Addio mascherine
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Addio mascherine

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Addio mascherine

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Certo che sono sgradevoli le pezze a coprire naso e bocca, ma sono pericolose quelle che coprono gli occhi, quelle che si rischia di ritrovarsi al sedere. Ci sono molte cose che un virus ha fatto emergere. Alcune positive, come il non demordere e il volontariato. Altre che ingigantiscono debolezze già presenti nel corpo e nella mente del nostro mondo. Significa poco dire "nulla sarà più come prima", occorre intendersi in quale senso. Se per andare oltre, imparando dagli errori, o per sperare follemente di tornare indietro. Dall'integrazione alla globalizzazione quel che troppi danno per scontato è falso e autodistruttivo. "Addio mascherine" è quel che dice Pinocchio al Gatto e alla Volpe, rifiutando anche solo di parlarci. Lo hanno ingannato, lui ha capito ed è cambiato. Trovandosi ridicolo per come era prima, quando abboccava all'idea che i soldi si seminassero e generassero da soli. Sarebbe bene essere all'altezza di Pinocchio.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788849865516
Categoria
Sociologie
Davide Giacalone, Addio mascherine

ISBN 978-88-498-6551-6

© 2020 - Rubbettino Editore
88049 Soveria Mannelli - Viale Rosario Rubbettino, 10 - tel (0968) 6664201
www.rubbettinoeditore.it

© Prima edizione digitale 2020

Copertina di Ettore Festa, HaunagDesign. Illustrazione di Alberto Giammaruco

Quest’opera è protetta dalle norme vigenti sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. È assolutamente vietato installare questo file su dispositivi appartenenti a terzi, spedirlo via email o distribuito mediante qualsiasi strumento informatico.










