Dalle lettere di don Augusto
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Dalle lettere di don Augusto

Come rimanere cattolici nonostante tutto

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Dalle lettere di don Augusto

Come rimanere cattolici nonostante tutto

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Cosa succede quando un sacerdote viene spostato dal suo paesello alla città, «a riposarsi» in una grande parrocchia, sentendosi disarmato di fronte alle sfide del mondo contemporaneo e all'insensibilità di alcuni suoi parrocchianiCarta e penna e inizia una corrispondenza con il suo «caro e buon Gesù» per esprimere i dubbi, ma anche per chiedere consiglio e comprendere dove si nasconde la Verità.

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Informazioni

Editore
Ares
Anno
2020
ISBN
9788881559602

Samuele Pinna

Dalle lettere di don Augusto

Come rimanere cattolici nonostante tutto

Presentazione di Paolo Gulisano

Postfazione di Enrico Beruschi

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Presentazione

di Paolo Gulisano

«La serietà non è una virtù»
(G.K. Chesterton)
Caro Lettore,
ti starai chiedendo senz’altro chi sia questo don Augusto di cui parla il titolo del libro.
Imparerai presto a conoscerlo, e sono sicuro che questo sacerdote diventerà per te padre, maestro e amico. Don Augusto sembra essere uscito dallo stesso Seminario che a suo tempo frequentarono due sacerdoti come don Camillo e padre Brown. Un buon Seminario, dove impararono a coltivare e praticare le buone virtù cristiane.
Tra queste, una che oggi è un po’ dimenticata: l’eutrapelia. Sì, avete letto bene. Che parola è? Si tratta nientemeno che di una virtù di cui parlarono i grandi filosofi greci, come Aristotele, e che poi divenne una virtù cristiana, cara a san Tommaso d’Aquino, a san Filippo Neri, a san Francesco di Sales, a san Giovanni Bosco.
Ne parlò addirittura Dante Alighieri nel Convivio, definendola come la decima virtù del cristiano, la penultima prima della giustizia e dopo la fortezza, temperanza, liberalità, magnificenza, magnanimità, amativa d’onore, mansuetudine, affabilità, verità: «La decima – scrive l’Alighieri – si è chiamata eu­trapelia, la quale modera noi ne li sollazzi facendo, quelli usando debitamente». Quindi questa antica parola, oggi purtroppo dimenticata (dal greco: “gaiezza, scherzosità, buon umore”), indica una virtù importante, che si è tradotta anche in arte, un’arte particolare, che grazie al cielo non passa mai di moda da secoli, e che si esprime attraverso la letteratura, il teatro, il disegno e altro ancora. È l’arte del far ridere. L’umorismo buono, molto diverso dalla satira, che consiste non tanto nel ridere quanto nel deridere.
L’eutrapelia è una virtù che andrebbe recuperata, in un tempo che oscilla tra una superba seriosità piena di sé e una satira cattiva, corrosiva. Predomina insomma lo sghignazzo sboccato, là dove avremmo invece bisogno di un sorriso buono. L’eutrapelia è una virtù imparentata con la modestia: ci aiuta a non darci troppa importanza e a non montare in superbia.
Chesterton, un grande eutrapelico, diceva che il motivo per cui gli angeli volano è che si prendono alla leggera. Il divertimento, quindi, non è un fine, ma un mezzo per migliorarci: la virtù del buon umore ci dona quella forma di distacco e di eleganza spirituale che consente di cogliere e di apprezzare i lati giocosi della vita: virtù di santi, di mistici e di tutti coloro che non esitano a lanciarsi con entusiasmo nella risposta all’invito di Cristo. L’umorismo è una realtà specificamente umana: la sua essenza risiede nel legame profondo con l’emotività, con l’interiorità più atavica e istintuale dell’uomo.
Tra i santi, grande esempio di questa virtù è stato san Francesco di Sales, che nella sua Filotea precisava le caratteristiche di un buon umorismo cristiano, che in primo luogo deve allietare il cuore e non offendere nessuno. Uno dei difetti peggiori dello spirito è quello di essere beffardo: Dio odia molto questo vizio e sappiamo che lo ha punito con castighi esemplari. Nessuna perversione è così contraria alla carità, e più ancora alla devozione, quanto il disprezzo e la de­risione del prossimo. La derisione e la beffa infatti si fondano sulla presunzione di sé e sul disprezzo per gli altri, e questo è un peccato molto grave.
Cosa molto diversa sono le battute scherzose tra amici, che si fanno in allegria e gioia serena: «Si tratta – dice Francesco di Sales – di prendersi una onesta e amabile ricreazione sulle situazioni buffe cui i difetti degli uomini danno occasione. Bisogna soltanto stare attenti a non passare dagli scherzi sereni alla derisione. La derisione provoca al riso per mancanza di stima e per disprezzo del prossimo; invece la battuta allegra e la burla scherzosa provocano al riso per la “trovata”, gli accostamenti imprevedibili fatti in confidenza e schiettezza amichevole; e sempre con molta cortesia di linguaggio».
Si direbbe che scrittori cristiani ricchi di buon umore come Giovannino Guareschi, il creatore di don Camillo e Peppone, o il Chesterton di padre Brown, o lo scrittore scozzese Bruce Marshall, siano stati allievi diligenti di Francesco di Sales o di Giovanni Bosco. A loro oggi si aggiunge il don Augusto raccontato da un sacerdote-scrittore o­riginalissimo come don Samuele Pinna, un teologo che non disdegna i film di Bud Spencer, le fiction di don Matteo, le letture di Chesterton, Tolkien e Guareschi, autentici pilastri di una letteratura con l’anima.
Sia don Samuele che il suo alter ego don Augusto sono cultori della virtù dell’eutrapelia, anzi si potrebbe dire che in loro è connaturata. Nelle lettere di don Augusto, che vediamo alle prese con le vicende belle e tristi di ogni giorno, di ogni par­rocchia, di ogni famiglia, vediamo manifestata la tranquillità inalterabile della sua anima.
Oltre a don Camillo e padre Brown come figure ispiratrici di questa nuova figura di prete letterario, c’è forse anche un altro scrittore il cui ricordo fa capolino in questo libro: Clive Staple Lewis, il grande convertito anglo-irlandese, autore di un piccolo capolavoro come Le Lettere di Berlicche, un epistolario immaginario tra un giovane diavolo tentatore e suo zio, un personaggio importante della gerarchia infernale.
Bene, le lettere di don Augusto possono essere considerate l’altra faccia della medaglia dell’opera di C. S. Lewis.
Il professore britannico aveva fatto una coraggiosa incursione nel territorio del Nemico, per osservarne il modo di agire, per studiarne le strategie, e per svelare al lettore le furbe arti seduttrici del male. Don Augusto, invece, ci mostra le vie del Bene, le modalità con cui può essere fatto, e quanto sia buono e desiderabile vivere ricercando la Verità, che è incontrabile nella risata buona, nel buon umore. Si potrebbe dire che In risu Veritas.
A chi dice che il Cristianesimo è noioso, che è un insieme di regole morali che hanno tolto all’uomo la felicità e i piaceri che sarebbero (il condizionale è d’obbligo) venuti a lui dall’antico paganesimo, si può rispondere con la gioia di vivere dei santi, che dimostrano che la vita è bella, anche quando ci appare dura, anche quando ci ferisce, anche quando ci sembra una partita persa, perché ha un senso.
La tristezza è l’ombra del diavolo: per cacciarla via sarà molto utile una buona dose di eutrapelia.
Come dice don Augusto: «Davanti a un mondo al contrario che cosa possiamo fare? Rimanere liberi e fedeli».
Paolo Gulisano
«La Chiesa è intransigente sui principi, perché crede, ma è tollerante nella pratica, perché ama. I nemici della Chiesa sono tolleranti sui principi, perché non credono, ma intransigenti nella pratica, perché non amano»
Réginald Garrigou Lagrange
«La sventura primaria e più grave che affligge il sapere e la mentalità della nostra epoca non è la perdita della fede: è il deteriorarsi o addirittura lo smarrimento della sanità mentale. “Con tutti i loro ragionamenti sono diventati vuoti di verità”: il giudizio impietoso dell’apostolo Paolo sulla prestigiosa “sapienza” greca è anche una profezia su molte espressioni della cultura contemporanea»
Giacomo Biffi

