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Proviamo a immaginare una società dove bellezza e giustizia si incontrano, dove non ci sono convenzioni sociali come scuola, denaro, matrimoni e carceri e dove si respira eguaglianza tra i cittadini.Questo è l'esercizio che William Morris, scrittore, poeta ed artista inglese, ha portato avanti nel 1890 con questo romanzo utopico: l'invenzione del futuro. Il protagonista è William Guest, un militante socialista, che dopo una riunione finita con un'accesa discussione, torna a casa e si addormenta. Si sveglierà ben 113 anni dopo, nel XXI secolo, l'epoca in cui oggi viviamo. Dalla Londra di fine '800 si passa al 2003, dopo una rivoluzione negli anni '50 del 900 che ha radicalmente cambiato la società. Morris immagina il futuro per condannare il presente: lo fa con uno sguardo gentile ma capace di critiche profonde come la voglia di estirpare "inutili covi di speculazione" e "enormi fabbriche".Notizie da nessun luogo rappresenta una riflessione sull'uomo e sulla società e come tutte le utopie prevede tanto un approccio analitico quanto uno fantastico. Morris lo fa incentrando questo romanzo sui concetti di riduzione e semplificazione dei bisogni dell'uomo.

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Informazioni

Editore
Ledizioni
Anno
2020
ISBN
9788855263429
Argomento
Letteratura
Categoria
Fantascienza
CAPITOLO XVII. COME AVVENNE IL CAMBIAMENTO
Dick ruppe infine il silenzio: — Scusateci, ospite, se dopo pranzo non siamo troppo vivaci. Che cosa vorreste fare adesso? Tiriamo fuori dalla stalla Pelogrigio e ce ne torniamo al trotto fino ad Hammersmith? o preferite venire con noi a sentire alcuni Gallesi che cantano in una sala qui vicino? oppure vi piacerebbe andare subito con me alla City a vedere certi palazzi veramente belli? o... non so, che si potrebbe fare?
— Mah, — risposi — dato che sono straniero, devo per forza lasciar decidere a voi.
A dir la verità, in quel momento non avevo proprio nessuna intenzione di «divertirmi»; e poi, avevo quasi l’impressione che quel vecchio, con tutta la sua conoscenza del passato (un passato per il quale era arrivato persino a provare una specie di simpatia, scaturita per assurdo dal suo vivo odio per esso), fosse per me come una coperta contro il gelo di quel mondo nuovissimo, in cui mi trovavo, per così dire, completamente nudo, privato com’ero d’ogni pensiero e modo di agire abituali; perciò non volevo lasciarlo troppo presto. Ed egli mi venne subito in aiuto:
— Aspetta un attimo, Dick, — disse — c’è ancora qualcun altro da consultare prima di te e del nostro ospite, e quello sono io. Non ho la minima intenzione di perdere proprio ora il piacere della sua compagnia, soprattutto perché so che ha ancora delle domande da pormi. Perciò voi andate pure dai vostri Gallesi, ma prima di tutto portateci un’altra bottiglia di vino in questo cantuccio, e poi andate dove vi pare; dopo, verrete a riprendere il nostro amico per portarlo verso occidente. Ma non tornate troppo presto. — Dick annuì sorridendo. Rimasi ben presto solo col vecchio nella grande sala, mentre il sole del pomeriggio si rifletteva sul vino rosso dei nostri alti bicchieri di forma insolita.
Poi Hammond mi domandò: — C’è ancora qualcosa che vi rende particolarmente perplesso sul nostro modo di vivere, ora che ne avete sentito parlare abbastanza a lungo e in parte lo avete anche visto con i vostri occhi?
— Quello che riesco a spiegarmi di meno è come si sia verificato tutto ciò.
