STRUTTURA LOGICA E DOTTRINALE
Abbiamo visto i simboli fondamentali – il castello, il baco da seta, lo sposo e la sposa – cercando di individuare che cosa evocasse ognuno. Adesso consideriamo la struttura logica del Castello, cioè l’impianto, come viene organizzato il materiale, per capire com’è costruita l’opera. Nonostante l’apparenza, non è la gradualità settenaria delle sette dimore – il fatto che da una dimora si passi all’altra – che dà la struttura logica di questo discorso.
È interessante notare come Teresa non segua lo schema delle tre vie: purgativa, illuminativa, unitiva. La gradualità settenaria ha due precedenti nella storia della spiritualità: gli itinerari mistici del secolo decimoquarto hanno nelle loro costruzioni questa sorta di schema settenario, come sette gradini; anche Giovanni della Croce ne parla nel commento al secondo libro della Salita al Monte Carmelo, capitolo 11, quando dice che le septem mansiones sono i sette gradi di amore; così anche all’interno del Cantico spirituale, alla strofa 26. Ma questo è soltanto l’apparente; in realtà, la divisione logica, che Teresa stessa introduce, è quella che appare dal trattato, cioè le prime tre dimore – il “naturale” teresiano – sono distinte dalle altre quattro – il “soprannaturale” teresiano.
Naturale e soprannaturale
Teresa usa il termine “soprannaturale” in un senso particolare, intendendo cioè qualcosa che è gratuito, che si riceve e accoglie, che non si può costruire con la propria industria e col proprio sforzo. Di fatto questa distinzione appare già nel libro della Vita, ma è molto chiara nel Castello alla “quarta dimora”, già nel primo paragrafo, quando dice: «Per parlare delle quarte mansioni devo raccomandarmi, come già ho fatto, allo Spirito Santo e supplicarlo che parli in luogo mio, non altrimenti che per poter dire e far capire qualcosa delle mansioni che rimangono. Qui comincia il soprannaturale, parlar del quale è assai molto difficile, a meno che non mi aiuti Sua Maestà (M IV, 1, 1)».
La stessa cosa si ritrova più avanti in questa “quarta dimora”, dove, distinguendo tra le esperienze della fase precedente, quelle dei contentos, e dei gusti, dice: «Se i primi non sono cattivi, i secondi sono più nobili, perché cominciano da noi e finiscono in Dio, mentre i gusti cominciano da Dio e si fanno sentire dalla natura, procurandoci tanto piacere quanto i contenti di poco prima, e assai più (M IV, 1, 4)».
La presentazione è molto chiara: la prima è l’esperienza di uno che va da sé a Dio, la seconda è l’esperienza di qualcosa che da Dio viene a sé, quindi implica la libertà di Dio: il primo è il “naturale” teresiano e il secondo il “soprannaturale”, cioè la condizione di passività nei confronti di un’iniziativa che è gratuita, viene da Dio e non si può catturare.
La distinzione più logica riguarda quindi i due tempi della vita spirituale: si potrebbe dire il primo “ascetico” e il secondo “mistico”, cioè naturale e soprannaturale. Bisogna guardare come la marcatura tra ognuna delle soglie delle ultime quattro dimore del Castello – l’anima è questo castello che entra in un castello, dunque è un movimento – è più netta e forte che non nel caso delle prime tre, che esprimono un discorso abbastanza globale. Le ultime quattro soglie sono invece molto distinte. Le prime tre caratterizzano un momento solo e abbastanza omogeneo, che riguarda ciò che è in nostro potere, cioè impegnarsi a seguire il Signore per la via dell’orazione; in seguito si tratta sempre di una sequela, ma qui è il Signore a prendere l’iniziativa, anche se la sequela ha sempre la medesima struttura fondamentale di partecipazione alla morte e resurrezione di Cristo. Che questa divisione corrisponda all’esperienza di Teresa pare molto plausibile e facile da documentare, come appare nella Vita, che consente un raffronto col Castello fino alla “sesta dimora”. Se collochiamo nel 1554 – Teresa aveva circa quarant’anni – la data di esperienza forte di fronte al Cristo piagato, che è un momento culmine nel cammino di ripresa dell’orazione, la cosiddetta terza conversione della santa, qui si conclude l’epoca delle tre dimore e incomincia l’ingresso nelle restanti. Leggiamo infatti al capitolo nono della Vita: «Ormai la mia povera anima si sentiva stanca e voleva riposare, ma le sue perverse inclinazioni glielo impedivano. Entrando un giorno in oratorio, i miei occhi caddero su una statua che vi era stata messa, in attesa di una solennità che si doveva celebrare in monastero, e per la quale era stata procurata. Raffigurava nostro Signore coperto di piaghe, tanto devota che nel vederla mi sentii tutta commuovere perché rappresentava al vivo quanto Egli aveva sofferto per noi: ebbi tal dolore a tal pensiero dell’ingratitudine con cui rispondevo a quelle piaghe, che parve mi si spezzasse il cuore. Mi gettai ai suoi piedi in un profluvio di lacrime, supplicandolo di darmi forza per non offenderlo più.
