Postazione 23. I miei cento giorni a Beirut
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Postazione 23. I miei cento giorni a Beirut

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Postazione 23. I miei cento giorni a Beirut

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Informazioni sul libro

Libano 1983: per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale un reparto italiano viene spedito oltre i confini nazionali.Franco Bettolini, protagonista di quella operazione, all'età di 19 anni sbarca con i suoi «fratelli» bersaglieri a Beirut, diventata ormai una città fantasma: vedrà miseria, disperazione e morte a ogni angolo. I sogni della gioventù devono cedere il passo alla crudezza di quella realtà. In Postazione 23 Bettolini ha affidato i suoi ricordi alla scrittrice Marina Crescenti che, con la freschezza di una scrittura in presa diretta, ha saputo rievocare tanto gli orrori della guerra quanto i gesti di sorprendente umanità scaturiti in quelle drammatiche circostanze così come le reazioni della popolazione, che si legò al contingente italiano capace di mostrare fermezza e umanità.Una storia di dedizione, di speranza e di pace.

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Informazioni

Editore
Ares
Anno
2020
ISBN
9788881559473
Argomento
Storia

SECONDA PARTE

Lebanon, Postazione 23

14 ottobre 1983

Pisa-Larnaca-Beirut

Stanotte non ho dormito. Ho immaginato bombe – sembravano caramelle di mille colori – che facevano scoppiare bambini all’atto di raccoglierle. Si dice anche questo, sì; si chiamano cluster bomb, le cosiddette «bombe a grappolo». Sono ordigni sganciati da mezzi in volo, che al momento dell’esplosione, disperdono sul terreno centinaia di piccole sub-munizioni – grigie e sferiche – le bomblets, che fanno saltare in aria i più piccoli all’atto di raccoglierle da terra, perché le scambiano per giocattoli.
Questa è stata la mia ultima notte a Maniago. La sveglia è «tuonata» alle 5. Dobbiamo essere pronti entro un’ora. Non sono il solo ad avere passato la notte in bianco, anzi, «in preparazione» di tutto quanto devo portare con me a Beirut. L’ansia di dimenticare qualcosa serpeggia fra le brande. Controllo che sia tutto in ordine: lo zaino, le attrezzature, l’arma (che deve essere pulita e lubrificata)... ok, c’è tutto, adesso posso finalmente dire di essere pronto, speruma.
Alle 6 in punto, siamo sul piazzale. Dopo l’appello e il saluto alla bandiera, i camion sono già in moto e attendono.
È il momento di salire.
Direzione: Pisa, Aeroporto Marco Polo.
Sul camion nessuno fiata. Io ascolto la musica dalle cuffiette; i Queen, naturalmente. Il momento è sempre più vicino. La tensione sale... sempre di più. Più mi scorre nelle vene, più mi sento avvolto da una sorta di enorme batuffolo di cotone dentro il quale, paradossalmente, avverto una piacevole sensazione di protezione intorno a me, che se anche mi sparano non può succedermi nulla. È una paura «rassicurante». Terribile e bella. Di sicuro, non ci sto capendo una mazza. Riesco soltanto a farmi trascinare da questa emozione che non so riconoscere in nessuna delle mie tante. Fisico e mente sono andati via assieme... ma ognuno per la propria strada... Sto scivolando nel sonno... Freddie Mercury mi canta la ninna nanna.
Il viaggio sul camion dura parecchie ore, interminabili e tutte uguali.
Improvvisamente, sento tamburellare sulla mia spalla, apro un occhio.
«Franco, svegliati.» È Marino. «Siamo arrivati all’aeroporto di Pisa» prosegue, sbadigliando.
Apro l’altro occhio, metto a fuoco dei cartelli con la scritta: Zona militare. Mi gratto la testa rasata e mi stropiccio gli occhi. Quando torno a guardare fuori, mi si para davanti l’aeroporto militare con sopra appollaiata una cosa enorme tutta grigia. Me li stropiccio di nuovo, devo essermi sbagliato.
«Che minchia è quello? Un meteorite?» prorompe la mia voce.
Un Hercules C-130 come quello che ho visto in televisione, preso da Enzo Biagi per raggiungere Beirut, è fermo sulla pista coi motori spenti. Un bestione. In tivù era molto più piccolo...! Non mi sembra più così affidabile. Diciamo pure che non desta a nessuno tanta sicurezza.
«Raga, che strizza!»
«Che figata...»
«Figata un cazzo!»
«Ma è gigantesco!»
«Voi avete mai volato?»
«Mai...»
«Io, una volta sola.»
«Raga, ma dobbiamo salire su quel coso?»
«Mi sa di sì.»
«I vostri genitori che dicono?»
