Dalla parte degli ultimi
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Una scuola popolare tra le baracche di Roma

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Dalla parte degli ultimi

Una scuola popolare tra le baracche di Roma

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Roma, fine anni sessanta, borgata dell'Acquedotto Felice: centinaia di migranti provenienti dal Centro-sud vivono nelle baracche. Un giovane prete, Roberto Sardelli, decide che è quello il posto in cui andare a vivere; non solo: è il luogo ideale per fare una scuola. E quella che nascerà nella baracca n. 725 sarà una delle più straordinarie iniziative di pedagogia popolare mai realizzate in Italia. Le lezioni di don Sardelli, basate sul nesso tra istruzione e riscatto sociale, non forniscono solo nozioni, ma trasformano la testa dei giovani. La miseria e l'emarginazione possono essere sconfitte attraverso la presa di coscienza della propria condizione e attraverso lo studio: questa è la lezione più importante che i ragazzi apprendono. Rivoluzionare sé stessi per rivoluzionare la realtà in cui si vive e la realtà che appare più remota, ma in cui ci si rispecchia. Tutto ciò nella «dolorosa coscienza – scrive Alessandro Portelli nella prefazione – che per gli "ultimi" ogni conquista è pagata con pesanti prezzi umani ed è anche precaria e spesso deludente». È lo stesso don Roberto a raccontarsi ripercorrendo la propria vita, gli incontri decisivi, come quello con don Milani, e i contrasti con le autorità, politiche e religiose, le sconfitte e le vittorie; da queste conversazioni – raccolte da Massimiliano Fiorucci pochi anni prima della scomparsa del sacerdote – traspare indomito quello spirito anticonformista che aveva trasmesso ai giovani: erano stati loro, non a caso, a scrivere la famosa Lettera al Sindaco – riprodotta nel volume – con cui chiedevano con forza alla massima carica della capitale di fare finalmente qualcosa per la borgata. Oggi, di fronte al crescente successo di una visione utilitaristica dell'educazione, la Scuola 725 si pone come un eccezionale modello alternativo, un'idea di scuola aperta a tutti e strumento di liberazione e di emancipazione sociale e morale.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788855221450
Categoria
Sociology

1. La filosofia dell’intervento: dall’assistenza all’emancipazione

(9 ottobre 2015)
Nel corso del primo incontro si è partiti dall’attualità parlando dei migranti e dell’incapacità della nostra società di rispondere seriamente ai problemi degli emarginati, degli esclusi. L’unica risposta che si offre in modo ben organizzato e sistematico è quella assistenziale, la più facile e scontata, mentre l’esperienza della Scuola 725 aveva un’ambizione diversa puntando sull’istruzione come leva, come strumento di emancipazione, perché «non di solo pane vive l’uomo» e soprattutto perché per uscire dalla logica della «carità» è necessaria una rivoluzione culturale che parta dalle istituzioni formative. L’emancipazione inizia riattivando le risorse del contesto, rendendo gli ultimi soggetti attivi e protagonisti del proprio riscatto. Da questo punto di vista la Scuola 725 diventa un modello di intervento locale cui guardare ancora oggi. Un modello, dunque, che può essere riproposto e di cui perciò diventa importante recuperare sia la filosofia sia le metodologie.
Roberto Sardelli (R. S.): Questo intervento e questo approccio assistenziale così massiccio di oggi mettono il silenzio sui nostri interventi di allora, di quarant’anni fa, di cui esplicitamente e forse anche eccessivamente negavamo l’aspetto assistenziale comunque svolto; ma io ricordo bene la prima sera che passai nelle baracche. La parrocchia che mi ospitava in quel momento, e poi mi mise fuori, mi preparò una tavolata piena di dolci: era prossimo il Natale. Mi dissero: «Questi li porti ai baraccati»; risposi: «Ai baraccati questa roba ce la portate voi, io ai baraccati ho portato la scuola!».
E così cominciò la rottura.