— È naturale, visto che il cambiamento è stato cosi grande. Sarebbe molto difficile raccontarvi tutta la storia, forse impossibile: la presa di coscienza, lo scontento, l’inganno, la delusione, la rovina, la miseria, la disperazione... Coloro che si impegnarono per trasformare la società passarono attraverso tutte queste fasi della sofferenza, perché erano in grado di spingere il loro sguardo più lontano degli altri. E per tutto quel tempo, senza dubbio, la maggior parte della gente si limitò ad assistere, senza rendersi conto di ciò che stava accadendo, pensando che tutto rientrasse nell’ordine naturale delle cose, come il sorgere e il calar del sole... E in verità era proprio così.
— Ditemi una cosa, se potete: il cambiamento, la «rivoluzione» come veniva chiamata, avvenne pacificamente?
— Pacificamente? — ripeté — quale pace poteva esserci fra quei poveri disgraziati, completamente avviliti, del secolo XIX? Ci fu guerra dal principio alla fine: una guerra aspra, che durò fino a quando la speranza e la felicità sopravvennero a farla cessare.
— Ma intendete parlare di vere e proprie battaglie combattute con le armi, oppure di scioperi, di serrate e della miseria più nera di cui si sia mai sentito parlare?
— Di tutti e due, — rispose — di tutti e due. In realtà, l’intera storia di quel tremendo periodo di transizione dalla schiavitù mercantile alla libertà si può riassumere così: quando, verso la fine del secolo XIX, sorse la speranza di realizzare per tutti condizioni di vita comunitaria, la potenza della classe media, che allora tiranneggiava la società, era così enorme e schiacciante, che quella stessa speranza sembrava un sogno quasi a tutti, persino a coloro, lo si può ben dire, che, superando se stessi e il loro più sensato discernimento, l’avevano concepita. E questo è talmente vero che alcuni fra gli uomini più illuminati, che allora venivano chiamati «socialisti», pur essendo profondamente convinti e dichiarando in pubblico che l’unica condizione ragionevole di vita per la società era quella del comunismo puro (tale quale lo vedete ora intorno a voi), rifuggivano da quello che sembrava loro l’impegno sterile di predicare la realizzazione di un bel sogno. Guardando oggi al passato, possiamo vedere che la grande forza del cambiamento fu l’ardente bisogno di uguaglianza e di libertà, paragonabile, se credete, alla passione irrazionale dell’amore; una disperazione che rifiutava con disgusto la vita individualistica e senza scopo dell’uomo colto e per bene del tempo: tutte frasi, mio caro amico, che per noi oggi hanno perso il loro significato, tanto siamo lontani ormai dalla situazione tremenda che esse esprimono. Questi uomini, dicevo, pur avendo coscienza di queste aspirazioni, non vi prestavano la minima fiducia, non ritenendole mezzi validi per dar vita a un cambiamento. E la cosa non deve neppure meravigliarci, perché, guardandosi attorno, scorgevano la massa smisurata delle classi oppresse, troppo soffocate dallo squallore della propria vita, troppo schiacciate dall’egoismo generato dalla miseria per essere in grado di concepire una qualunque forma di liberazione che non fosse quella prescritta dal sistema stesso di schiavitù sotto il quale vivevano, cioè nulla più che una remota possibilità di arrampicarsi dalla classe degli oppressi a quella degli oppressori. Perciò, pur sapendo che l’unica aspirazione sensata per coloro che volevano migliorare il mondo era una condizione di uguaglianza, divorati dall’impazienza e dalla disperazione, avevano cercato di convincersi che, se fossero riusciti con le buone o con le cattive a modificare efficacemente il meccanismo della produzione e la gestione della proprietà, le «classi inferiori» (era questo l’orribile termine che si usava) avrebbero potuto in qualche modo alleviare la propria schiavitù e sarebbero state in grado di introdursi anch’esse in questo ingranaggio e di sfruttarlo per migliorare sempre più le proprie condizioni di vita, finché si sarebbe raggiunta un’eguaglianza reale (amavano molto usare la parola «reale»). Infatti il «ricco» sarebbe stato costretto a pagare talmente cara la possibilità per il «povero» di vivere in condizioni sopportabili, che lo stesso ruolo di «ricco» si sarebbe ben presto svalutato fino ad estinguersi gradatamente. Riuscite a seguirmi?