Pinocchio ce l’ha fatta. Era stato il dolore ad aiutarlo, la disgrazia che risveglia la coscienza. S’è fatto tutto un dire, giorno dopo giorno, nel mentre eravamo chiusi e intenti a salvar la pelle, nostra e altrui, che nulla sarebbe più stato come prima. Ma non era affatto chiaro in che senso lo si dicesse. Né in quanto tempo ci se ne sarebbe dimenticati.
Nulla sarà più come prima può significare che si è imparata una lezione. Dura e per questo efficace. Ma può anche dire che poi non si potrà continuare l’andazzo di prima, considerandolo con rimpianto. La prima cosa promette bene, la seconda porta male. Vedo entrambe le cose, nel nostro presente di ora, sicché torno a rivolgermi a quanti hanno avuto la cortesia di seguire quel che andavo sostenendo e, credo, documentando. Non si tratta di affermare che lo si era detto, ma di chiedersi perché lo si era detto al muro. C’è una ragione profonda per cui si è arrivati stremati alla prova più dura. E perché un mondo ricco s’è dimostrato povero di idee e di visione del futuro.
Questo libro è diverso da altri che lo hanno preceduto: non ci sono grafici, non servono molte cifre. Quello su cui ragionammo resta valido e lo ripeterei tale e quale. Cifre e grafici sono quelli e confermo. Perdonatemi, ma è un lusso che mi concedo nella miseria: la coerenza. Il problema è la miseria, ovvero l’incapacità di essere stati convincenti, nel mentre il vociare caleidoscopico di trasformisti alla giornata arrecava danno al nostro Paese e al nostro mondo. Nel mentre si copriva l’approfittare con l’autocommiserarsi. Nel mentre l’anarcoribellismo si diluiva nell’intrupparsi codino, generando aspirazioni di dominio in capo a retori da tre palle un soldo, egolatri anarcoautoritari privi d’autorevolezza. Qui proviamo a guardarci negli occhi, senza confini di schieramenti, che tanto a me paiono inesistenti per troppa uguaglianza, non certo per eccesso di diversità. Da dove si ricomincia?
Pinocchio vide l’errore della sua vita nella devastazione che aveva portato a Geppetto. Finalmente in salvo, sbarcati dal tonno, non avevano di che mangiare. Avrebbero mendicato per mangiare e avere un pagliericcio su cui far sdraiare il vecchio stremato. Gli fu indicata una casa e una volta entrati sentivano, ma non vedevano il loro ospite, che richiamò la loro attenzione da una trave: era il Grillo parlante.
«Oh! mio caro Grillino».
«Ora mi chiami il “Tuo caro Grillino”, non è vero? Ma ti rammenti di quando, per cacciarmi di casa, mi tirasti un manico di martello?».
Pinocchio gli chiede di trattarlo allo stesso modo, ma di accogliere l’oramai sfatto Geppetto. Trovato un tetto cerca il latte per il padre. Lo trova poco lontano, ma il contadino con le mucche gli chiede soldi che non ha. Poi gli propone un lavoro: tirare il bindolo dal pozzo e rifornirlo d’acqua. Lo faceva prima un somaro, che ora sta per morire. Pinocchio, sudato per il lavoro, chiede di vedere il ciuco. È Lucignolo, che gli muore innanzi. Di giorno estrae acqua dal pozzo, ma impara altri lavori, che fa la sera, come riprende anche a leggere e compitare. Adesso ha messo su qualche soldo e si reca al mercato per comprare gli abiti. Sulla strada incontra la Lumaca, che gli dice della Fata turchina morente, allo spedale, abbandonata e povera. Pinocchio consegna tutto quel che ha per soccorrere la Fata. Ha capito. Ha imparato.
Prima, mentre cercavano la casa che si rivelerà essere del Grillo, avevano incontrato due mendicanti: il Gatto e la Volpe, ridotti a mal partito. Quelli che lo avevano convinto a seminare i soldi datigli da Mangiafuoco, presso il Campo dei miracoli, località Acchiappa-citrulli, in modo da diventar ricco con i soldi che creano altri soldi. Stampiamoli, si dice adesso. Seminiamoli, gli suggerirono. Ora i due gli chiedono aiuto, ma lui risponde subito:
«Addio mascherine. Mi avete ingannato una volta, e ora non mi ripigliate più».
Siamo sicuri di potere dire lo stesso, d’essere all’altezza di Pinocchio? Ora che vorremmo farla finita con le mascherine che ci hanno coperto la faccia, chiediamoci se si è capaci di farla finita anche con le mascherine che Pinocchio aveva imparato a riconoscere e ad evitare.
Un vero peccato che il libro di Collodi non lo si legga più e non lo si legga ai piccini. Nella versione originale, non nel cartone animato. Lo si faceva per farli diventare grandi.