Il nostro movimento aveva altri obiettivi, mirava ad altre cose che andavano oltre la semplice assistenza, che comunque era necessaria perché a chi muore di fame non puoi negare il piatto, a chi è nudo non puoi negare il vestito; sono cose importanti ed io ero contento che lo facessero, però loro, come io stesso da un altro lato, separavano le cose; no, questo un prete non lo deve fare, cioè l’opera di coscientizzazione, la formazione per promuovere, per riscattare da una situazione quei ragazzi… Io la vedevo in modo diverso, che non era quello assistenziale: certo anche oggi ci sono dei centri che assolvono a questo compito e si vede il fallimento del sistema pubblico di intervento. Un vuoto viene coperto, e bene, non gli puoi dire di no, però io vedo ancora, cioè io oggi che cosa farei, davanti alla migrazione di oggi? Eh, io mi sono posto questo problema! Me lo sono posto e ci ripenso, perché io non rinnegherei il mio intervento di allora, non mi smentirei. Certo, dovrei mirare più ai ragazzi che arrivano. Ad esempio, quando il papa ha detto recentemente: «Ogni parrocchia prenda una famiglia», bene, io mi son posto subito il problema: ma il papa si rende conto di cosa comporta una famiglia che entra in una parrocchia? Non è soltanto il piatto di pastasciutta a mezzogiorno, non è soltanto un letto, ma ci sono dei bambini che hanno bisogno di scuola, ci sono dei giovani minorenni che hanno bisogno di scuola, ci sono dei genitori adulti che hanno bisogno di scuola, di formazione, di specializzazione, perché non sanno far niente alle volte, chi sa fare sa fare tutto e non sa fare niente; e allora una famiglia di queste che entra in una scuola, è una famiglia che comporta questi problemi di formazione. E come si risolvono? Io questo avrei detto e avrei voluto che il papa dicesse: «Guardate, una famiglia in ogni parrocchia, bene, prendetela, però ricordatevi, non sono soltanto bocche che hanno bisogno di essere saziate, sono anche intelligenze che devono essere formate, fin da bambini, quantomeno questi bambini». E poi cosa faranno? I ragazzi che faranno, giocheranno su un campo sportivo e ripeteranno l’esperienza dell’oratorio romano, dove i bambini e i giovanotti venivano messi al campo sportivo a giocare appresso a una palla?
E allora ecco nell’oggi, per fare questo che dico io, occorre una forza anche fisica, oltre che culturale, che oggi non noto, ad esempio che il clero di oggi possa fare una cosa del genere, ma manco a sognarlo!
Mi diceva Pina, poverella, che era una vecchia prostituta che girava nelle baracche e raccontava a Franco Ferrarotti1 tutto (gli interni e gli esterni), con un piatto, con un pacchetto di pasta, e una volta mi disse rimproverandomi: «Da quando è venuto ’sto pretaccio non se vede più nessuno che porta la pasta». Aveva ragione in qualche modo.
Massimiliano Fiorucci (M. F.): Certo, perché non c’era più chi faceva l’elemosina. Aveva ragione, però è la differenza tra l’assistenza e la presa di coscienza…
R. S.: Aveva ragione in qualche modo, però io avevo fatto una scelta e le scelte costano; poi non tutti le sopportavano, perché io urlavo forte, mettevo fuori queste ragazze che venivano portate dalle suore: «Fuori!», dicevo. «Andate via, andate via!». E lì, sai, si creava una tensione, e questi ragazzi stavano zitti perché stavano con me, però non… e allora mi dicevano, quando erano diventati grandi, verso i vent’anni, mi dicevano: «Grazie!». Grazie, perché hanno scoperto l’«ipocrisia dell’assistenza».
Quindi, oggi, davanti al problema enorme, molto più complicato di allora, eh! Molto, molto, molto più complicato di allora; però io riproporrei quello schema lì, che richiede coraggio e richiede forza, richiede gioventù, richiede cultura, e però lo riproporrei, non disdegnando certo quelli che si occupano di assistenza… però non è il mio campo. E poi mi ringraziavano.
M. F.: Ma pensi di essere stato troppo radicale tu quando li maltrattavi, ci hai ripensato a questo negli anni?
R. S.: In quei momenti… in quei momenti sì. Però ero convinto, e, quindi, non me la sento di smentirmi o ricredermi.
M. F.: Ma in fondo è la differenza tra l’assistenza e quello che oggi viene chiamato empowerment. Cioè, di dare alle persone gli strumenti per auto-difendersi, auto-rappresentarsi.
R. S.: Questo io avevo capito e lo portavo avanti con coraggio enorme, perché mi trovavo contro la parrocchia, mi trovavo contro i partiti stessi.
M. F.: Tu rifiutavi il loro ruolo di mediatori, di portatori degli interessi di queste persone, che invece cominciavano a reclamare da sole, a parlare per se stesse, a far valere i propri diritti, giusto?
R. S.: Io questo ho fatto, con grande fatica, però ero convinto, dico io, non posso cedere su questo punto. Io il pallone non lo ammetto, niente da fare, niente, niente! Certe volte a scuola cominciava qualcuno a venire in ritardo, io: «Com’è che non viene questo ragazzetto?»; allora capivo che c’era la partita a pallone. Mi alzavo, andavo, aprivo la porta alla scuola.
M. F.: Ma questo atteggiamento da dove ti veniva? Anche don Lorenzo Milani aveva questa idea, questa impostazione e scrisse contro la ricreazione2.
R. S.: Lì non aveva la televisione ancora. Io pure, in un primo momento, non avevo la televisione.
M. F.: No, però, la ricreazione, no? Tutta la sua critica ai momenti di evasione… alla ricreazione… cioè a quelle forme di anestesia della coscienza.
