Enciclopedia Sociologica dei Luoghi vol. 2
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Enciclopedia Sociologica dei Luoghi vol. 2

  1. 386 pagine
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Enciclopedia Sociologica dei Luoghi vol. 2

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L'Enciclopedia Sociologica dei Luoghi (ESL) si pone come occasione di ricerca e riflessione sul ruolo che i luoghi hanno avuto in passato e hanno tutt'ora nel dare forma alle città e segnare i destini dei suoi abitanti e fruitori. Il volume offre chiavi di lettura e coordinate teoriche, nonché presentazioni di casi utili a sviluppare ricerche situate, riducendo il livello di indifferenza nei confronti dei contesti spaziali che spesso caratterizza le ricerche sociologiche. Il termine enciclopedia sembra il più adatto a trasmettere l'idea di un lavoro in grado di toccare tanti luoghi: da quelli riguardanti i trasporti a quelli relativi il tempo libero, da quelli riferiti alla sicurezza pubblica a quelli inerenti il consumo, e via dicendo.

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Informazioni

Editore
Ledizioni
Anno
2020
ISBN
9788855263245

C
Campi e spazi d’accoglienza – Rosanna Castorina, Silvia Pitzalis
Cascina – Luca Bottini
Case Popolari – Alba Angelucci
Centri storici – Letizia Carrera
Campi e spazi dell’accoglienza.
Gestione umanitaria, contenimento
e controllo dei richiedenti asilo e dei rifugiati
di Rosanna Castorina, Silvia Pitzalis1
Questo contributo si articola in due parti. Nella prima si analizza la forma campo di tipo emergenziale ed umanitario, esponendo la sua evoluzione storica, la struttura e la funzione delle differenti forme d’insediamento destinate ad ospitare gli “incollocabili” (richiedenti asilo, rifugiati, internally displaced persons, ecc). Nella seconda parte si ripercorre la storia dei sistemi di accoglienza in Italia, analizzando i loro spazi di gestione e la loro organizzazione sociopolitica.
This contribution is divided into two parts. The first analyzes the emergency and humanitarian form of the camp, exposing its historical evolution, the structure and function of the different forms of settlement to house “unplaced people” (asylum seekers, refugees, internally displaced persons, etc.). The second part concerns the history of reception systems in Italy, analyzing their management spaces and socio-political organization.
  1. Campi e luoghi dell’accoglienza: sviluppi storici e caratteristiche generali
    I luoghi dell’accoglienza possono essere visti in linea di continuità con il paradigma della «forma campo» emergenziale/umanitaria. In termini generali, i campi sono luoghi destinati ad ospitare tutti coloro che sono in una condizione temporanea o permanente di incollocabilità (richiedenti asilo, titolari di protezione, internally dispaced persons, ecc.). Useremo dunque l’espressione «sistema campo» per intendere diverse tipologie di strutture e forme di confinamento/contenimento dei migranti arrivati informalmente sul territorio (Pinelli 2014, 2017a), comprendendo nell’analisi luoghi di detenzione, centri di accoglienza, di transito e di espulsione nei quali i richiedenti asilo, in attesa di esito della loro domanda di protezione, vengono trattenuti.
    Nell’era contemporanea, i campi furono istituiti per la prima volta dagli spagnoli a Cuba del 1896 e dagli inglesi nella guerra anglo-boera tra il 1898 e il 1901 (concentration camps). In entrambi i casi i campi si inquadrano nel contesto delle guerre coloniali e dello stato d’eccezione imposto al fine di separare e proteggere la popolazione dalle insurrezioni coloniali. Dunque, essi non nacquero con una finalità punitiva (non ospitavano i rivoltosi) ma di custodia preventiva, cioè erano concepiti come punti di accoglienza provvisoria (Rahola 2003) e luoghi di raccolta della popolazione. Erano luoghi organizzati «amministrativamente» al fine di garantire la sicurezza pubblica durante le operazioni militari di rappresaglia contro i rivoltosi. Tali luoghi inoltre furono organizzati sin dalle origini per accogliere civili che erano considerati stranieri in territori sui quali le potenze coloniali rivendicavano a pieno titolo la sovranità. Queste operazioni di reconcentration decretarono la nascita del diritto di ingerenza a scopo umanitario.