Non è la Fatina a fare la magia, è Pinocchio. La sua consapevolezza. E quando si sveglia ragazzino, quando Geppetto gli dice che è stato lui, Pinocchio, a essere capace di cambiare la realtà, a renderlo allegro e felice, intento al lavoro, in una casa bella, con i vestiti e il cibo, quando chiede al padre di vedere il burattino che era e gli viene indicato, riverso in un angolo, Pinocchio dice:
«Com’ero buffo, quand’ero un burattino! E come sono contento di esser diventato un ragazzino perbene!...».
Pinocchio ce l’ha fatta. Ha acquisito la consapevolezza di sé. Non cerca scuse. Ne vedo troppi, in giro, con la vocazione del burattino.
Se le cose dette (e documentate) sono rimaste lettera morta è perché conviene troppo a troppi credere, o far finta di credere, che si possa in eterno consumare più di quel che si produce. E quando il quadro s’incrina, quando una lama di luce abbaglia, suggerendo l’impossibilità di quell’illusione, si corre a cercare il colpevole esterno, il disgraziato che vuole fermare il sogno. Che sogno non è, perché le sue conseguenze culturali, sociali ed economiche, messe in quest’ordine perché quelle economiche vengono per ultime, sono da incubo. Si cerca un colpevole e si cerca nuovo personale politico disposto a sostenere che l’illusione non deve avere fine, che continuare a illudersi è un diritto del popolo. Per forza che il personale politico così selezionato è sempre più insulso e ignorante, che per uno cinico ce n’è poi una corte d’ottusi, perché solo l’incapacità di capire può consentire d’accedere all’empireo petroliniano di Gastone: l’uomo che non ha orrore di sé stesso. E, badate, giusto per non fraintendere, nell’arte di non sapere e non capire eccelle la più riverita e ossequiata, nei bassifondi della peggiore Italia, delle fraudolente virtù: la furbizia. La nostra storia è colma di furbi cretini e cretini furbi. Quella che amiamo ricordare è stata fatta da altri, per lo più assai poco furbi, ma capaci di pensare e fare. Il furbo è il prototipo del cavalcatore d’eventi e sentimenti. Era furbo il Pinocchio che se la godeva. Diventa altro quando piange Lucignolo ridotto a somaro senza più fiato, morente nella miseria della sua furba illusione.
E allora, cosa s’intende quando si dice: nulla sarà più come prima? Perché quando le istituzioni dell’Unione europea hanno non solo permesso (a tutti) di spendere senza vincoli, ma anche procurato (prevalentemente a noi) i mezzi per farlo... e già li sento: che stai dicendo? In che mondo vivi? In quello reale, non avvelenato dall’incubo scambiato per sogno, non corrotto da un nazionalismo straccione millantato per patriottismo, in quello in cui non si cancella la realtà e non si costruisce la cattiveria sulla disgrazia... dicevo: quando quei soldi non sono piovuti dal cielo, ma resi possibili, tempestivamente e temporaneamente, era già tutto un correre a volere distribuirli con la stessa logica con cui s’erano buttati fin lì, e quando, invece, s’è trattato di farli passare attraverso il sistema produttivo, come era giusto e sano, in modo da salvaguardare non i “soldi in tasca agli italiani”, ma la sopravvivenza di posti di lavoro, salari, nesso fra il produrre e il consumare, in modo da essere pronti a ripartire, non appena s’è arrivati a quel punto hanno preso corpo i decreti con limiti, burocrazia, tempo perso a compilar carte inutilissime. Perché quella è la mentalità: l’impresa s’arricchisce e al popolo si distribuisce. Dottrina facilitata non solo dalla già citata furberia, marinata nella non conoscenza, ma anche dal non avere mai preso parte allo zozzo e degradante mondo di chi lavora per guadagnare e produce per consumare.
Dottrina che raggiunse il suo apice di morale mendace nel plaudire l’eroismo del personale medico e paramedico, condolendo senza compartecipare i suoi turni stramazzati e lamentando che il non funzionante altro non era che il riflesso dei tagli, naturalmente “selvaggi”, imposti alla spesa sanitaria, naturalmente derivanti dagli orridi vincoli di bilancio. Peccato che la spesa sanitaria sia sempre cresciuta (con la sola eccezione del passaggio dal 2013 al 2014, subito dopo riassorbita), mentre il personale sanitario è costantemente diminuito. Sicché piuttosto che inveire contro i vincoli ci sarebbe stato da interrogare i vincolati alla spesa sbagliata e alla politicizzazione della gestione sanitaria, meravigliosamente cresciuta dopo la distruzione del sistema sanitario nazionale e la sua regionalizzazione, voluta dalla sinistra per far concorrenza alla destra, rivendicata come ancora insufficiente dalla destra per far concorrenza alla sinistra e occupata da destra e sinistra, con stratificazioni successive di costi dissennati, giovanti alla salute dei fornitori selezionati e non dei malati abbandonati.