Avvertenze prima dell’uso

«Non muoio neanche se mi ammazzano!»
(Giovannino Guareschi)
«Non ho alcun dubbio: ho meritato i miei nemici.
Ma non sono sicuro di aver meritato i miei amici»
(Walt Whitman)
Queste lettere, frutto della fantasia e di qualche mez­z’o­ra libera nel corso della settimana, sono scritte con intento umoristico, che a dire di Giovannino Guareschi «riesce (più o meno bene) a fare lunghi discorsi con pochissime parole (e dice senza dire)» e che non deve per forza far ridere, ma sarebbe sufficiente che riuscisse a far pensare.
Il protagonista delle lettere inviate direttamente a nostro Signore porta il nome di un prete a me caro, ma che ha poco a che vedere con il temperamento del personaggio qui descritto. A voler fare un bilancio, credo che questo epistolario mi sia servito come potrebbe servire un ciclo di sedute psichiatriche. Spero aiuti anche voi.
E siamo al momento dei ringraziamenti. Prima di tutto grazie a Paolo Gulisano per la suggestiva Presentazione e a Enrico Beruschi per le affettuose parole che mi ha riservato in Postfazione.
La mia gratitudine, poi, è per Francesco e Teresa, che sono i miei genitori e anche i miei primi censori. E devo dire grazie ad Alberto Guareschi, perché, mentre queste pagine erano ancora in divenire, le ha giudicate così benevolmente da invogliarmi a pubblicare quelle che erano sul principio delle semplici novelle.
Devo ringraziare anche Francesco e gli amici di Campari & de Maistre che hanno accolto settimanalmente le mie storie sul loro blog, affiancandovi le divertenti illustrazioni di Erica Fabbroni.
Con loro ringrazio anche Eleonora Mauri (da poco scomparsa) e Silvana Carcano, che hanno rivisto questo lavoro quand’era ancora in costruzione, ma soprattutto Maria Barbieri, che lo ha riletto e corretto con precisione chirurgica (sperando, temo, che io possa diventare un autore di successo così da ripagare le sue fatiche in modo redditizio).
Il grande lavoro di riscrittura che ha portato il libro allo stato presente mi è stato possibile grazie ai suggerimenti del mio editor Saschia Masini, con la quale condividerò pertanto il destino del libro: a lei le critiche e le riserve, a me l’onere di sopportare eventualmente gli elogi: d’altronde si sa che per non finire tentati nella virtù dell’umiltà basta non possederla.
Ringrazio, infine, nella persona di Alessandro Rivali, l’Editore che si è fidato a pubblicare queste lettere seriosamente sbarazzine, che trovano nella gioia cristiana il centro propulsore per una vita sensata, fatta di fede schietta e d’intelligenza usata con cura.
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1. Dalla prima Lettera di don Augusto