— In parte — risposi. — Continuate.
— Bene, visto che mi seguite, vi renderete conto che, come teoria, tutto sommato non era assurda, ma in «realtà» si dimostrò un fallimento.
— Come mai?
— Ma non capite? Ciò significava lasciare la costruzione di un meccanismo nelle mani di persone che non sapevano nemmeno quello che avrebbero voluto ricavarne. Finché le masse degli oppressi perseguirono questo piano di miglioramento, per molti di loro si trattò soltanto di ottenere delle razioni da schiavo migliorate. E se tali classi non fossero state in grado di sentirsi stimolate da quell’anelito istintivo per la libertà e l’uguaglianza, cui accennavo prima, tutto, secondo me, si sarebbe ridotto essenzialmente a questo: una parte della classe lavoratrice avrebbe migliorato le proprie condizioni fino ad avvicinarsi a quelle della media borghesia, ma al di sotto sarebbe rimasta un’enorme massa di schiavi ancora più poveri e oppressi e in condizioni più disperate di quelle dell’antica schiavitù di classe.
— E cosa riuscì a impedirlo? — domandai.
— Senza dubbio, proprio quell’istinto di libertà di cui parlavamo. È vero che gli schiavi non potevano concepire la felicità di una vita libera, ma arrivarono a capire (e anche molto in fretta) che erano oppressi dai loro padroni; quindi si resero conto (e voi stesso vedete quanto fossero nel giusto!) che avrebbero potuto farne a meno, anche se forse non sapevano bene come. Di conseguenza, anche se non riuscirono a spingere lo sguardo fino alla felicità e alla pace di un’umanità libera, tuttavia intravedevano almeno la possibilità di una guerra, con la vaga speranza che questa avrebbe condotto alla pace.
— Potete spiegarmi un po’ più chiaramente che cosa accadde in realtà? — domandai, perché mi sembrò che su questo punto il vecchio fosse piuttosto vago.
— Certo che posso — rispose. — Il sistema di vita nelle mani di gente che non sapeva come usarlo, noto a quel tempo col nome di «socialismo di Stato», fu parzialmente adottato, anche se in maniera molto frammentaria. Ma non funzionò senza scosse; naturalmente, ad ogni occasione veniva ostacolato dai capitalisti, né la cosa deve stupire, perché esso tendeva a scalzare sempre di più il regime del profitto, di cui vi ho già parlato, senza sostituirvi nulla di veramente efficace. Ne risultò una confusione crescente, con gravi sofferenze per la classe lavoratrice e, in conseguenza, un malcontento generale. Si andò avanti così per molto tempo. Il potere delle classi alte era diminuito col diminuire del loro monopolio sulla ricchezza ed esse non potevano più trattare le cose con la stessa arroganza usata in passato. E fin qua i socialisti di Stato erano giustificati dal risultato ottenuto42.
Ma, d’altra parte, le classi lavoratrici erano male organizzate e in realtà stavano diventando sempre più povere, nonostante i concreti vantaggi che alla lunga erano riuscite a strappare ai padroni. In questo modo le cose si bilanciavano: i padroni non potevano ridurre i loro schiavi a uno stato di sottomissione completa, anche se riuscivano a sedare abbastanza facilmente qualche sommossa debole e circoscritta; dal canto loro, i lavoratori potevano obbligare i padroni a concedere qualche miglioramento delle loro condizioni, reale o fittizio che fosse, ma non certo a dar loro la libertà. Alla fine si ebbe il grande crollo43. Per potervelo spiegare bisogna che vi rendiate conto dei grandi progressi compiuti dalle classi lavoratrici, anche se, come ho detto prima, riguardavano migliori condizioni di vita.
