II. La «filosofia politica» di Giolitti
1. Negli anni del lungo potere.
Se per filosofia politica si intende l’insieme dei concetti, dei principî e delle finalità che presiedono sia ad una concezione delle forme di Stato e di governo sia ai criteri dell’agire orientato all’attuazione di quella tra esse giudicata migliore, allora bisogna dire che Giolitti non solo elaborò una propria filosofia politica, ma la mantenne salda, senza cambiamenti di sostanza per tutto il suo iter di parlamentare, ministro e presidente del Consiglio, vale a dire dal 1882 – quando fece il suo ingresso alla Camera dei deputati – al 1928, l’anno del suo congedo da questa e dalla vita.
Tale filosofia, in riferimento a quelle che erano le condizioni del suo paese nel contesto internazionale dell’epoca, può essere così delineata. Superiore forma di Stato è quella propria dei paesi più progrediti, basata sulle libertà politiche e civili, sulla divisione dei poteri, sul pluralismo partitico e culturale, sul governo espresso dal voto popolare e reso responsabile di fronte ai rappresentanti del corpo elettorale riuniti nel Parlamento, cui spetta di dare o negare la fiducia al governo così determinandone la durata. Il che è dire che lo Stato più idoneo a regolare i rapporti con i cittadini è quello liberale, il cui compito è di assicurare la sicurezza e l’ordine politico, la convivenza civile dei partiti e delle diverse classi sociali in uno spirito di solidarietà nazionale, una finanza ordinata. Per quanto riguardava l’Italia, Giolitti riteneva che ad essa convenisse maggiormente la monarchia, cui assegnava, secondo l’idea sostenuta da influenti teorici del liberalismo come Benjamin Constant, un ruolo moderatore ed equilibratore super partes; e perciò si professò sempre un devoto e fedele servitore di Casa Savoia. Questa fedeltà la espresse fin dal discorso dell’ottobre 1882 con il quale si presentò alle elezioni per la Camera dei deputati:
Nella parte politica – disse – il mio programma si riassume nella più leale e rigorosa osservanza del giuramento al Re e allo Statuto che si presta entrando in Parlamento. […] Noi ricorderemo ai nostri figli che senza la lealtà e il valore del più grande dei re sabaudi l’Italia non sarebbe unita1.
Altri punti cardine del suo programma erano una politica estera prudente, commisurata alle forze del paese, e l’attenzione alle questioni sociali con il dovuto riguardo per le esigenze dei lavoratori:
L’Italia, che ricorda gli enormi sacrifici fatti per acquistare la sua indipendenza, non la porrà certamente a rischio per correre avventure politiche, o per desiderio di una gloria militare che non è vera gloria se non quando si ha di mira la salvezza e la dignità della patria.
Quanto al problema sociale
la nuova legislatura dovrà soprattutto distinguersi dalle precedenti nell’affrontare le questioni sociali, esaminando le condizioni di ogni classe della società e dando ad ognuna di esse quel che le spetta. […] L’assicurare i mezzi di sussistenza all’operaio reso inabile al lavoro da disgrazie, malattie o vecchiaia è un dovere sociale2.
La questione sociale – spiegò Giolitti alcuni anni dopo – era diventata sempre più attuale in Italia e fuori d’Italia, acquistando evidenti aspetti di pericolosità in caso di mancate soluzioni. Orbene, «l’unico modo legittimo ed efficace per evitarne i pericoli è quello di provvedere prontamente e largamente all’educazione, alla istruzione e al benessere delle classi meno agiate». Si trattava non soltanto di «un dovere di giustizia e di umanità», ma di ricorrere a «l’unico mezzo per assicurare la concordia fra le varie classi sociali»3. Siffatta concordia rappresentava per Giolitti il fondamento della stabilità dell’ordine interno, dello Stato e delle sue istituzioni. Era questo un tasto sul quale egli avrebbe battuto e ribattuto per il resto della sua vita di parlamentare e di uomo di governo. Nel 1885, in uno dei suoi primi discorsi alla Camera, chiarì perché fosse necessaria la solidarietà tra imprenditore e lavoratore: fatto era che, se il primo operava in condizioni di precarietà, venivano a scarseggiare le opportunità di lavoro per il secondo, e che la miseria del lavoratore inaridiva «le sorgenti di reddito del proprietario». In ciò la ragione per cui da un lato occorreva «tra queste due classi di cittadini la più stretta solidarietà», dall’altro era «obbligo del Parlamento, non solo per dovere di giustizia e per convenienza politica, ma anche per necessità economica, di provvedere contemporaneamente, con unica legge, tanto all’una che all’altra»4.
