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Dagli Urali e le steppe del Kazakhistan, oltre il Mar Caspio, fino alla Cina e alla Mongolia, alle terre dei kirghizi, degli uzbeki, degli uiguri, dei tagiki, l’Asia Centrale, l’immensa Asia di Gengis Khan e di Tamerlano, agli inizi del Novecento era ancora la stessa che i cartografi arabi del Medioevo avevano rappresentato come una giovane donna avvenente e discinta, stretta alla vita da una catena chiusa con un lucchetto. Un miraggio, un desiderio proibito, un mistero per chi non possedesse la chiave di quel lucchetto. Quella regione del mondo, grande alcune volte l’Europa, era per la maggior parte inesplorata. Ciò che si sapeva di essa non andava molto al di là dei classici in materia, da Marco Polo ai padri gesuiti del Seicento, dalle memorie di alcuni ambasciatori inglesi presso il Celeste Impero ai resoconti dei pochi viaggiatori che si erano avventurati in questa o in quella parte di terre tanto inospitali. Nelle carte geografiche di appena un secolo fa, l’Asia centrale era un vuoto segnato dalle più grandi catene di montagne della terra, l’Himalaya, il Karakoram, il Pamir, le Montagne Celesti.
Al centro di quel vuoto, il vuoto assoluto: il più spaventoso dei deserti, il Taklamakan: “la terra della morte”, come lo definiva il geografo Sir Percy Sykes, che fu per un certo periodo console a Kashgar, avamposto commerciale sulla Via della Seta ai margini del Taklamakan e crocevia fra tre imperi: quello russo, quello cinese, quello britannico. La sorella di Sir Percy, Ella, che di deserti se ne intendeva, avendone attraversato più d’uno, chiamava “abominio di desolazione” quella distesa gibbosa di sabbia e sassi, lunga novecento chilometri e larga quattrocento, cosparsa di depositi salini e di dirupi argillosi che si scorgeva in distanza dalle finestre della residenza consolare di Kashgar, circondata da difese difficilmente superabili: a nord dalla superba catena del Tien Shan, a sud dal Karakoram e dalla catena del Kun Lun, a ovest dal Pamir (il Tetto del Mondo), a est dai deserti contigui del Lop e del Gobi.
A queste difese naturali si aggiungevano, a tener lontani viaggiatori e curiosi, superstizioni funeste e leggende terrificanti sugli spiriti maligni e i mostri e le potenze sovrumane che abitavano quella mortale distesa di niente, dove le dune, altissime, cambiavano continuamente forma sotto le raffiche del kara-buran, ovvero “uragano nero”, il terrorizzante vento locale capace di raggiungere i duecento chilometri l’ora, sollevando vortici di pietre che non lasciano scampo a uomini, cammelli, cavalli, e dove intere carovane erano scomparse senza lasciare traccia.
“Improvvisamente il cielo diventa nero… e subito dopo la tempesta aggredisce la carovana con violenza terrificante… L’oscurità aumenta e strani schianti risuonano fra i ruggiti e gli ululati della bufera… Tutti i viandanti investiti da una simile tempesta debbono coprirsi da capo a piedi di pesanti panni di feltro, quale che sia il calore, per difendersi dai colpi delle pietre che sfrecciano a folle velocità. Uomini e bestie si sdraiano per terra per sopportare la violenza dell’uragano, che può durare ore e ore…”. Così von Le Coq descrive quel deserto da incubo nel suo libro Buried Treasures of Chinese Turkestan: riferisce che nel 1905 una carovana di sessanta cavalieri cinesi, di scorta a un carico di lingotti d’argento verso l’oasi di Turfan, perì al completo per essere stata travolta da un kara-buran così forte da rovesciare i carri nonostante il peso del loro carico di metallo. In seguito, furono trovati alcuni corpi di uomini e di cavalli mummificati; “tutti gli altri erano totalmente e definitivamente scomparsi: la tempesta di sabbia ama seppellire le sue vittime”. Per i cinesi, era tutta opera dei dèmoni che abitavano il deserto e attiravano gli uomini verso la morte per sete. E anche Sir Clarmont Skrine, console generale britannico a Kashgar negli anni Venti del secolo scorso, pareva dello stesso parere, stando alla sua descrizione del Taklamakan che egli poteva scorgere, come s’è detto, dalle finestre della residenza consolare: le sue gialle dune “come onde gigantesche di un oceano pietrificato, si moltiplicano in innumerevoli miriadi fino al lontano orizzonte… Sembra che gridino silenziosamente, quelle dune, chiamando i viandanti e le carovane perché vengano a inabissarsi e a farsi inghiottire come tanti altri nel passato”.