E allora, cosa s’intende con: nulla sarà più come prima? Perché è così, proviamo a parlarne, senza peli sulla lingua e senza dovere ridocumentare quel che abbiamo già documentato dettagliatamente. E non sarà come prima non solo dentro i nostri confini nazionali, lo sarà anche nella nostra Unione europea e lo sarà in un mondo che ha indebolito i legami del passato senza avere alcuna idea spendibile su quelli futuri. Ma una cosa è supporre che del prima ci si debba tenere le perversioni cui ci si era abituati, impoverendo ulteriormente quel che è capace di produrre ricchezza, altra, opposta, è puntare su quel che la ricchezza la produce, consapevoli che l’impoverimento è la cosa più socialmente ingiusta che ci sia. Il virus ha amplificato il bivio, ma di suo non indica alcuna strada. Quella tocca a noi.
Adesso l’ho nominato, il virus. C’è chi sostiene che si tratti dell’evento più significativo della nostra vita e che lo racconteremo ai nipoti. Non so, spero nel frattempo si sia trovato qualche cosa di meglio che non frequentarsi, che la scienza (ci arrivo, perché quello è un tema rilevante) sarà riuscita ad agguantare qualcosa che non si trovi nelle pagine di Alessandro Manzoni. Ma circa il raccontare ai nipoti sarà bene ricordare che fin qui s’è seguita la dottrina opposta, cercando di cancellare il dolore dalla loro vita, foss’anche solo quello di Pinocchio. Difatti si sono cresciute generazioni convinte che la ricchezza e il benessere siano dei diritti, cancellando totalmente i concetti di sacrificio e impegno per meritarseli. Che si racconterà: di come cantavamo al balcone? Di come noi non credemmo a quel che capitava ad altri e altri non credettero poi a quel che andava capitando a noi? O di come si può essere così sciagurati da non prevedere le sciagure, sicché eravamo riusciti a indebitarci oltre l’osso del collo per la semplice gioia di favorire il non lavoro e la non produzione? Che racconteremo: la sorte occorsa o come le andammo incontro suggerendo ai cittadini, in assenza d’altro, di tapparsi la bocca con le sciarpe, forse scambiando gli agenti patogeni con la polvere? Perché gli umani sono tutti uguali, il virus corre allo stesso modo, ma il numero di morti in alcuni Paesi non è paragonabile a quello registrato in altri. Prima di raccontarlo sarà il caso di ragionarne e capire. Perché il virus non è colpa di questo o di quello, ma gli errori commessi nel provare a contrastarlo non vanno taciuti, altrimenti ci si mette nella condizione di ripeterli. Il che sarà bene non raccontarlo.
Penso, piuttosto, che assisteremo a un fenomeno simile a quello che si rintraccia nella letteratura del secondo dopoguerra: il tema sarà onnipresente, ma al tempo stesso rimosso. Un po’ come capita in Napoli milionaria, raffigurazione perfetta che si deve a Eduardo De Filippo. Naturalmente lui la realizza per denunciarla. Quel ’900 italiano è una miniera in gran parte negletta, con gemme che ancora emanerebbero luce stellare, se non si fosse spenta la luce e accesi i riflettori sulle classifiche farlocche, inzeppate di roba che non capisci se stai leggendo un film e già sai dove introdurranno la pubblicità televisiva, con pagine sedicenti culturali che laureano capolavori secolari con ritmi settimanali, più o meno come i campionati di bocce nei ben più blasonati circoli della provincia che fu, inducendo a credere che i libri debbano essere come le uova: freschi di giornata. Che manco più esistono, le suddette.
In tanta di quella letteratura la guerra e il regime che vi trascinò l’Italia (dalla parte sbagliata, che non ci si guarda mai abbastanza dagli alfieri dell’onore nazionale, straordinari realizzatori del disonore) sono sullo sfondo, presenti anche quando si tratta di raccontare una storia d’amore, o un sesso morboso, o un omicidio sul lago, o il disfacimento familiare. Nel racconto torna spesso il riferimento a chi dalla guerra torna, o a quell’altro che fu federale, o al partigiano che percorre i monti mosso dalla gelosia, ma più raro è trovare racconto o ricerca che scandagli l’animo degli italiani che corsero festanti verso il massacro, invocando miti che ai loro occhi apparvero reali, abbracciando inciviltà che loro sembrarono civili conquiste dell’italianità, o la ferocia di una guerra civile che scatenò atrocità che travolsero il torto e la ragione. E questo accadde, naturalmente con pregevolissimi libri che a questo sfuggirono, perché l’orrore non poteva essere ignorato, ma troppo profonda la vertigine nel guardarlo negli occhi, riconoscendo in quel mostro non un alieno, ma la nostra stessa immagine.