Feci l’ingenuo: — E in che cosa potevano far progressi, se non nelle condizioni di vita?
— Nella capacità di stabilire uno stato di cose in cui i mezzi di sussistenza sarebbero stati abbondanti e facili da ottenere. Dopo un lungo periodo di errori e di sconfitte, avevano finalmente imparato a essere solidali. I lavoratori disponevano ora di una regolare organizzazione nella lotta contro i padroni, una lotta che per più di mezzo secolo era stata accettata come condizione inevitabile dal moderno sistema produttivo. Questa solidarietà aveva ora preso la forma di una confederazione di tutti, o quasi tutti, i lavoratori salariati, e fu proprio grazie a tale unione che i miglioramenti delle condizioni dei lavoratori furono strappati ai padroni. Ma anche se i lavoratori, soprattutto nei primi tempi della loro organizzazione, non di rado prendevano parte ai tumulti che scoppiavano, tuttavia questi non costituivano in alcun modo un aspetto essenziale della loro tattica; a dir la verità, nel periodo di cui sto parlando, erano riusciti a diventare così forti, che il più delle volte la sola minaccia di uno sciopero era sufficiente per ottenere qualche piccolo miglioramento. Essi infatti avevano abbandonato l’assurda tattica dei vecchi sindacati di far scioperare solo una parte di operai di questa o quella fabbrica, dando loro di che vivere durante l’astensione dal lavoro col salario di quelli che invece non scioperavano. In quel periodo disponevano di un considerevole fondo monetario per finanziare gli scioperi e, se lo avevano deciso, potevano addirittura bloccare temporaneamente tutta un’industria.
— Ma non c’era pericolo che questo denaro venisse usato male, o addirittura vi si speculasse sopra? — obiettai.
Il vecchio Hammond si agitò un po’ a disagio nella poltrona: — Anche se tutto ciò è accaduto tanto tempo fa, mi vergogno ancora profondamente a dirvi che non era solo un rischio: disonestà di tal genere si verificarono spesso, e per questo motivo più di una volta sembrò che l’intera organizzazione dovesse sfaldarsi. Ma nel periodo in questione la situazione pareva così minacciosa e ai lavoratori sembrò così evidente perlomeno l’urgenza di affrontare le difficoltà crescenti suscitate dalla lotta sindacale, che in ogni persona ragionevole si sviluppò un profondo senso di responsabilità. Questo fece accantonare tutto ciò che non era essenziale e agli uomini riflessivi apparve come un presagio del rapido avvicinarsi del cambiamento. Questo fenomeno era troppo pericoloso per coloro che non erano altro che traditori ed egoisti: uno dopo l’altro furono messi al bando e, per la maggior parte, andarono a ingrossare le file dei reazionari dichiarati.
— Ma quei miglioramenti — dissi — in che cosa consistevano, o meglio, di che natura erano?
— Alcuni, soprattutto quelli che avevano la maggiore importanza pratica per le condizioni di vita della gente, furono concessi dai padroni sotto la pressione diretta dei lavoratori; le nuove condizioni di lavoro così ottenute erano in realtà solo contrattuali e non sancite da alcuna legge; però, una volta concesse, i padroni non osavano ritrattarle, di fronte al potere sempre più forte dei lavoratori uniti. Altri miglioramenti furono invece veri e propri passi avanti sulla strada del «socialismo di Stato», di cui possiamo riassumere in breve gli aspetti più importanti. Alla fine del secolo XIX si levò una pubblica protesta per costringere i datori di lavoro a ridurre la giornata lavorativa dei loro operai: questa protesta divampò velocemente e i padroni dovettero cedere. Naturalmente era chiaro che, se ciò non implicava un aumento di salario per ogni ora lavorativa, il provvedimento sarebbe stato del tutto inutile, e tale lo avrebbero reso i padroni, se non avessero incontrato la resistenza dei lavoratori. Perciò, dopo una lunga lotta, fu varata un’altra legge, che fissava il limite minimo del salario nelle industrie più importanti; ma neppure questa bastava: se ne dovette fare un’altra per stabilire il prezzo massimo delle merci più importanti, allora ritenute di prima necessità per un lavoratore.