Ero molto devota di santa Maria Maddalena, e pensavo spesso alla sua conversione, specie quando mi comunicavo. Sapendo che il Signore stava allora con me, mi gettavo ai suoi piedi immaginandomi che le mie lacrime non meritassero di essere del tutto disprezzate. Non sapevo quello che dicevo, facendo Egli già molto con acconsentire che io le spargessi per Lui, giacché i miei sentimenti si dileguavano quasi subito. Intanto mi raccomandavo a questa santa gloriosa affinché mi ottenesse perdono.
Ma nulla mi fu più utile che di prostrarmi innanzi alla statua che ho detto. Allora diffidavo molto di me e mettevo ogni fiducia in Dio. E mi pare che gli dicessi che non mi sarei alzata dai suoi piedi, se non mi avesse concesso quello di cui lo pregavo. Certamente Egli mi deve avere ascoltata, perché da allora in poi mi andai molto migliorando.
Questo era il mio metodo di orazione. Non potendo discorrere con l’intelletto, procuravo di rappresentarmi Gesù Cristo nel mio interno, specialmente in quei tratti della sua vita in cui lo vedevo più solo, e mi pareva di trovarmi meglio. Mi sembrava che, essendo Egli solo ed afflitto, mi avrebbe accolta più facilmente, come persona bisognosa d’aiuto. Di simili ingenuità ne avevo parecchie. Mi trovavo molto bene con l’ ”orazione dell’orto” dove gli tenevo compagnia. Pensavo al sudore e all’afflizione che vi aveva sofferto, e desideravo asciugargli quel sudore così penoso. Ma ripensando ai miei gravi peccati, ricordo che non ne avevo il coraggio. Me ne stavo con lui fino a quando i miei pensieri lo permettevano, perché mi disturbavano assai» (V, 9, 1-3).
Dopo incomincia l’altra fase. C’è un intermezzo sulla preghiera fino al capitolo 22, e da lì in avanti riprende il racconto della vita, ma ormai siamo alla “sesta dimora”. Questo per quanto riguarda il cammino di Teresa come il libro della Vita ci permette di comprenderlo, quasi come un supporto alla trattazione più generale del Castello.
Giungiamo ora alla struttura dottrinale, cioè all’individuazione dei cardini della dottrina spirituale esposta in questo trattato per cercare di penetrare fino in fondo il pensiero spirituale di Teresa. I nuclei centrali del pensiero mi pare siano quattro: il Signore del castello, l’anima dell’uomo, l’unione e il suo significato, il cammino dell’unione.
Il Signore del castello
Per quanto riguarda il primo, vediamo chi è il Signore del castello: a prima vista non è così facile individuare chi sia questo re che dimora nel centro. Teresa sembra oscillare tra Dio, la cui presenza non è solo – secondo l’analisi della Scolastica – essenza, potenza, presenza (essenza: noi siamo una partecipazione di Dio, come se Egli si esprimesse fuori di sé creando qualcosa di distinto; potenza: Dio opera nella sua creatura, quindi non ci possiamo pensare staccati da Lui quando operiamo e anche la nostra libertà va pensata dentro; presenza: Dio ci conosce), ma anche inabitazione trinitaria. Si può richiamare ad esempio il capitolo 18 della Vita: «Mi pareva che Dio mi stesse molto vicino, e siccome da principio non sapevo che Egli è in ogni cosa, il fatto mi sembrava assai strano. Eppure lo vedevo così chiaro da non essermi possibile di credere diversamente. Quelli che non avevano studiato mi dicevano che era soltanto con la sua grazia [qui intende la grazia attuale, transitoria di Dio, non tanto abituale: è una terminologia diversa rispetto a quella che siamo abituati noi ad usare]. Ma io non mi potevo convincere, perché, come dico, mi pareva che lo fosse realmente, e me ne rimanevo con pena. Mi venne a togliere da questo dubbio un dottissimo religioso di San Domenico, il quale mi disse che Dio è realmente presente, e mi spiegò come si comunica alle anime, per cui rimasi molto consolata.
Giova notare e ben comprendere che quest’acqua di cielo, cioè questo gran favore di Dio, arricchisce l’anima di grandi tesori, come passo ad esporre (V, 18, 15)».