R. S.: Sì, sì. Io avevo creato uno spazio, alcuni, dieci minuti di ricreazione, l’avevo creato il pomeriggio alle cinque. Era l’ora del tè, dicevo: «Io non posso farlo per tutti; andate a casa, fatevi preparare una bella tazza di tè e ritornate». E quindi allora è stata istituzionalizzata questa iniziativa: l’ora del tè! Ecco qui! E allora andavano a casa, prendevano il tè, o non lo prendevano, facevano qualche servizio alla famiglia e ritornavano a scuola, ed era molto bello questo, perché ritornavano alla scuola.
Me ne accorsi dopo un po’, perché i primi tempi, sai: «Ma che ritorniamo a fare?», non capivano ancora. E invece dopo, quando cominciarono a capire, ritornavano volentieri. E la sera, la sera dopo cena erano le otto e io ero stanco, ero andato a mangiare nella baracca, i più grandi venivano nella mia baracca – Emidio, Cesidio –, questi ritornavano nella mia baracca. E siccome ci si trovava anche qualcuno della vostra stazza, professori universitari – Luigi Cancrini3, Giovanni Mazzetti4 – parlavano con loro, assistevano a quello che dicevamo anche loro. E questo era uno strumento della scuola che continuava.
Certo, per raggiungere questi risultati è stata una fatica enorme, che oggi quando la immagino, ecco, mi è capitato di visitare alcune esperienze… oggi io farei e riproporrei la stessa cosa. Poi ho detto, io stesso, non ho né la salute, né l’età per farlo, quindi non mi ci metto.
M. F.: Però penso che sarebbe necessario oggi, sarebbe utile, importante! Oggi non ci sono iniziative di questo spessore in circolazione, però ad esempio a Roma c’è questa esperienza della rete Scuolemigranti5, questo insieme di associazioni, ci sono delle scuole popolari che si sono o si stanno avviando…
R. S.: Sì, ma io vorrei sapere che cosa fanno, che programma hanno, che intenzioni hanno. Questo non si sa. Io non riesco a saperlo. Danno degli elementi di scrittura, certo sono molto importanti. Io però m’ero proposto qualche cosa di più della scrittura.
M. F.: Ma vorrei capire meglio questo tuo rapporto con don Lorenzo Milani. Tu quanto tempo sei stato da lui? Come, dove e quando lo hai conosciuto?
R. S.: Io l’ho conosciuto nel 1961, don Lorenzo. Mi ricordo che il collegio ci permetteva di andare in vacanza dove si voleva, in questo senso era il collegio liberal italiano della Chiesa cattolica, di tutta la Chiesa cattolica. Era il Collegio Capranica6, era il collegio che preparava alla carriera ecclesiastica. I papi, Pio XII, Montini, venivano da quell’ambiente. E quindi apriva a queste prospettive, però concedeva anche che il seminarista andasse a prendersi una tazza di caffè al bar, cosa che altrove non era consentita. E io alla tazza di caffè non andai mai, mai, mai. Però quando seppi che durante le vacanze ognuno poteva organizzare il suo programma, anziché andare a casa, io il programma lo feci per fare il giro, per cominciare a fare dei giri all’estero, mettermi in contatto con delle esperienze, per imparare le lingue bene! Leggere qualche autore che in italiano non si poteva leggere. Erano filosofi e teologi cattolici famosi: Jacques Maritain, Teilhard de Chardin, la cui produzione era assolutamente interdetta in italiano.
Allora dissi, vado in Francia, imparo e leggo, leggo. E quindi il 1961, questa vacanza, questa esperienza veniva successivamente segnata dai miei superiori su un quaderno. Pensavano: questo prete va per conto suo; io non dicevo niente a nessuno, vado qui, vado là; quindi allora apparivo come uno scapestrato.
In Francia, dissi, io voglio andare in una colonie de vacances e mi misi d’accordo con un prete, all’Università Gregoriana, che era francese e disse: «Puoi scrivere»… E scrissi a Marsiglia a un prete, padre Bouchet, e dissi: «Io sono un seminarista e voglio trascorrere un mese con i ragazzi», perché con i ragazzi si impara più facilmente il francese, la lingua, perché devi parlare nella loro lingua, non è che puoi cavartela. E in questo mese, lì sulle montagne stavano questi ragazzi, come in un campeggio che durava un mese, e lì a un certo punto un giorno vennero tre o quattro ragazzi italiani; e allora dissi: «Cominciamo a parlare in italiano con loro», perché erano ragazzi. Erano i ragazzi di don Lorenzo Milani.