Liberale aperto alle esigenze della progressiva apertura del sistema politico verso la democrazia, Giolitti era altresì fermamente persuaso della positività e della saldezza del capitalismo e dei benefici offerti all’intera società dalla proprietà privata fondata sull’iniziativa e sull’operosità degli individui; e che a legittimare la proprietà non fossero in primo luogo i titoli giuridici, ma la sua capacità di migliorare al tempo stesso le condizioni degli imprenditori e dei salariati. Buon imprenditore era colui che si dimostrava attento ai problemi della produttività e alle esigenze di accumulazione del capitale. Il progetto socialista di abolire la proprietà privata e procedere alla collettivizzazione dei mezzi di produzione per dare un maggiore slancio allo sviluppo dell’economia era per Giolitti una ricetta sbagliata, poiché, disse nel 1913 a Turati: «Anche quando vi fosse il socialismo, senza il capitale non si produrrebbe!»5. Giolitti non nutriva alcuna simpatia e condiscendenza nei confronti degli agiati oziosi, dei proprietari assenteisti e degli speculatori: «L’individuo che lavora e vive col suo lavoro, non è mai un uomo pericoloso», «elementi pericolosissimi per la società» sono invece «coloro che non fanno niente»6. Con uno spirito che si potrebbe definire quasi rousseauiano, mostrava la sua predilezione per i piccoli proprietari terrieri, laboriosi e virtuosi, che considerava il migliore baluardo contro le minacce di turbamento politico e sociale generate dall’eccessiva sproporzione nella distribuzione della ricchezza. La più efficace «difesa delle istituzioni esistenti contro il socialismo» consisteva per lui in un’adeguata tutela della piccola proprietà. «Ogni contadino che diventa proprietario, segna un aumento nella difesa dell’attuale ordinamento sociale; ogni piccolo proprietario che diviene nullatenente è una facile recluta per il socialismo». Di qui la necessità di promuovere «la divisione dei latifondi»7.
Fermo nella sua fede liberale, egli andò al tempo stesso presentandosi come democratico. Nel 1882 disse ai suoi elettori di accettare «in ogni sua parte» il programma di Depretis8; ma nel 1886 giustificò il proprio mutamento di posizione affermando che «il programma liberale e democratico» del 1882 era stato «abbandonato»9 e che «il governo rappresentativo non può procedere regolarmente senza partiti con programmi chiari e precisi», nella cui assenza «il governo è costretto ad appoggiarsi successivamente a mutevoli maggioranze, le quali non si possono tenere riunite se non in nome di interessi speciali e locali»10. Alcuni anni dopo, nel 1892, rinnovò, in termini quanto mai idealistici, l’elogio della politica fondata sui principî:
Una sola è la via ampia e sicura, ogni uomo politico parli, agisca e voti secondo le sue convinzioni lasciando in disparte la sterile strategia parlamentare; in tal modo i partiti si formeranno per la forza delle cose […]; partiti che agiranno per il trionfo di idee e non di persone11.
E ancora, poco tempo dopo, denunciava uno stato di cose nel quale non è dato distinguere tra le posizioni dell’una e dell’altra parte: «La lotta politica è nobile e alta solamente quando tende a far prevalere le proprie idee; e le idee si fanno prevalere con la pubblica discussione»12.
Era questa una netta critica nei confronti del trasformismo: quella stessa che gli sarebbe stata rivolta in futuro, quando toccò anche a lui prendere atto della mancanza in Italia di partiti strutturati, con l’eccezione del Partito socialista, e della assenza di omogeneità delle correnti interne al partito liberale; e fu indotto a ricorrere a sua volta alle pratiche disinvolte – già da lui criticate – nella formazione delle maggioranze parlamentari che avrebbero sostenuto i suoi governi.
Giolitti si definì un’infinità di volte al tempo stesso un conservatore e un progressista: conservatore perché difensore delle istituzioni politiche ed economico-sociali esistenti; progressista e riformatore perché, guardando con realismo e apertura alle rapide trasformazioni della società e dell’economia contemporanee e alle loro implicazioni, pensava che primario problema da affrontare fosse quella che non si stancò di definire l’«irresistibile» ascesa delle masse lavoratrici il cui nucleo dinamico era costituito dagli operai delle fabbriche moderne, prendendo atto che la sua amata democrazia rurale di piccoli proprietari non poteva più costituire il fondamento di una società nella quale il capitalismo industriale e finanziario rappresentava il nucleo propulsore. Nell’aprile 1911, rievocando alla Camera le tappe del suo iter politico e l’ispirazione che lo aveva sorretto, e alludendo alle critiche di quei settori conservatori che lo avevano accusato di avere scosso con il suo progressismo le basi del retto conservatorismo, replicò:
Tornato al Governo nel 1901 mi formai subito la convinzione, dopo tutto quello che era successo dello scioglimento dei fasci, dei disordini del 1898 e altri avvenimenti ancora più dolorosi, che il solo modo per mantenere l’ordine in Italia, fosse un’ampia libertà. Credevo allora e credo sempre che finché la maggior parte degli italiani è in una condizione economica e morale infelice, il paese non potrà mai essere né tranquillo né prospero e grande.
Allora fui aspramente combattuto […].
Fortunatamente il risultato ha dimostrato che il sistema mio, apparentemente semi-rivoluzionario, era il solo veramente conservatore13.
Egli comprese più e meglio di qualsiasi altro esponente della classe dirigente liberale italiana dell’epoca che la qualità del governo del paese dipendeva dalla capacità o meno di misurarsi con il fatto che era l’economia a condizionare in maniera preponderante l’agenda della politica e quindi con i nodi posti dall’influenza crescente esercitata dal socialismo sulle masse. Ministro del Tesoro, nel 1889 aveva affermato: «Nel mondo moderno le questioni economiche tendono a prendere il sopravvento su tutte le altre; ciò avviene principalmente nei paesi a regime democratico come il nostro; poiché dalla risoluzione di tali questioni dipende il benessere di quelle classi popolari che noi abbiamo chiamato a partecipare al Governo dello Stato, delle Provincie e dei Comuni». E così aveva concluso il suo discorso: «Se noi riusciremo a risolvere le questioni nostre economiche in modo da assicurare quel fine, che una voce Augusta in quest’Aula definì “il bene degli umili”, noi avremo fondato sopra base imperitura la saldezza delle nostre istituzioni e la grandezza della patria»14.
Giolitti n...