Introduzione
di Marcella Schmidt di Friedberg*
«La storia di un ruscello, anche di quello che nasce e si perde fra il muschio, è la storia dell’infinito»: con queste parole si apre l’opera forse più amata dal suo prolifico autore. In venti capitoli Élisée Reclus ricostruisce la storia di un corso d’acqua, un essere vivo che incessantemente si distrugge e si ricrea nello spazio di pace e libertà di una natura in continua trasformazione. La Storia di un ruscello (a cui seguirà, nel 1880, la Storia di una montagna), destinata a coloro «che amano sia la poesia, sia la scienza», appare nel 1869 presso la casa editrice Hetzel di Parigi, con immediato successo di pubblico; il volume esce nella medesima collana di libri per ragazzi, la Bibliothéque d’éducation et de récréation, del contemporaneo Jules Verne, il quale, a sua volta, pare si servisse abbondantemente delle opere di Reclus come sfondo per i propri romanzi d’avventura.
Perché riproporre oggi un classico della volgarizzazione scientifica di fine Ottocento, con i suoi accenti poetici e talvolta retorici? Perché con il Ruscello Reclus ci introduce allo studio diretto della natura, ci propone un modo di far geografia con i piedi, con gli occhi, con i sensi, oltre che con i libri. Scrive Reclus alla madre annunciandole il proprio desiderio di dedicarsi alla geografia: «Nessuna ricostruzione, per bella che sia, può essere veritiera perché non può riprodurre la vita del paesaggio, la caduta dell’acqua, il tremolio delle foglie, il canto degli uccelli, il profumo dei fiori, le forme cangianti delle nubi: per conoscere è necessario vedere» (Lettera alla madre, del 12 novembre 1855).
Nella Storia di un ruscello assistiamo a un dialogo personale tra l’autore e la natura che stimola la nostra capacità di osservazione, di evocazione, di contemplazione di un paesaggio ove «curve convesse e concave si alternano lungo i bordi: è un ritmo, una musica per lo sguardo» (infra, p. 113). Secondo Claude Raffestin: «Nel Ruscello siamo di fronte a una problematica di filosofia naturale per orientare nel futuro una geografia generale che Reclus ha tentato di realizzare ne L’Homme et la Terre, i cui principi fondamentali sono la lotta di classe, la ricerca dell’equilibrio e la decisione sovrana dell’individuo» (Raffestin, 2007, Prefazione); Reclus ci ha «spinti a sognare sulle realtà materiali e sulle loro rappresentazioni. Certo siamo prigionieri dello spazio terrestre, ma siamo capaci di liberarci grazie alle immagini che creiamo per interpretarli» (ibid., p. 296).
Attraverso l’accostamento di immagini vivaci, il ruscello scorre innanzi ai nostri occhi, descritto da un autore che percorre direttamente i luoghi a piedi, osservandoli e amandoli; escursionista, oltre che geografo, interprete attento e curioso dei fenomeni naturali attraverso un continuo scambio di domande e risposte: dalla sorgente, al ciclo delle acque, alla cascata, al burrone, ai pericoli delle inondazioni, senza dimenticare le attività umane legate all’acqua, le barche, i mulini, l’irrigazione, la pesca, ma anche la gioia delle passeggiate, dei giochi, del bagno.
In questa «galleria di piccoli quadri della natura» (Caraci, 1928, p. 22) spicca particolarmente per brio e vivacità lo spettacolo, riflesso negli occhi dei ragazzi intenti a giocare nel ruscello, della compagnia di militari accaldati che si butta nell’acqua per fare il bagno, una metafora anti-establishment, un inno al disordine: i soldati giungono rigidamente al passo, in colonne rettangolari, con gli ufficiali al fianco e il tamburino in testa, come «un immenso e strano animale spinto in avanti da chissà quale cieca volontà». Poi, con una descrizione brillante per ritmo e colori, quasi da cartone animato, «l’essere mostruoso» si scompone; dal mucchio rosso-azzurro di uniformi accatastate, di spalline gialle e di bottoni di metallo, emergono uomini che si gettano nell’acqua schiamazzando come «borghesi»: «Basta con l’obbedienza passiva, basta con la rinuncia alla propria personalità», ogni traccia di ostilità scomparsa, insieme con le mostrine e le uniformi. Ma lo scompiglio dura poco, un fischio richiama all’adunata e ben presto rivediamo i soldati, impeccabilmente vestiti, «allontanarsi in fila, a passo di marcia, sulla strada polverosa» (infra, p. 162).
Altrettanto arguta è la scena della mongolfiera mezza sgonfia, il suo passeggero impigliato nelle corde della navicella, che precipita nel centro della Senna tra file di pescatori immobili come statue: nell’agitazione generale dei barcaioli, mentre tutti si adoperano per salvare il malcapitato, i pescatori sulla sponda rimangono «impassibili, con il braccio teso sull’acqua, in attesa del piccolo fremito che li avverta dell’auspicata cattura» (infra, p. 169), totalmente concentrati nel «rito religioso» della pesca con l’amo (infra, p. 167).
Proprio oggi, quando lo studio si presenta spesso come una vana rincorsa di informazioni, sempre affrettate e sempre già superate, lo stile talvolta retorico e un po’ antiquato di Reclus può creare un momento di «lentezza», di meditazione partecipata ai fenomeni osservati. Il lettore, come l’autore, un «io tranquillo osservatore del ruscello e delle sue meraviglie» (infra, p. 120), può ribadire il proprio irrinunciabile «diritto alla flânerie» e offrire la possibilità alla «mente affaticata [...] di ricaricarsi alla vista della natura» (infra, p. 143).
La geografia che Reclus propone rientra in un progetto di pedagogia libertaria, ispirata a un ideale anarchico: «La contemplazione e la comprensione dei paesaggi della natura, poi, è il primo passo verso quel modello di educazione che nel progetto politico di Reclus e dei geografi anarchici sarà la strada per la trasformazione della società e per l’emancipazione delle classi subalterne». Scrive il geografo, contemplando il ruscello, che «se gli oppressi non avessero potuto ritemprare la loro energia e rifarsi un’anima attraverso la contemplazione della terra e dei suoi grandi paesaggi, già da molto tempo l’iniziativa e l’audacia sarebbero state soffocate. Tutte le teste si sarebbero chinate sotto le mani di alcuni despoti, tutte le intelligenze sarebbero rimaste intrappolate in una rete di sottigliezze e menzogne» (Ferretti, 2010, p. 109). Reclus ipotizza l’insegnamento di una geografia stimolata dalla curiosità e dallo studio diretto del ...