La stessa cosa viene ricordata alla “quinta dimora”: «Conosco una persona che non sapeva che Dio si trova in ogni cosa per presenza, per potenza e per essenza. Ma lo intese chiaramente dopo un favore di questo genere ricevuto dal Signore. Avendo interrogato uno di quei semidotti di cui ho parlato più sopra sul come Dio sia in noi, egli che ne sapeva quanto lei prima di questa illustrazione, le rispose che vi sta soltanto per la grazia; ma ella era talmente fissa nella verità, che non gli credette. In seguito, interrogò altre persone che le dissero la cosa come stava, e ne rimase molto consolata (M V, 1, 10)».
Sembrerebbe che Teresa, quando si riferisce a Dio, voglia significare la scoperta di una presenza che è strutturata secondo un’esigenza metafisica del rapporto tra la creatura e il Creatore; invece, per esempio nella “settima dimora” e ancora nella redazione sesta del 1581, sembra che si tratti formalmente della Trinità. Nel primo capitolo della “settima dimora” si parla della presenza della Trinità, mentre nel secondo capitolo si parla della visione dell’umanità di Gesù Cristo: «Una volta introdotta in questa mansione, le si scoprono, in visione intellettuale, le tre Persone della santissima Trinità, come in una rappresentazione della verità, in mezzo ad un incendio, simile ad una nube risplendentissima che viene nel suo spirito. Le tre Persone si vedono distintamente, e l’anima, per una nozione ammirabile di cui viene favorita, conosce con certezza assoluta che tutte e tre sono una sola sostanza, una sola potenza, una sola sapienza, un solo Dio. Ciò che crediamo per fede, ella lo conosce quasi per vista, benché non con gli occhi del corpo, né con quelli dell’anima, non essendo visione immaginaria. Qui le tre Persone si comunicano con lei, le parlano e le fanno intendere le parole con cui il Signore disse nel Vangelo che Egli col Padre e con lo Spirito Santo scende ad abitare nell’anima che lo ama e osserva i suoi comandamenti (M VII, 1, 6)».
Ma, al secondo capitolo, sembra che questa visione sia quella che ha superato ormai l’umanità di Cristo, perché dice: «La prima volta che l’accorda, il Signore si compiace di mostrarsi all’anima nella sua Umanità sacratissima mediante una visione immaginaria affinché ella lo conosca e comprenda il gran dono che sta per farle. Forse ad altre persone si mostrò in altra forma; ma a quella di cui parliamo si presentò appena fatta la comunione, circonfuso di grande splendore, e le disse di esser tempo che ella si curasse delle cose di Lui come fossero sue proprie, mentre Egli s’interesserebbe delle sue. Ed aggiunse altre parole che sono più da sentire che da dire (M VII, 2, 1)».
Continua tuttavia a parlare del matrimonio spirituale, dove è messo in evidenza l’apparire al centro dell’anima dell’umanità di Gesù Cristo che dice Pax Vobis; sembrerebbe che questo sia solo il primo passo, mentre il passo definivo è quello della visione della Trinità. Per cui, quando si chiede chi è il Signore del castello, la risposta è in quest’ultimo senso. Giudicando dalla Vita e dal Cammino di perfezione (capitolo 28), anche e soprattutto nelle ultime tre dimore – con il simbolo del baco da seta che muore in Cristo, il simbolo dello Sposo, la difesa appassionata dell’umanità di Cristo (“sesta dimora”), il Pax Vobis – parrebbe che il Signore del castello, il Dio presente e operante, sia innanzitutto e sempre Cristo: il Cristo uomo-Dio, risorto e glorificato, rinvia permanentemente, da una parte, alla Trinità, dall’altra, alla sua passione. Questa specie di oscillazione non è in realtà un’oscillazione, perché il Figlio è Colui che rimanda al Padre, è Colui che consegna l’anima di Teresa al Padre; d’altra parte, il Figlio che viene nella comunione, quel Figlio che si è incarnato, permette al Padre di avere la gioia.
Tutto questo mette in evidenza che noi non abbiamo la rivelazione della Trinità, ma è nel comprendere chi è Gesù Cristo che noi arriviamo alla Trinità: Egli non può essere pensato se non come Colui che ha il suo riferimento ultimo al Padre e al dono dello Spirito Santo.
Nel Nuovo Testamento la parola Trinità non si trova perché è una parola del vocabolario cristiano; si trova invece il fatto che, per esprimere la realtà di Gesù Cristo, si deve includere, da una parte, il suo riferimento al Padre, dall’altra, il suo riferimento allo Spirito Santo: sono tre presenze distinte. In questo modo di farsi presente e di interessarsi a noi, questo Dio è uno, ma non alla maniera in cui noi pensiamo il numero uno aritmetico. L’unità di Dio è molto più ricca di quanto il concetto di “uno” riesca a dire: è l’unità singolare di Colui che dice: «Io Sono Colui che Sono», cioè: «Saprete chi sono da quello che farò». È un’unità aperta. Allora bisog...