Il virus non comporta colpe, ma essendocene da diverse parti, ed essendocene nel modo in cui non sono mancati i tentativi di approfittarne, anche questa pagina di storia sarà ricorrente nel tempo successivo, ma rimossa nelle sue implicazioni più fastidiose.
Fra queste ce ne sono, però, con cui sarà semplicemente impossibile non fare i conti: quelle economiche. Ed è in atto la corsa per provare a utilizzare il più collaudato sistema per sfuggire alla realtà e alla responsabilità: scaricare altrove le colpe e provare a saltare in un mondo immaginario. E velenosissimo.
A gennaio 2020 eravamo profondamente malati. Un buco nero esercitava, già da troppi anni, un’attrazione gravitazionale sui conti pubblici, succhiando via energia a produttori e consumatori, costretti a subire una pressione fiscale e previdenziale demoniaca, e allungando i tempi della crescita economica come un chewing gum tirato allo spasimo, fino al pericolo di romperlo e ritrovarselo appiccicoso e sbavaticcio su mani, naso e muso: il debito pubblico. Stephen Hawking, che è stato un grande fisico teorico e uno straordinario divulgatore, ma anche un mattacchione, descrisse il perché era piuttosto improbabile che si potesse mandare qualcuno a guardare dentro il buco nero, dettagliando la buffa e inesorabile sorte che gli sarebbe toccata, sicché, almeno fin qui, sosteneva, occorre cercare di capirli guardandone gli effetti da fuori. Noi il buco nero lo abbiamo scavato e, nel suo roteare assassino, da decenni sfrangia il Paese che lo ospita e coccola, inghiottendo materia che altrimenti potrebbe essere utilizzata per costruire qualche cosa. Ma, soprattutto, inghiottendo cervelli e onore, lasciando involucri vuoti che strombettano prosopopea sovrana nel mentre attivamente contribuiscono alla dissoluzione produttiva e morale.
Perché una cosa deve essere chiara, specie a quelli che suppongono spararle grosse aiuti a restare padroni di sé: un debito troppo alto prima sottrae e poi cancella la sovranità. E un’altra deve essere chiarita a quelli che pensano basti pronunciare la formuletta, alla supercalifragilistichespiralidoso, delle necessarie riforme, naturalmente “strutturali”: il nostro debito si è gonfiato a dismisura per potere pagare il prezzo di non farle e non volerle fare, ci siamo indebitati sconsideratamente apposta per evitare di cambiare. E la cosa buffa è che mentre lo facevamo la scena del vaniloquio politico era stracolma di attori proclamanti la necessità di cambiare, con monologhi cacofonici e autogratificanti, mirabilmente inconcludenti, talmente lunghi e defatiganti da indurre il sempre meno folto pubblico a uscire per guadagnare il bar o, ove oramai privo della residua forza vitale, ad abbioccarsi sul posto, sognando d’essere in un altro teatro, sicché, ad un certo punto, sul proscenio hanno fatto irruzione sciampisti e sartarelli, stufi di stare nei camerini a imbigodinare e ricucire, consapevoli che avrebbero potuto prendere il posto di tanto insignificanti attori. E una volta preso possesso del palco hanno proclamato la necessità del cambiamento, consistente, udite udite, con il farla finita con le riforme strutturali e austere, di cui prolissamente si enunciò e mai si realizzò, e proponendo l’andazzo che il debito lo aveva avviato sulla via dell’ingigantimento improduttivo, sicché il ritorno al malo tempo antico era millantato quale conquista del radioso avvenire. I nuovisti erano vecchisti, con la pur significativa attenuante di non saperlo, per conclamata ignoranza, oramai sventolata quale stendardo di purezza e non più celata quale certificazione d’incapacità. Vale la pena ricordare che il tanto (a sproposito) citato New Deal statunitense, che si crede sia stato spesa pubblica a gogò e basta, finalizzato a uscire dalla grande depressione, fu presentato con una politica sintetizzata con RRR: Relief, Recov...

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  1. Cover
  2. Sinossi
  3. Profilio biografico dell'autore
  4. Indicazione di collana
  5. Colophon
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