    La Prima guerra mondiale segna la comparsa dei campi in Europa. Questo fenomeno si accompagna al processo di nazionalizzazione/denazionalizzazione che contraddistinse la gestione dei flussi migratori e delle minoranze interne agli stati nel periodo tra le due guerre. Tra il 1914 e il 1916 alcuni stati europei come l’Olanda, l’Inghilterra e la Francia crearono campi di smistamento o di concentramento per soggetti accusati di minacciare, con la propria presenza, la sicurezza interna. Come sostiene Arendt (2004) i campi furono soprattutto luoghi nei quali rinchiudere gli individui incollocabili, cioè coloro che, a seguito di leggi speciali e di politiche emergenziali di denazionalizzazione – in quanto apolidi o in quanto minoranze interne ai confini di uno stato – furono privati della cittadinanza e considerati di conseguenza come stranieri interni.
    Pur nella loro incomparabilità, persino i campi di concentramento nazista scaturiscono dalle misure di sicurezza e dai provvedimenti emergenziali della Schutzhaft, la custodia preventiva, un istituto giuridico di derivazione prussiana che venne applicato a tempo indeterminato dopo l’incendio del Reichstag del 28 febbraio del 1933 per garantire la «protezione del popolo e dello Stato» tedeschi da tutti i nemici politici e «naturali» (Agamben 2005). Tale provvedimento contribuì a trasformare lo stato d’eccezione (Ibid.) in una misura permanente e il campo in un sistema concentrazionario concepito per dare la morte a coloro che erano considerati indegni di vivere.
    Agamben (2003) e Rahola (2003), pur sottolineando l’incomparabilità dei campi di concentramento e di sterminio nazista con i campi allestiti per accogliere individui denazionalizzati o pericolosi, evidenziano che esiste una sottile linea di continuità nel nesso che lega l’imperativo della protezione sociale alla sospensione dei diritti di coloro che risiedono nei campi.
    Il campo come luogo in cui confinare/assistere il rifugiato nasce nel secondo dopoguerra, con il sorgere della figura stessa del richiedente asilo. I movimenti di persone dovuti al termine della Guerra mettono a dura prova il sistema di accoglienza di allora (Colucci 2018). Tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Cinquanta nascono le agenzie internazionali umanitarie, prima tra tutte l’UNHCR (1948) – agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati – e vengono formalmente sanciti a livello internazionale i principi di universalità e d’inviolabilità dei diritti umani. Con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (10 dicembre 1948) e con la Convenzione Internazionale sullo statuto dei rifugiati (28 luglio 1951) si cerca di far fronte all’emergenza profughi del secondo dopoguerra e, in generale, si tenta di ripensare il rapporto tra sovranità nazionale e politiche di accoglienza. Vengono costituiti campi profughi, centri di smistamento e grandi strutture alloggiative di tipo collettivo in cui convivono persone con esperienze e traiettorie differenti (Salvatici 2008). Nel 1948 l’International Refugees Organization (IRO) organizza l’assistenza a 23.461 rifugiati in campi di medio-periodo, a 11.520 nelle strutture di breve periodo e a 11.941 persone fuori dai campi (Colucci 2018).