«I miei stanno di merda.»
«E come devono stare?»
Dopo un’ora trascorsa a dire ognuno la sua, sappiamo che è giunta l’ora. Nessuno più fiata. Non ho mai messo piede su un aereo e, adesso, sto per salire su un Hercules. Le solite esagerazioni, dal niente al tutto! E ci devo pure volare, là dentro a quel coso spropositato. Mentre lo raggiungiamo a piedi, un aviere mi supera e si dirige verso un portello laterale. In ciascuna mano, tiene sospeso un bustone di stoffa come se tenesse due conigli per le orecchie. C’è stampato sopra il Tricolore e una scritta, Posta, più qualcos’altro che non faccio in tempo a leggere. Sono le lettere destinate ai soldati di stanza a Beirut. Tra poco, penso, in uno di quei sacchi ci saranno anche le lettere indirizzate a me. Si apre il portellone. In fila indiana, saliamo uno alla volta dentro l’inquietante meteorite. I nostri posti sono ricavati da due lunghe file arancioni di reti da cantiere, in plastica traforata, sistemate una di fronte all’altra. Partono dall’inizio del bolide ciclopico, fino a raggiungere la cabina di pilotaggio. Trovo posto a metà della fila di destra. Vicino a me, Claudio e Piero. Siamo tutti a bordo, una sessantina a occhio e croce, a ogni modo, i posti sono tutti occupati. Abbiamo il nostro fucile fra le gambe e l’elmetto bianco tra le mani, simbolo della nostra missione; qualcuno lo ha appeso sopra la testa.
Il portellone si chiude.
Vengono accesi i motori. Il rombo è spaventoso. Dentro quelle grosse eliche «stritola» il ferro. Non sarà proprio così... ma è esattamente quello che sta scoppiando nelle mie orecchie in questo preciso momento. Con uno scossone, l’Hercules C-130 inizia a rullare.
Manovra verso la pista di decollo.
Sembra impossibile: sono seduto su una rete arancione, abbracciato a un Fal Beretta BM-59, il fucile automatico leggero. Per quanto i superiori ci abbiano addestrati a cavarcela in tante situazioni, non è mai come nella realtà.
Il rombo dei motori diventa fortissimo.
Il meteorite si stacca dalla pista e decolla.
Mi sento risucchiare verso la coda dell’aereo. Dietro di me c’è un oblò. Guardo la mia Italia – che s’allontana ogni secondo di più – farsi sempre più piccola. Da quassù, i campi coltivati mostrano confini perfetti, come disegnati con il righello. Anche i colori, che a terra si mescolano, da questa distanza appaiono dai contorni ben definiti. Ed eccola là, la mia Italia... che forse non rivedrò mai più!
Siamo ancora tutti schiacciati spalla contro spalla, come attirati da una potente calamita; la sensazione è che il mostro si stia arrampicando mani e piedi verso l’alto. Fortuna che questa sensazione dura appena una manciata di minuti, ovvero, il tempo di cui ha bisogno il mostro per sistemarsi in posizione orizzontale. L’atterraggio a Beirut è previsto tra 5 ore.
Durante il volo, nonostante il rumore assordante, qualcuno riesce a dormire. Marino è crollato di testa sulla spalla di Fabio, che ha lo sguardo sbarrato a terra. In faccia, gli leggo tanta paura. Certi, invece, per prendere sonno, si sono tirati giù l’elmetto fino a coprire occhi. Altri, come me, guardano fuori.
Oltre al rombo dei motori, non si sente volare una mosca.
A stento, «capto» la voce di un ufficiale che dice a un suo collega che stiamo volando tra Ponza e Catanzaro a circa 900 mila metri di altezza, a una velocità di 600 chilometri orari. E che a Beirut non si può più atterrare perché è in atto un bombardamento. E che verremo dirottati a Larnaca. E che raggiungeremo Beirut con una nave militare di quelle utilizzate per lo sbarco dei fanti di Marina.
Ho sentito bene?
Temo proprio di sì...
Il volo è un incubo.
Il bestione perde continuamente quota e i vuoti d’aria sono spaventosi. È tutto un precipitare e un riassestarsi. È normale, ci assicurano gli ufficiali.
Normale per voi! Io mi sto cagando sotto!
Finalmente, si atterra.
Veniamo prelevati coi camion, diretti al porto di Larnaca, dove una nave militare è ormeggiata, pronta ad accoglierci. È quasi sera. Davanti a noi, abbiamo ancora una notte di viaggio, prima di attraccare a Beirut.
Il mare è molto mosso.
La «cuccetta» è piccola e scomoda. Cerco di dormire, ma è praticamente impossibile. Sono qui con i miei fratelli, tranne tre, Miky, Ciro e Roby; loro sono già a destinazione per prenderci in consegna al porto di Beirut e condurci alla nostra base.
15 ottobre 1983

