Il giovane Čechov, finalmente!
di Giuseppe Ghini
I venticinque racconti qui presentati costituiscono una novità assoluta per il lettore italiano. Essi vennero pubblicati sotto vari pseudonimi su riviste umoristiche che pagavano un tanto a riga tra il 1881 e il 1887, quando Čechov frequentava, bigamo impenitente, la «legittima moglie – la medicina, e l’amante – la letteratura»1. Di fatto, dopo essersi laureato in medicina all’Università di Mosca nel 1884, esercitò la professione in modo più o meno continuativo fino al 1898, prima in ospedali di provincia, poi privatamente. Nel frattempo, anche grazie all’abbandono dell’attività creativa da parte di Tolstoj, era diventato lo scrittore russo più conosciuto e più importante.
Ma questa è una storia nota. Quello che è meno noto, invece, è che, all’apice della sua fama, nel 1899, lo scrittore firmò un contratto con uno dei maggiori editori russi, Adol’f Marks, e gli vendette i diritti su tutte le sue opere. Si impegnò contestualmente a fornirgli tutti i suoi racconti (circa 750) e a selezionarne 250 per la pubblicazione. Ciò che fece con rapidità sorprendente, nel giro di pochi mesi2.
Ora, nell’approntare questi racconti per la Raccolta completa delle opere dell’editore Marks (1899-1902), Čechov operò una revisione spesso drastica dei suoi racconti giovanili: tagliò o aggiunse scene, cambiò nomi e finali, modificò completamente lo stile e il tono, scrivendo una seconda versione che sovente ha in comune con la prima solo il soggetto del racconto. La tradizione testuale – soprattutto i filologi russi che, tra il 1974 e il 1982, hanno approntato l’edizione critica delle opere dello scrittore – ha poi consacrato questa seconda versione, declassando la prima a «variante preparatoria». In questo modo, il «giovane Čechov» si è perso nell’editoria russa, nelle storie della letteratura, ma soprattutto nelle traduzioni, e non solo in quelle italiane. È successo infatti che i Racconti del giovane Čechov siano stati regolarmente presentati nella versione del 1899 e non in quella degli anni Ottanta dell’800, rendendo pertanto impossibile ricostruire il percorso di Čechov scrittore dalla gioventù alla maturità.
Ma in cosa differiscono queste versioni da quelle successive? È lecito parlare di versioni autonome?
Anzitutto occorre fugare un dubbio che potrebbe sorgere dalla straordinaria capacità di lavoro di Čechov. Com’è stato dimostrato da Nikolaj Fortunatov (1996: 22) oltre vent’anni fa, il mito di un Čechov capace di scrivere su qualunque tema con rapidità straordinaria e soprattutto con leggerezza e superficialità è, appunto, un mito. La sua scrittura, come dimostra per esempio il lavorio sulle bozze di stampa, era frutto di un’applicazione indefessa, di una strategia intenzionale: altro che penna facile! Già nel 1886, peraltro, Čechov era in grado di suggerire al fratello aspirante scrittore i princìpi che dovrebbero governare la composizione di un racconto breve, quello che gli anglosassoni chiamano short story: «1) rifuggire dalle lunghe tirate di natura politica, economica, sociale; 2) attenersi a un’obiettività integrale; 3) ricercare la veridicità nella descrizione dei personaggi e degli oggetti; 4) ricercare una speciale concisione; 5) avere coraggio e originalità rifuggendo dagli stereotipi; 6) immettere calore nella narrazione»3.
Veniamo con ciò alle differenze tra le versioni del giovane Čechov e quelle da lui rielaborate nel 1899. La prima vera e propria campagna di correzione consiste nell’abolizione di una grande quantità di espressioni gergali, popolari, regionali, in francese maccheronico, di termini offensivi e abbassanti, di canzonature e sgrammaticature, di fraseologismi, neologismi e proverbi che rendevano i racconti assai vivi, legati alla lingua del tempo, più immediatamente umoristici. Cogliendo qualche esempio dai vari racconti, il cognome Gemofilov, chiaramente allusivo all’emofilia, viene sostituito con l’altisonante Fenogenov (versione popolare di Teogene, nato da Dio), come pure l’offensivo Pjatirylov (Cinquegrugni) diventa il neutrale Pjatigorov (Cinquemonti). Queste espressioni colorite si sono mantenute nella traduzione, dove il lettore troverà dunque «avvantaggio, comunansa, revoltella» e così via. Almeno altri sette racconti vengono bonificati dei termini offensivi, tra i quali l’ultimo, dove il «satrapo» persiano diventa un distinto «uomo di Stato».