Eppure, proprio lì, intorno alle oasi che orlano i margini di quel deserto, e anche discosto da queste, in epoche nelle quali il clima era certamente meno selvaggio e le forze della natura più calme, era fiorita una civiltà della quale solo a metà del XIX secolo si cominciò ad avere sentore e a trovare qualche testimonianza. Un’antica civiltà sprofondata sotto quelle sabbie, riassorbita da una terra divenuta ostile e sinistra, cancellata dalla storia e sepolta, per così dire, nella geografia. Dai primi ritrovamenti casuali, da quegli sparsi barbagli di un tesoro che avrebbe potuto nascondersi nel Taklamakan e nelle sue adiacenze, la febbre della scoperta cominciò a salire nel mondo dell’archeologia. Continuò a salire provocando allucinazioni e quasi delirio mano a mano che le supposizioni divenivano certezze e, alla fine del secolo, alimentò una corsa frenetica verso l’Asia centrale, nel Turfan, nel Kansu, lungo tutto il ramo meridionale della Via della Seta, una gara a chi sarebbe arrivato primo e avrebbe razziato di più. Fu la più grande, avventurosa, temeraria caccia al tesoro in tutta la storia dell’archeologia.I suoi protagonisti furono principalmente sei: lo svedese Sven Hedin, l’anglo-ungherese Aurel Stein, il tedesco von Le Coq, il francese Paul Pelliot, il giapponese conte Otani e, ultimo di tutti, l’americano Langdon Warner, che arrivò nel Turkestan cinese nel 1924, quando la caccia al tesoro era finita da un pezzo e ancor trovò di che far bottino.
Nel XIX secolo finì l’epoca delle esplorazioni e delle scoperte geografiche, iniziata alla fine del Quattrocento con la scommessa di Cristoforo Colombo di raggiungere l’India navigando verso ponente e la scoperta, invece, di un nuovo continente a metà strada. L’Africa “misteriosa” era stata l’ultima riserva di avventura per i ricercatori dell’ignoto, per quegli esploratori intrepidi e avventurosi che furono gli Stanley, i Bottego, i Gessi, i Burton. Sulla terra non restava più nulla da scoprire, se non l’Artide e l’Antartide, anzi i due poli Nord e Sud che nessuno aveva ancora mai raggiunto; e la loro conquista, agli inizi del XX secolo, non aggiunse di fatto nulla di sostanziale alla conoscenza fisica del pianeta. Restava solo un’immensa regione al centro dell’Asia, non del tutto sconosciuta – mercanti occidentali vi si erano già avventurati secoli prima di Marco Polo – ma scarsamente conosciuta, della quale esistevano soltanto mappe approssimative e lacunose; un’immensa regione abitata da popolazioni isolate dal resto del mondo, rimaste da secoli al di fuori delle loro epoche, estranee alle modernità raggiunte; territori sconfinati grandi più volte l’intera Europa, con le montagne più alte e impervie del pianeta, e deserti terrificanti, lande disabitate al di fuori dei piccoli villaggi di pastori e predoni, città murate dai nomi arcani e dal passato perduto nella notte dei tempi, a enormi distanze l’una dall’altra, fra le quali si viaggiava con gli stessi mezzi e lungo gli stessi percorsi di un passato immemorabile, e il viaggiarvi comportava difficoltà estreme, enormi fatiche e non pochi rischi. E lì, in quel mondo leggendario, senza storia e senza geografia, a cavallo fra Ottocento e Novecento ebbe luogo la più straordinaria, affascinante, avventurosa caccia al tesoro che gli annali dell’archeologia abbiano mai registrato. La posta in gioco consisteva nel riportare alla luce una grande civiltà scomparsa, la civiltà buddhista fiorita fra la Cina e l’India prima dell’anno Mille della nostra epoca, con le sue città, con una straordinaria fioritura artistica e culturale, centinaia di templi e di biblioteche, di stupendi prodotti artigianali, sete preziose, manoscritti, sculture, decorazioni, affreschi… Un tesoro inestimabile, un bottino immenso sul quale i suoi scopritori si avventarono con un entusiasmo che si trasformò in irrefrenabile ingordigia, in autentico spirito di rapina.
M. Aurel Stein con i suoi assistenti a Ulugh-mazar nel marzo del 1908. Da sinistra, seduti: Jiang Siye, il suo segretario cinese; Stein con il suo cane Dash; Lal Sing e Ram Singh (in piedi), i suoi geometri indiani.