— La situazione che state descrivendo si avvicina pericolosamente a quella che suggerì le leggi per l’assistenza ai poveri della romanità e la distribuzione del pane alla plebe — dissi sorridendo.
— Infatti a quel tempo questa era l’opinione di molti — tagliò corto il vecchio — ed era ormai un luogo comune che, se il «socialismo di Stato» era destinato a morire, si sarebbe certamente arenato in quel pantano; ma quello, come sapete, non è il nostro caso. Comunque, si andò ancora oltre quella questione del minimo e del massimo, che fra l’altro, dobbiamo riconoscerlo, era necessaria. Il governo infatti fu costretto ad affrontare lo scalpore delle proteste della classe dominante, che sentiva avvicinarsi il crollo del sistema mercantile: un crollo che (finalmente l’avevano capito!) era tanto auspicabile quanto la fine del colera e che fortunatamente avvenne di lì a poco. A questo scopo si dovettero adottare misure ostili ai padroni, come la costruzione di officine di Stato per produrre merci di prima necessità e di mercati per la loro vendita. Tali misure, nel loro insieme, ottennero qualche effetto, perché avevano molto in comune con le disposizioni prese dal comandante di una città assediata. Naturalmente, quando queste leggi furono decretate, alla classe privilegiata sembrò che stesse per venire la fine del mondo, cosa che, d’altra parte, non era poi del tutto priva di fondamento. Il diffondersi delle teorie comuniste e l’attuazione parziale del socialismo di Stat...

Indice dei contenuti

  1. Notizie da nessun luogo
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Prefazione di Carlo Pagetti
  5. Capitolo I. Discussione, e poi a letto
  6. Capitolo II. Un bagno mattutino
  7. Capitolo III. Colazione nella casa degli ospiti
  8. Capitolo IV. Un mercato lungo il cammino
  9. Capitolo V. I bambini per strada
  10. Capitolo VI. Piccoli acquisti
  11. Capitolo VII. Trafalgar Square
  12. Capitolo VIII. Un vecchio amico
  13. Capitolo IX. Sull'amore
  14. Capitolo X. Domande e risposte
  15. Capitolo XI. Il governo
  16. Capitolo XII. Sistema di vita
  17. Capitolo XIII. La politica
  18. Capitolo XIV. Metodi di organizzazione
  19. Capitolo XV. Sulla carenza di incentivi al lavoro in una società comunista
  20. Capitolo XVI. Pranzo nella sala del mercato di Bloombsbury
  21. Capitolo XVII. Come avvenne il cambiamento
  22. Capitolo XVIII. L'alba della nuova vita
  23. Capitolo XIX. Ritorno ad Hammersmith
  24. Capitolo XX. Hammersmith: ancora la casa degli ospiti
  25. Capitolo XXI. Risalendo il fiume
  26. Capitolo XXII. Hampton Court e un nostalgico del passato
  27. Capitolo XXIII. Prime ore del mattino a Runnymede
  28. Capitolo XXIV. Una seconda giornata sul Tamigi
  29. Capitolo XXV. Terzo giorno sul Tamigi
  30. Capitolo XXVI. Gli ostinati oppositori
  31. Capitolo XXVII. L'alto Tamigi
  32. Capitolo XXVIII. Il fiume si restringe
  33. Capitolo XXXIV. Sosta riposante sull'alto Tamigi
  34. Capitolo XXX. Fine del viaggio
  35. Capitolo XXXI. Casa vecchia per gente nuova
  36. Capitolo XXXII. L'inizio del banchetto... La fine
  37. La collana