    Con la Convenzione di Ginevra, e soprattutto con il principio del non-refoulement, viene formalizzata a livello internazionale la figura del rifugiato, come soggetto a diverso titolo perseguitato dal paese di appartenenza. Tuttavia, la Convenzione limitava l’accoglienza alle persone che provenivano dai territori europei, riferendosi a coloro che scappavano dai regimi socialisti (riserva geografica) e circoscrivendo gli eventi scatenanti le cause della fuga a prima del 1° gennaio 1951 (riserva temporale) (Colucci 2018). Tale Convenzione rispecchiava il cambiamento degli equilibri internazionali tra le nazioni, sancendo il passaggio dall’ordine post-bellico alla guerra fredda. Con il Protocollo sullo statuto dei rifugiati, approvato il 31 gennaio 1967 a New York, si apre la possibilità di applicare il medesimo statuto a tutti i rifugiati compresi nella definizione espressa dalla Convenzione, senza tener conto della data limite del 1° gennaio 1951 (Petrović 2016).
    Per decenni il diritto d’asilo fu influenzato dagli equilibri bipolari e i rifugiati accolti dagli stati europei erano perlopiù individui che scappavano dall’Urss o dalle dittature latinoamericane degli anni Settanta. Il «diritto di Ginevra» costituì per decenni un argine alla ricomparsa dei campi in Europa.
    Tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta essi non spariscono del tutto ma tendono a decentrarsi, a uscire dai confini europei, riemergendo come risposta ai processi di decolonizzazione o come gestione politica del dissenso nei paesi del blocco sovietico e nella Jugoslavia di Tito.
    Nel corso degli anni Ottanta le richieste di asilo in Europa passano da 70 mila (nel 1983) a 200 mila (nel 1989), fino a raggiungere la quota di 700 mila nel 1992, durante la guerra in ex Jugoslavia (Rahola 2003). Una percentuale elevatissima di queste richieste rimase tuttavia inevasa e ciò cominciò a manifestare, negli anni Novanta, un progressivo sgretolamento dei principi regolativi e delle forme di legittimazione politica della figura del rifugiato. Tale trasformazione è l’esito di processi economici, politici e sociali che investirono l’Europa e l’intero pianeta nel periodo considerato: dalla crisi economica degli anni Settanta, alle politiche neoliberiste degli anni Ottanta, dal declino del sistema di produzione fordista alla nascita di un modello economico post-fordista.
    In questo rinnovato scenario internazionale i campi riemergono in due forme: come campi profughi nelle catastrofi umanitarie che hanno caratterizzato i più sanguinosi conflitti mondiali (ex Jugoslavia e Ruanda, solo per fare due esempi) e come luoghi di ricovero per asylum seekers in attesa di riconoscimento o in attesa di espulsione.
    Questi luoghi, organizzati come zones d’attente negli aeroporti, come campi di retention (Boano e Floris 2005), come centri di permanenza temporanea o come centri d’identificazione ed espulsione, in generale sono caratterizzati dalla più assoluta provvisorietà e hanno la funzione di dare una collocazione temporanea a soggetti considerati incollocabili, perché in attesa di espulsione o di riconoscimento dello status di rifugiato. Perlopiù, come vedremo, sono strutture dalle grandi dimensioni e sovraffollate, spesso ex-caserme o ex-carceri, all’interno delle quali i sentimenti di familiarità, privatezza e accoglienza sono secondari rispetto alle priorità di sicurezza e controllo.
    Secondo Rahola (2003) è possibile cogliere una continuità tra tutte le tipologie di campi citati in quanto si tratta di spazi nati ai margini di conflitti o di catastrofi naturali (es. rifugiati ambientali), in spazi di confine o comunque caratterizzati dal fatto di accogliere individui contraddistinti da uno statuto di liminarità giuridica (Mezzadra 2016). Si tratta di luoghi accomunati dal fatto di confinare l’eccedenza (Arendt 2004), in genere sottratti allo sguardo e alla significazione del pubblico.
    In questo contributo il concetto di «forma-campo» verrà analizzato soprattutto facendo riferimento alle strutture di accoglienza per richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale in Italia, dagli hotspot ai centri di prima e seconda accoglienza.
    In Italia la ge...

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  4. Nota Introduttiva
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  7. D
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  13. R
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