I primi tempi mi dissero: «Siamo i ragazzi di don Milani…» e parlavano con me volentieri di tante cose; poi mi dissero: «Ma tu non conosci il priore?»; dissi: «No, ne ho sentito parlare», perché in quegli anni era stato interdetto il suo libro, e allora dissi: «Lo conosco attraverso il libro», ma non lo avevo letto tutto; ne avevo sentito parlare più per le polemiche che facevano contro don Lorenzo. E loro mi dissero: «Va bene, quando ritorni in Italia tu mandaci una cartolina» – allora non esistevano i telefonini; «mandaci una cartolina, dicci quando arrivi a Vicchio, poi a Vicchio veniamo a prenderti noi con la motoretta». «E va bene», dissi allora.
Loro andarono, io continuai il mio percorso: in Francia andai all’Università di Lyon, andai in biblioteca, la frequentavo da mane a sera, a leggere Teilhard de Chardin, che era superiore anche alle mie capacità; ma io dovevo capire questo autore, quindi ero motivato.
Poi lì conobbi i preti operai, les prêtres ouvriers, i preti del Prado, che erano una ramificazione dei preti operai, e quindi mi misi in contatto con tutto questo fermento; ma mi serviva più come elemento per arricchirmi, perché io non mi vedevo tagliato come prete cultuale, come prete che sta lì con il diario in mano ad aspettare che qualcuno si avvicini. No, proprio non mi ci vedevo.
Finii questa parentesi e scrissi ai ragazzi di Barbiana e andai lì; si fecero trovare lì e io mi sedetti dietro ad una di queste motorette che avevano e dissero: «Andiamo a Vicchio». Madonna, per salire a Vicchio… E va bene, andiamo lì e arriviamo a Barbiana, e c’era questo sacerdote di cui io non sapevo molto, non lo conoscevo manco fisicamente ancora.
Stava lì seduto con dieci mocciosi davanti, fuori dalla casetta parrocchiale; e questo non mi dette nemmeno il benvenuto ma manco i ragazzi si premurarono: «Te lo presentiamo»… e lì, vabbè, mi sedetti.
Poi a un certo punto, finito un certo passaggio di rapporti di don Lorenzo con questi ragazzi, venne il momento della correzione dei pensierini che facevano e io sbagliai a correggere, e lui mi fece notare che parlare toscano non è parlare italiano, per cui le parole che loro usavano erano quelle vere perché erano quelle della Toscana. Sortire, no? La parola «sortire», che in francese ancora significa uscire, per me invece significava altre cose insomma.
Mi disse: «Correggili un po’ ’sti pensierini», a me, senza nemmeno chiedermi come mi chiamavo… Poi alla fine anche lì si cominciò a prendere qualche cosa a merenda, adesso non mi ricordo se era il tè anche lì… E rimanemmo, i ragazzi andarono via all’imbrunire, era già l’autunno e i ragazzi andarono via; e allora, ripeto, mi fece l’impressione di dieci mocciosi, contadinotti. Ma lui stava lì, con una pazienza, questo mi fece impressione; stava lì davanti – lui già era malato, eh, ogni tanto tossiva, però io non sapevo niente –, e stava lì, prendeva vocabolari, Zingarelli, no, Zingarelli no, vai a vedere quella parola là che significa, con una pazienza… Questi ragazzi, qualcuno sbadigliava, è normale, non è che erano tutti geni, potenziali geni; erano ragazzi normali e si annoiavano, sbadigliavano, si alzavano, andavano a fare la pipì, quindi normali.
E alla fine, appunto, si finì, il parroco se ne andava, è finita la scuola. E allora si avvicinò a me e disse: «Da dove vieni?», e gli raccontai la mia storia.
I ragazzi già gliene avevano parlato che ero un prete un po’ alla ricerca, un po’ portato per le materie marginali, quindi mi trattò in un modo anche umano. Però quando io gli accennai che ero stato in Francia e avevo cominciato a leggere Teilhard de Chardin, gli dissi: «E poi c’è che devo anche imparare a leggere alcuni teologi tedesc...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Prefazione di Alessandro Portelli
  6. La pedagogia «popolare» della Scuola 725 di Massimiliano Fiorucci
  7. Colloqui con don Roberto Sardelli
  8. 1. La filosofia dell’intervento: dall’assistenza all’emancipazione (9 ottobre 2015)
  9. 2. Don Sardelli e don Milani. Scelte vocazionali e debiti culturali (24 novembre 2015)
  10. 3. Una scuola in una baracca della metropoli (9 marzo 2016)
  11. 4. La Lettera al Sindaco: il percorso di scrittura collettiva (13 maggio 2016)
  12. 5. I diversi linguaggi per la formazione dei cittadini del mondo (30 giugno 2016)
  13. Appendice
  14. Scuola 725. Lettera al Sindaco
  15. Testi e testimoni Una lezione di don Roberto Sardelliintervistato da Alessandro Portelli (20 gennaio 2010)
  16. Roberto Sardelli. Nota bio-bibliografica
  17. Elenco delle illustrazioni