Mondo al contrario

«Chi va oltre e non rimane nella dottrina del Cristo, non possiede Dio. Chi invece rimane nella dottrina, possiede il Padre e il Figlio»
(2 Gv 1, 9)
Mio caro buon Gesù,
la causa della mia crisi, perdonatemi l’audacia, nasce da un Vostro torto. Sì, mi permetto di darVi del Voi, perché non sono per niente persuaso che le formalità siano del tutto sbagliate. La forma deve rimandare a un contenuto, ma non esiste un contenuto senza forma. Nell’epoca dell’apparenza e delle confidenze pubbliche, dei segreti rivelati solo a mille amici virtuali, siamo convinti di essere più liberi perché possiamo darVi del Tu, senza accorgerci che buttiamo a mare il rispetto, seppur lo invochiamo a ogni piè sospinto nelle nostre frenetiche giornate. In questo mondo irreale, la soddisfazione più grande sembra quella di ricevere il numero più alto di like (sarebbe traducibile con qualcosa tipo “consensi”, Signore), come risposta a notizie inutili e di poco conto (la cena di ieri sera o la vacanza di domani), che ci vantiamo di mostrare, lamentandoci poi di non avere tempo per altro, essendo troppo impegnati a chattare. Ma non è per questioni di etichetta che Vi scrivo. Oggi ho un tal groppo in gola e, più onestamente, un gatto vivo nello stomaco, che mi son deciso a metter nero su bianco i miei patimenti. È da tempo che mi lambicco il cervello con domande e questioni e mi pare di non capirci più niente. Quando mi avete creato con la testa sulle spalle me l’avete non solo piazzata lì, ma ci avete messo anche le istruzioni di come usarla. Sapete che sono sempre stato fiero di far partire l’ingranaggio e macinare ragionamenti. Però questa capacità una volta passava per essere una virtù, oggi mi pare una condanna. Gesù, non funziona più, per esempio, mantenere fede alle proprie idee e così non cambiare parere a meno che sopraggiunga una ragione più forte e quindi più ragionevole.
È impossibile sentire dire in giro che una cosa cattiva è cattiva e una giusta, giusta; che il vero c’è e si può conoscere, ma che c’è anche l’errore che non va compreso, ma evitato; che il cervello funziona se si mette in moto e non si lascia in stallo, ma che l’uomo non è solo cervello. Insomma, tutta questa roba qui, nel panorama odierno, è per me difficile da vedere, se non in qualche caso umano isolato, purtroppo anche tra noi cristiani...
Cosa succede? Capita che – nonostante la misericordia invocata dai più – quando uno dice, con franchezza, non solo la sua opinione (che nessuno poi si sforza di verificare), ma quanto ha capito dall’insegnamento di Cristo, è messo al bando e buonanotte al secchio! Se si vuol rileggere la realtà non è più possibile farlo stando fuori dal coro del politicamente corretto...
È, forse, un mondo al contrario? Ne sono persuaso. Vedete, Signore, fintanto che il mondo è al contrario, poco importa, bisogna (spiritualmente parlando) combatterlo, avete insegnato. Ma quando lo diventa la Chiesa? «Se il mondo diventa troppo mondano la Chiesa può rimproverarlo, ma se è la Chiesa a diventare troppo mondana, il mondo non è certo in grado di rimproverarla per la sua mondanità», ha detto G.K. Chesterton.
L’idea, tra le tante, che mi si è ben ficcata nella zucca, mi ha suggerito il problema più urgente nell’orbe cattolico: la grammatica, ossia ciò che permette a una frase di strutturarsi (cristianamente). Sì, Gesù, perché uno è convinto di dire «a» e invece molti capiscono «b» o addirittura non comprendono un ficco secco. Il problema, non c’è dubbio, è proprio questo: le regole della sintassi saltano e uno le interpreta a modo suo, chiamando questo bizzarro vezzo di capire quel che vuole con il nome altisonante di ermeneutica, che altro non è se non l’interpretazione della grammatica stessa. Vedete, Signore, V...

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