SUDESTE
Nella zona compresa fra il Pajarito e il Rio de la Plata, piegando bruscamente verso nord, fino a metà del suo corso sempre più stretto e in seguito distendendosi e tracciando lente curve fino alla foce, il rio Anguilas serpeggia, nascosto dalle prime isole.
Passata l’ultima ansa, il grande fiume appare all’improvviso, increspato dal vento. È immenso, sebbene le acque in quel punto non siano affatto profonde: dalla foce del San Antonio a quella del Luján è tutto un unico banco. L’Anguilas sfocia al centro di quel bassofondo, in una pianura coperta di canneti. Comunque la si guardi, la zona appare desolata e nei giorni grigi, con molto vento, impressiona chiunque.
A sinistra, molto distante, si affaccia l’isola Santa Mónica, scura e silenziosa come un bastimento. A destra, la costa si perde in una lontananza bluastra. Nei giorni chiari, guardando a sud, come quinte teatrali perennemente oppresse da una nuvola ferrigna, si possono scorgere i profili bianchi e grigi degli edifici più alti di Buenos Aires.
Quando il fiume cala di livello fa emergere una parte del banco, e quando la secca è al punto più basso sembra che la terraferma si sia estesa, simulando nuovi ruscelli che attraversano la pianura coperta di canne. Qualche pescatore si arrischia su questa terra umida e desolata ma, se non ci stende sopra il graticcio che fa da pavimento alla barca, affonda fino ai ginocchi.
Sulle carte più recenti, alla foce dell’Anguilas c’è il disegnino di un pesce per segnalare che lì la pesca è abbondante, ma la cosa è piuttosto aleatoria. Del resto, bisogna essere ingenui per prendere sul serio queste indicazioni. Durante la settimana, di notte, i pescatori gettano le reti attraverso la foce perché nei giorni feriali la zona è poco frequentata. Hanno preso questo brutto vizio e si sentono padroni del posto. Uno che non lo sa, se passa sopra la rete, rischia che gli affondino la barca a schioppettate. Una volta il Polo dovette aprirsi la strada sparando verso i canneti su tutte e due le rive con il suo vecchio fucile inglese di marca Purdey, del 1903, con le canne d’acciaio segate, che teneva proprio per questo tipo di occasioni. Approfittando del riflusso trascinò le reti lungo il bassofondo e quando fu in mezzo al fiume le issò a bordo. Qualche tempo dopo le vendette a San Fernando. Ma questa è storia vecchia. Il Polo è sparito da tanto tempo. Invece quei tipi sono sempre lì e nelle notti dei giorni feriali stendono ancora le reti attraverso la foce.
Il Boga lavorò insieme al vecchio fin quasi in primavera. Erano nove anni che il vecchio viveva sull’Anguilas e da sette sbarcava il lunario con i giunchi. Nel ’48 era venuto giù dal Romero dove, dal ’34 fino ad allora, aveva trafficato con le mele. Nel ’47 affondò la Elbita, una chiatta di sei tonnellate per il trasporto della frutta, e l’unico figlio che era rimasto con loro morì affogato. Così nel ’48, già vecchio, anche troppo, scese all’Anguilas con la lancia dell’Elbita. Fece due viaggi. Uno con le masserizie, l’altro con la vecchia e Urbano (il cane), e due o tre galline. Andarono a sistemarsi in una delle tre capanne vuote, la più vicina alla foce, nel punto dove l’Anguilas si raccorda con quel fiumiciattolo cieco che si interra un po’ più avanti e chi non conosce la zona lo prende per un ramo dell’Anguilas. Si era sbagliato anche lui, quando era arrivato lì nel ’48.
La capanna aveva due stanze, o meglio: una sola, ma divisa in due da un tramezzo di fango. Con gli anni, il vecchio aggiunse altre due stanze e una latrina, sistemata sul retro. Il tempo rese uniforme il complesso facendone un’unica massa scura e ingombrante, con due o tre ingressi anche più scuri. La base era piuttosto alta e abbastanza sconnessa, con alcune travi imputridite. A poco a poco prese a cedere da un lato, il più debole, dimodoché la capanna finì per inclinarsi mollemente da quella parte.