È difficile stabilire una data precisa per l’inizio dell’impresa. Prendendola alla lontana, una potrebbe essere il 1896, quando sul Giornale della Royal Geographical Society di Londra apparve un primo resoconto del viaggio in Asia centrale compiuto da Sven Hedin, giovane esploratore e geografo svedese destinato a raggiungere ben presto le vette della fama mondiale. Egli ebbe la percezione dell’immenso giacimento di reliquie di quella civiltà che pochi in Occidente sapevano fosse esistita e della quale da qualche tempo continuavano a venire alla luce sparse testimonianze. Qualcuno aveva addirittura accertato l’esistenza di questo tesoro, la cui ricchezza appariva sempre più fantastica mano a mano che i ricercatori si avvicinavano a esso: antichissimi testi buddhisti tibetani, cinesi, indiani, rotoli manoscritti in tutte le lingue e in tutte le grafie – pali, sanscrite, brahmi, iraniche, turchesche – una quantità inimmaginabile di opere d’arte e di pagine preziose accumulate dai pellegrini buddhisti cinesi che dall’inizio della nostra era avevano intrapreso il viaggio verso l’India per arrivare alla fonte originaria e autentica della loro fede; un viaggio che richiedeva anni di cammino fra pericoli, privazioni, difficoltà di ogni specie, attraverso le terribili catene di montagne dell’Himalaya, del Karakoram, del Pamir, dell’Hindukush, fra picchi che superavano i sette-ottomila metri, ghiacciai sconosciuti e valli mai violate da esseri umani, fra genti di ogni etnia e predoni delle steppe e cacciatori di schiavi, fra dragoni e fantasmi e allucinazioni provocate da mesi, da anni di solitudine, di sofferenze, di fatiche, e sicuramente da una disposizione poetica dell’animo preparato ad affrontare tanto l’impossibile quanto l’irreale. Fu una straordinaria epopea, una delle più grandi avventure spirituali nella storia dell’umanità, durata quasi mezzo millennio dopo l’arrivo del Buddhismo in Cina.
Erano monaci sapienti, letterati, artisti, conoscitori di tutta la scienza del tempo, pellegrini di grande intelletto che, durante i loro interminabili viaggi, si trasformano all’occorrenza in storici, geografi, diplomatici, osservatori di costumi, poeti, scrittori; creatori di storie fantastiche popolate di prodigi e meraviglie, di trasfigurazioni umane e sovrannaturali, di una ricchezza immaginifica addirittura superiore a quella che s’incontra nella narrativa araba. Questi intrepidi pellegrini della Serindia – come veniva chiamata anticamente l’Asia centrale, a nord dell’India e a ovest del paese della seta, Sericum, ossia la Cina; come dire Cinindia, il contrario concettuale di Indocina – questi paladini della Parola del Buddha, pronti a tutto per assolvere quella che ritenevano la loro missione, non erano devoti che cercavano la propria elevazione spirituale ricalcando i passi terreni del Risvegliato: essi cercavano i testi originali indiani del Piccolo e del Grande Veicolo, il Mahâyana, da riportare in patria per ripristinare la purezza dell’insegnamento originale. Il Buddhismo cinese si caratterizzava infatti per la devozione alla lettera come ricettacolo dello spirito, e i grandi traduttori erano riveriti al pari dei grandi santi; migliaia di letterati consacravano la loro vita a trascrivere in cinese i testi portati dal paese del Buddha (il Signore Fo, in cinese), “convinti che dalla giustezza di una parola, e quindi di un’idea, derivassero conseguenze spirituali incalcolabili”. E in pali, la lingua del Buddha, l’ampiezza semantica della parola era enorme.
Il più famoso di loro, venerato un po’ come santo e un po’ come mago, la cui effige si poteva trovare anche nella più remota capanna di pastori, era Xuanzang (ovvero Hiuen-tsiang, o ancora Hsüan-tsang), che nel VII secolo d.C. aveva attraversato l’Asia centrale dalla Cina all’India, anche lui per andare alla fonte della sua fede. E Xuanzang non era stato il primo in assoluto. Altri monaci avevano affrontato per lo stesso motivo quel viaggio inimmaginabile – mesi, anni di marcia fra stenti e pericoli mortali di ogni genere, attraverso le montagne e i deserti più spaventosi della terra – e, oltre ai monaci, altri viaggiatori ancora lo avevano preceduto, il primo dei quali era stato un certo Zhangqian (o Chiang Ch’ien) nel II secolo a.C.: un giovane funzionario della casa imperiale famoso per la sua forza e il suo coraggio, inviato in missione segreta dall’imperatore Wu-ti della dinastia Han per cercare alleati contro i temibili Xiongnu, una delle più antiche tribù nomadi centro-asiatiche delle quali si abbia notizia. Erano i progenitori dei terribili unni che molto tempo dopo si affacciarono in Europa. Le loro scorrerie in Cina erano cominciate secoli prima, e fu proprio per tenerli alla larga che l’imperatore Shi Huang-ti aveva costruito la Grande Muraglia nel III secolo a.C. Zhangqian fallì nella missione diplomatica ma tornò in patria con una preziosa messe d’informazioni su regni sconosciuti, quali Fergana, Samarcanda, la Persia. E Zhangqian è considerato il “padre della Via della Seta” per aver ricalcato per primo, in direzione opposta, le orme di Alessandro Magno. Il suo maggior merito, ancor più grande di quello d’aver ampliato le conoscenze geografiche e geopolitiche dell’Asia, fu di aver...