MEMORIE DI UN GATTO
BARCELLONA TRA INDUSTRIE, ANARCHICI E SPLENDORI
(Liberamente ispirato a “Teresuccia-che-scendeva-le-scale” in Arianna nel labirinto grottesco di Salvador Espriu, 1935; La città dei prodigi di Eduardo Mendoza, 1986; Un signore di Barcellona di Josep Pla, 1951)
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SULLE SETTE REINCARNAZIONI DI UN GATTO BARCELLONESE. PRIMA: DI COME CONTEMPLI LA NOTTE NEGLI ANNI OTTANTA DELL’OTTOCENTO — SECONDA: DI COME PARLI A UN SUO SIMILE SUL CONTO DI TERESUCCIA E DEL CAPITANO — TERZA: DI COME ATTENTI ALLA VITA DI ONOFRE BOUVILA, PROTAGONISTA MENDOZIANO — QUARTA: DI COME RISPONDA ALL’INTERROGATORIO SULLE SORTI DI SANTIAGO SALVADOR FRANCH, AUTORE DELL’ATTENTATO AL TEATRO LICEU, IL 7 NOVEMBRE 1893 — QUINTA: DI COME OSSERVI IL BALLO TRA UN UOMO E UNA MUMMIA — SESTA: NON PERVENUTA — SETTIMA: DI COME, ASSIEME AI SUOI SIMILI, ACCOLGA IL RICCO BORGHESE RAFEL PUGET AL RITORNO DALL’INAUGURAZIONE DELL’ESPOSIZIONE UNIVERSALE DEL 1929.
Due fanali nel buio. Un’ombra leggera sul muro. Rapidi passi. Un salto. La capanna scricchiola, il fango secco non regge. Meglio allontanarsi in fretta, prima degli strilli, sgusciando sotto le gambe di un ubriaco barcollante, e poi rasente alla bimba dai calzini logori, la cui mano accenna una carezza. Veloce. In equilibrio sul filo delle tute blu da lavoro, dei berretti in frangia stesi ad asciugare. Un altro salto. Dabbasso qualcuno mastica a bocca aperta sardine e baccalà, ne riconosce il profumo. L’arco della costa sporca abbraccia la luna vitrea sul mare, una scodella biancastra pronta a farsi inghiottire dai flutti. Le urla silenziose della marea, i borbottii di una vecchia, un mugolio sordo, di rabbia o d’amore.
Si arrampica sulle casette basse di legno, dove il mattino si accuccia a scrutare le barche e i pescatori, nella speranza di qualche testa di muggine o di qualche lisca. A pochi metri scorge il Grigio: divora la carcassa di un gabbiano, mentre lo osserva serio un bimbetto smagrito.
Lascia la sabbia, si addentra per Barceloneta, tra le viuzze mute, i palazzi corrosi dalla salsedine, i balconi arrugginiti. Salta su un carro, dal carro al balcone, poi a un secondo balcone, e a un terzo. Fino al tetto a terrazza, bianco, deserto, silenzioso come lui.
Il piatto di luna con gli avanzi di cibo è lì dietro, splendente. Il mare ora tace. Il Grigio avrà divorato il gabbiano. Un seno scavato avrà ripreso il bambino.
Barcellona, di notte, è la magia. I monti lontani, i lumini fiochi. I fumi bianchi che salgono dalle ciminiere, da una, da due, da tre fumaioli in mattone. Proprio davanti a lui, a Barceloneta, lo stabilimento della Maquinista Terrestre i Maritima, con l’arco sotto cui passano gli uomini, i carri e i cavalli. A destra, a Poblenou, un’altra struttura massiccia, ma più recente, della Maquinista. Sulla sinistra, contro la collina ancora spoglia e buia del Tibidabo, si stagliano le volute delle possenti fabbriche di Sants e di Les Corts e, non troppo lontano, quella del Vapor Nou di Gràcia. Ciminiere alberi, con colonne di fumo opalescente, tronchi di una foresta incantata, nelle cui radici fremono forni, rulli, macchinari e telai industriali.
La brezza di primavera porta sul tetto i canti mesti degli operai, il rumore meccanico del loro lavoro, gli inviti delle prostitute sulla Rambla, nel Raval o nella Ciutat Vella, gli echi di fisarmoniche, i pianti dei bambini affamati nelle baracche, gli spergiuri dei condannati nelle carceri. Porta anche i sogni delle migliaia di spagnoli giunti a Barcellona a costruire l’impero economico della città, a morire per lei. I sogni di alcuni, le Americhe, e i sogni di altri, l’uguaglianza.
La notte sublima Barcellona, il suo silenzio, la pace e il mistero. Tacciono i lavori per costruire l’Eixample, per collegare la città soffocata a paesini come Gràcia; tacciono i cantieri sorti al posto della temuta fortezza della Ciutadela, dopo il 1714 simbolo della repressione dei catalani; tacciono i primi treni; tacciono i venditori ambulanti e gli strilloni dei giornali. Tacciono gli uccelli, i pesci, i morti nei cimiteri di Montjuïc e Poblenou. Tutto tace, la luna brilla, e la coda di lui oscilla nel vuoto.
Tra poche ore migliaia di uomini e donne, bambini e bambine, marceranno assonnati verso la Maquinista, El Vapor Nou, El Vapor Vell, Can Ricart, La España Industrial e le altre fabbriche disseminate pure dentro la città, da poco privata delle secolari mura difensive.