In quel punto il fiumiciattolo era troppo stretto per farci stare un attracco. Del resto, c’è da dubitare che il vecchio l’avrebbe fatto. Incassò nella riva una scaletta di salice e ormeggiò la lancia dell’Elbita a uno dei pioli.
Tutti sanno che i giunchi più si tagliano più ricrescono. Ma quando sono in tanti a tagliare e qualcuno taglia troppo, il prezzo crolla e nessuno paga granché per un deposito pieno zeppo di canne. Non esiste un lavoro più maledetto e miserabile. Per colmo di sventura, sembra che la gente che vive in queste isole non sappia fare altro.
Due anni prima era successo qualcosa del genere, e così l’anno successivo, cioè l’anno scorso, nessuno tagliò i giunchi; o perlomeno nessuno provò a venderli.
Anche il vecchio non li tagliò, e quasi morì di fame. Ma resistette dignitosamente, cibandosi per lo più di pesci gatto o, in inverno, di pesci re, che lui chiamava latterini o lattarini, e che dopo tutto sono una prelibatezza.
E così l’anno dopo, che fu l’ultimo del vecchio, i giunchi tornarono a crescere.
Appena fu il momento di tagliare si rifece vivo il Boga, e lavorarono insieme fino a poco fa, quando arrivò la primavera.
Nell’anno morto, cioè l’anno prima, il vecchio aveva completato la costruzione di un rifugio di salice e paglia. L’aveva iniziato tre anni prima, quando era morto l’Urbano. Era piuttosto basso e senza pareti, sistemato in un punto in cui il terreno era più elevato, vicino a un ceibo solitario. Il vecchio scavò il pavimento a mezzo metro di profondità e in uno degli angoli fece una specie di focolare. A mezzogiorno, o quando si scatenava il maltempo, andavano a mettersi lì. Mangiavano pane e un pezzo di lardo, e bevevano il mate. Qualche volta il Boga arrostiva i pesci gatto che avevano abboccato alla lenza, anche se di solito preferiva portarseli a casa. Poi dormivano un po’. Il vecchio dormiva seduto, con la testa sulle ginocchia e le braccia intorno alle gambe.
Il vecchio e il Boga non parlavano mai più dello stretto necessario. Però si intendevano a meraviglia. Ogni mattina tutti e due sprofondavano in quella solitudine verde e rumorosa che si agita docilmente a ogni raffica di vento. Ognuno si apriva la strada per conto suo, con i piedi nell’acqua. A volte l’acqua saliva fin sopra ai ginocchi, ma loro sembrava che non ci facessero caso. Oltre la barriera verde, in direzione del grande fiume, ascoltavano il mormorio dell’acqua che scorreva instancabile sui bassi fondali. Il grido lontano e lamentoso di un aramo. Lo strepito soffocato di una lancia che si allontanava sempre più. Le pulsazioni regolari del motore diesel dei cavatori di sabbia che navigavano nel canale. I Gloster che rombavano nelle nubi e attraversavano il cielo con un salto, inseguiti dal loro rumore.
Nonostante l’età il vecchio era molto abile. Quando raccoglieva i giunchi più esterni fra quelli stesi a seccare intorno al rifugio, aveva un’incredibile rapidità e perfino una certa eleganza. Li raccoglieva con una manata e in un colpo solo li scrollava e ne faceva mannelli, per poi finire il gesto legando ogni mannello con un singolo giunco. Il Boga non era così abile: pareva che disdegnasse di concentrarsi su una faccenda che non meritava di diventare un’arte. Semmai ne era un po’ annoiato, anche se la sua pazienza – o meglio: la sua indifferenza – era inesauribile. Di tutto il lavoro, la cosa che più gli dava...