificare, anche per l’acquisizione di un data set bisogna dimostrarne la diretta esperienza sia della sua composizione che della sua provenienza. I dati, più dei farmaci, sono oggi fattore essenziale per la salute pubblica. In caso contrario assisteremo a una mutazione genetica della stessa idea di scienza.
Una mutazione che avviene all’interno di uno stato di necessità che si annuncia ricorrente, se non proprio permanente.
Contrastare il virus non coincide più, automaticamente, anche con il curare ogni singolo malato. Per questo si devono calcolare permanentemente le tendenze dell’infezione: per dare un senso positivo a questa contraddizione fra ape e sciame che non si ricompongono in un unico destino.
Misurare il contagio, concentrarne l’effetto in un numero, descriverlo in una tabella, è diventata una funzione decisiva, premessa e contenuto della stessa governance politica: si governa solo se si possono citare e brandire dati che giustificano e promuovono le decisioni.
Ancora Paolo Giordano, nel testo che abbiamo già citato, ci dice che la matematica «descrive i legami e gli scambi fra enti diversi, cercando di dimenticarsi di cosa sono fatti quegli enti, astraendoli in lettere, funzioni, vettori, punti, superfici». Si arriva così a una microfisica del calcolo che anima un mondo sovrapposto a quello che frequentiamo quotidianamente. È questa la vera frontiera fra reale e virtuale in cui il primato sempre più si trasferisce dalla prima alla seconda dimensione.
L’effetto della «algoritmizzazione» di cui parlava Ivan Illich, appunto, è una dominante pulsione individualista, il rifiuto di ogni intrusione statalista, in nome di quell’angoscia dell’autenticità della persona con cui Heidegger costruì il primato della nazione, trovandosi padre putativo del nazismo.
Il neo dannunzianesimo aggressivo che abbiamo visto esprimersi a livello ideologico negli Stati reazionari, come Usa e Brasile, o a livello sociale in aree di rampantismo manageriale – ricordiamo l’emblematico manager di Vicenza che ha riacceso un focolaio in Veneto a fine giugno 2020 per la sua incontinenza operativa, nonostante fosse stato trovato positivo al tampone – ci dice come la libertà individuale, se non innestata in un circuito relazionale, di quelli che papa Francesco chiama i «beni comuni di tutti», diventi l’intolleranza per ogni forma comunitaria, per ogni atto condiviso, diventi insomma quello che la filosofa Donatella Di Cesare chiama «libertà costrittiva». La sfera pubblica oggi, con buona pace di Massimo Cacciari, patisce questa aggressione, più che le circolari della Presidenza del Consiglio, mi pare.
Un rischio di inselvatichimento della nostra vocazione comunitaria che possiamo scongiurare invece mediante il recupero di un protagonismo pubblico che deve contendere il calcolo, come linguaggio liberatorio, alla privatizzazione proprietaria di pochi gruppi multinazionali, che oggi lo esercitano in regime di monopolio proprietario. Così come deve contendere le terapie, e i vaccini, ai piani speculativi di soggetti proprietari.
Riprendendo così il dualismo fra libertà e destino che Walter Benjamin, in quel cruciale dibattito filosofico del secondo decennio del Novecento, contrapponeva alla pressione reazionaria di Martin Heidegger.
Il punto è interferire con la struttura proprietaria e discrezionale della funzione del calcolo, e soprattutto coinvolgere nella valutazione numerica una piena consapevolezza sul ruolo e l’interesse di chi calcola. È l’altra faccia del grim calculus dell’«Economist».
Il coronavirus ci ha costretto a fare i conti con quella vecchia questione, che rimaneva di competenza ormai solo di qualche disputa accademica, sul senso e l’oggettività della scienza. In particolare proprio di quel contesto computazionale che all’ombra del feticcio d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Prefazione di Enrica Amaturo
  6. Per Giulio
  7. Introduzione
  8. Il contagio. La lunga notte del 21 febbraio
  9. L’economia. A grim calculus
  10. La società. Calcolanti e calcolati nel conflitto terapeutico
  11. L’informazione. Il giornalista riprogramma l’algoritmo
  12. Geopolitica. Noli me tangere
  13. Il partito. Un partito virale contro il virus
  14. La diseguaglianza. Giocare a hockey con il virus
  15. La formazione. L’Angelus novus a scuola
  16. La democrazia. Il soviet di Bensalem
  17. La decisione. Virus e algoritmi al ballo dei poteri
  18. Il lavoro. Le memorie di Adriano
  19. Conclusioni. La salute si cura con la trasparenza
  20. Il virus al tavolo di ferro: dati e informazioni alla guerra contro il contagio di Andrea Crisanti
  21. Giulio Giorello: una vita di libertà di Roberta Pelachin
  22. Ringraziamenti