Barcellona è la magia, Barcellona è il carbone, Barcellona è la voce, Barcellona è il mare.
Barcellona è la locomotiva dell’intera Spagna.
E gli sbuffi di bianco squarciano la notte oscura di stelle.
* * *
Non le avevi ancora viste? Dov’eri finito? Sono tornate ieri. Teresa, sempre più bella, e pure Julia. Non sono d’accordo, Teresa è più bella, e ha una mano così delicata… Il capitano ne è orgoglioso, lo sento. Quando la sera rimangono tutti e tre assieme, davanti al calore del caminetto, mi acciambello vicino a lui, nel cantuccio che mi lascia sempre sulla poltrona. Ronfo beato, mentre lui mi accarezza e intanto racconta alle figlie i suoi viaggi. Sonnecchio e ascolto, sbadiglio e mi perdo nei sogni. Iloilo, Messico, Nicobare, Terranova. Iloilo? L’hai mai sentito? Ah, ma tu sei sempre in giro a rincorrere i topi. Che strano nome, Iloilo. Ci sarà pure lì il mare che luccica e ride quando c’è il vento? Ci saranno i pesci? Appena mi stiracchio con le zampe all’insù, subito arriva Teresa, con la sua manina leggera, e mi carezza la pancia mentre ridacchia il mio nome. Il capitano sorride. Rimarrei così per ore… Non è più una bambina, no, hai ragione. Ricordi quant’era capricciosa? Mi soffiava nelle orecchie, mi tirava la coda, non mi lasciava mai in pace… Però Teresuccia è cambiata, anche se la mano le è rimasta bambina. Terranova, dici? Non lo so. Il capitano deve aver fatto fortuna. Era uno dei tanti di qui, sono partiti tutti, però il capitano è più bravo. Hai visto come ti guarda negli occhi? E poi ha una voce sicura e decisa. Neanche Marieta, la cuoca, riesce a farmi saltare giù dal tavolo, ma quando c’è il capitano… Sì, deve aver fatto fortuna. Da qui erano partiti in moltissimi, tutti verso le Americhe, così le chiamavano. E ancora partono, dopo che per tanti secoli gliel’hanno negato. C’era pure il nipote di Ada, la governante, che piangeva dietro l’armadio dopo averlo saputo. Il nipote, però, era andato da mozzo, mentre il capitano… Il capitano è partito da signore, da capitano! Me lo raccontava mia madre, che glielo aveva raccontato sua madre, che glielo aveva raccontato suo padre. Era partito con un’infinità di valigie, con certi grossi e duri bauli pieni di stoffe pregiate. Ed era tornato con altri dallo strano profumo. Buono, ma strano. Stoffe segrete, lo bisbigliavano tutti. E nessuno poteva entrare, no, no, nemmeno mio nonno, nemmeno il trisavolo del pulcioso. Eccome, anche lui cacciavano fuori a pedate. Il capitano aveva portato tanti oggetti magnifici, una pelliccia scura, pesante, e pure una lunga pipa, che fuma ancora, le sere di nebbia, quando è più pensieroso. Sì, certo, anche la bambola di pezza, che Teresa ha ereditato dalla madre quando lei è morta di tisi. Teresa la tiene sulla coperta e la mattina, appena apre gli occhi, corro da lei, salto sul letto. Teresuccia mi scansa affettuosa con la sua manina pigra, io mi infilo sotto le lenzuola e le mordicchio i piedini. Sì, Julia è più fine, ma non ha la personalità esuberante di Teresa. E la sua dolcezza. Eccole che arrivano. Guardale come scendono le scale. Teresa è splendida, tienitela tu la tua Julia.
* * *
Mentre anche nel resto della città fervono i lavori per la prima Esposizione universale – l’innalzamento della statua al “catalano” Cristoforo Colombo, l’illuminazione delle strade, le prove per il varo delle Golondrinas –, al parco della Ciutadela i manovali hanno deposto pale e picconi.
Cartolina d’epoca.
Mentre anche nel resto della città fervono i lavori per la prima Esposizione universale – l’innalzamento della statua al “catalano” Cristoforo Colombo, la costruzione del Gran Hotel Internacional, l’illuminazione delle strade, le prove per il varo delle Golondrinas –, al parco della Ciutadela, cuore dell’allestimento, i manovali hanno deposto pale e picconi. Le paghe sono infime, la precarietà massima, i diritti inesistenti. Volantini e arringhe degli anarcocollettivisti pare abbiano sortito effetto, sebbene uno dei loro giovanissimi adepti, Onofre Bouvila, sia passato alla chetichella, e quasi inavvertitamente, dal distribuire manifestini al promuovere lozioni per capelli, attività di gran lunga più redditizia.
Quasi inavvertitamente. Perché ogni giorno il vendicatore Belzebù lo scruta dal suo nascondiglio dietro i cespugli, in mezzo alle montagne di mattoni, sui rami degli alberi, oppure camuffato da scoiattolo o acquattato dietro le palle di pezza, misero svago degli operai. Guardingo e guizzante, imita il tubare dei piccioni o finge il fruscìo dei sorci tra le fratte pur di non farsi riconoscere da Onofre che, in assenza dell’amata Delfina, non esiterebbe ad assestargli una sonora pedata.
Ha subito ristretto le pupille negli occhi di giada quando lo ha visto, subito ha rizzato la coda nera come il demonio quando lo ha fiutato, appena quel losco figuro è apparso al...