La stessa cosa vale per il linguaggio dei gesti. L’ultimo racconto di questa raccolta, per esempio, si conclude con il podestà di una cittadina russa che fa un gesto irriverente, le cosiddette fica. Pur avendo chiare origini sessuali, questo gesto, che consiste nel mostrare il pollice che spunta tra medio e indice, è stato derubricato nella pragmatica comunicativa russa a gesto infantile, più o meno come l’italiano «fare la lingua». È uno sberleffo, quello sberleffo liberatorio con cui i bambini riequilibrano le loro piccole ingiustizie. Nella versione del racconto del 1899 le fica vengono abolite e al loro posto compare l’insensata ricerca di una nuova onorificenza da parte del podestà. Lo sberleffo infantile è cioè sostituito da un’assurda coazione a ripetere: la giustizia non è più riequilibrata, prevale invece il comportamento ossessivo e insensato. Lo stesso gesto compare qui nel racconto Noli me tangere, il cui titolo verrà cambiato in La maschera per l’edizione pubblicata nel 1900 e in cui verrà nuovamente eliminato il gesto di sberleffo. Resta invece nel finale del Cognome equino, che non a caso mantiene il suo carattere di aneddoto umoristico, quasi di sketch, anche nell’ultima versione.
Anche il Ragazzo cattivo nella versione del 1883 si conclude con una piccola ritorsione liberatoria e con l’espressione altrettanto liberatoria «Dolce è la vendetta». Quando verrà rivista da Čechov nel 1899, questa esplosione di rabbia immediata, che secondo molti psicologi è comparabile a una piccola catarsi emotiva, verrà sostituita da una vendetta coltivata assai più a lungo, quella vendetta a freddo che non provoca nessun senso di sollievo o di soddisfazione4. E la frase finale verrà conseguentemente tolta.
A proposito della patologica coazione a ripetere, essa non appare una sola volta nelle ultime versioni dei racconti. Čechov la introduce infatti nelle ultime redazioni del Processo e Dramma dal barbiere, come a segnalare in questi comportamenti ossessivi una caratteristica della vita russa di fine dell’Ottocento o forse, semplicemente, l’assurdità del vivere. Con Cinquegrugni, Gemofilov e altre analoghe espressioni di sapore gogoliano si perde, naturalmente, anche il tono umoristico di diversi racconti.
La seconda differenza riguarda decine e decine di realia che agganciano i racconti alla vita e alla società del tempo, nomi e soprannomi di persone, cose, villaggi, riviste, leggi e usanze, scrittori, attori, figure tipiche; sparisce il villaggio russo, avanza l’anonima burocrazia zarista, ma anche la morale universale del racconto čechoviano. Di nuovo, prendendo qualche esempio qua e là, scompare il nome del piroscafo nel racconto In mare, il riferimento all’articolo 119 del Codice penale nel racconto successivo, vengono soppressi il nome del liquore Monachor, del profumo Ylang Ylang, del libro Le donne e delle Mémoires de Robert Macaire, come pure i riferimenti alle pietanze francesi alla moda. Più significative, però, sono le soppressioni dei riferimenti allo zemstvo (l’organo di autogoverno locale introdotto da Alessandro II nel 1864) e al villaggio russo con le sue figure tipiche: la fëkla del racconto L’album e il duren’ božij (il folle di Dio) di Sensazioni forti.
La terza differenza riproduce quella trasformazione dell’aneddoto in apologo che Vittorio Strada ha notato a proposito dell’evoluzione generale del racconto čechoviano. Questo avviene, per esempio, nei racconti È primavera! e Sensazioni forti, dove l’autore aggiunge nel 1899 una sorta di morale conclusiva quasi a rimarcare questa trasformazione. «Il passaggio dai racconti “novellistici” del primo periodo a quelli “romanzeschi” della seconda fase – scrive lo slavista recentemente scomparso – consiste nel fatto che l’“errore” nel primo caso è un evento singolo (un vero e proprio equivoco) e come tale comico, mentre nel secondo caso è di carattere generale (una vera propria illusione) e quindi di valore drammatico»5.
Qui è la stessa cosa. L’umorismo «ingenuo» delle prime versioni era legato all’aneddoto, al qui pro quo, alle figure maniacali. Questo umorismo da scenetta – e non a caso Scenetta e Quadretto sono i frequenti sottotitoli che scompariranno poi nella Raccolta Marks – trapassa nelle seconde versioni in critica esistenziale, nel peso sull’anima dei personaggi del Čechov maturo, nella classica atmosfera čechoviana. Emblematico è il confronto tra le due versioni di Il grasso e il magro, ma anche la fissazione del Corredo, che da storia di una mania, come recita il sottotitolo poi soppresso, diventa invece letteralmente un «peso sull’anima».
Nel 1899 Čechov inserisce dunque in molti racconti quei caratteri che hanno reso le sue opere così originali e così anticipatrici della crisi esistenziale della modernità: la perdita di speranza, la solitudine dei personaggi, il rimando a un’altra vita la cui realizzazione è sempre posticipata6, la percezione della vita presente come scacco esistenziale, come trappola, come il sentirsi «non a casa». Unhomeliness è il termine sintetico utilizzato recentemente da alcuni studiosi di Čechov7, termine che si potrebbe tradurre con l’essere spatriato, nel senso che il mondo cessa di essere una madrepatria, una casa accogliente, e diventa appunto una trappola. Da questo punto di vista sono indicative le modifiche apportate dallo scrittore a Scherzetto, soprattutto, ovviamente, la modifica del finale, dove l’happy end matrimoniale lascia il posto a due percorsi esistenziali immotivatamente separati. Ma anche Lezioni care, dove la perdita di speranza dell’...