Lo sbarco

Il portello della nave si apre.
Siamo al porto di Beirut, il settore francese, nella parte settentrionale della città. Niente e nessuno mi avrebbe preparato a ciò che sto vedendo in questo momento. Sapevo che l’aeroporto di Beirut era stato devastato, ma perché non hanno detto nulla del porto? Dappertutto, distese di container e militari affannati, colonne di camion pronti a prelevarci da un sito che non si capisce più che razza di roba sia. Polvere. Tanta polvere. Polvere rossa dappertutto. In bocca, negli occhi! Ti si appiccica addosso! E poi, colonne di fumo nero fino al cielo! Dove svolazzano gli elicotteri americani a difesa del nostro sbarco. La Polizia Militare dei diversi contingenti si muove con molta circospezione nella zona di competenza. Noi italiani siamo diretti nella parte centrale del Libano – a sud di Beirut – dove sono dislocati i campi palestinesi di Sabra e Shatila. Il settore americano è a sud, zona aeroporto. Mentre il settore francese è qui, a nord, zona porto, a proteggerci in caso di attacco, mantenendo sempre aperta la nostra unica via di salvezza: il mare.
Ciro, Miky e Roby devono essere da qualche parte al volante, pronti a caricarci sui loro mezzi. Nel marasma generale, lancio occhiate a destra e a sinistra. D’un tratto, mi sembra di vedere Roby, ma non posso raggiungerlo: abbiamo ordini precisi su come dobbiamo muoverci, sono regole ferree da rispettare al millimetro, vietato abbassare la guardia. Ogni movimento è stato calcolato nei minimi dettagli: ci sono cecchini ovunque. Sento i sibili dei proiettili passarmi sopra la testa. Il primo impatto è terrificante. Il rischio è altissimo. Il Comando del Contingente ha organizzato la protezione del nostro sbarco, al fine di gestire col minimo rischio l’avvicendamento dei due scaglioni. Incrocio alcuni componenti del reparto in partenza per l’Italia. Dai loro volti, è palese quanto siano allo stremo ma, al contempo, fieri. Quando verranno a sostituire me, nel mio sguardo si dovrà leggere lo stesso orgoglio.
Dobbiamo sbrigarci, non siamo in gita scolastica; mi guardo intorno, la devastazione è ovunque.
Ovunque, anche il puzzo della morte. Inconfondibile, pur non avendolo mai sentito prima. Mi viene da dire: benvenuto all’inferno.
Qui sì, che sono nel «regno dei morti»!
Quello che non avevo visto sbarcando dalla nave, mi si presenta agli occhi con altrettanta violenza mentre mi dirigo verso il mio camion. Donne, bambini e vecchi, sporchi e impolverati, taluni mutilati, coperti solo di stracci stracciati da bestie più bestie delle bestie! Povera gente che vede in noi i loro salvatori e che ci punta addosso sguardi di disperazione e di richiesta di aiuto. Io, che tremilaquattrocentoquaranta chilometri fa, mi trovavo a Binasco a bere la spuma nera, mentre ora sono a ingoiare polvere rossa, devo aiutare questa povera gente che si accalca intorno a noi, quasi ci tocca, ci sorride, ci tende una mano! Avanti! Ci hanno detto: fiducia in voi stessi, fino alla presunzione! Fiducia in voi stessi, alla pari degli altri eserciti!
Salgo sul camion.
Durante il tragitto, mantengo lo guardo fisso sulla «città morta». Ciò che vedevo al telegiornale, al riparo di uno schermo, adesso, è realmente intorno a me. Nudo come un verme, senza vergogna alcuna. Posti di blocco francesi, carri armati pronti all’assalto, soldati concentrati sul da farsi. E dappertutto macerie, palazzi sventrati, strade spaccate, che svirgolano in un panorama di distruzione che ha perduto ogni dignità e che non si sforza nemmeno più di apparire decente giusto quel tanto per fare gli onori di casa a una manciata di soldati italiani scelti, loro malgrado. Ritenuti e poi resi psicologicamente e fisicamente «perfetti» per il compito che è stato loro assegnato: riportare la mimetica a casa e, prima ancora, proteggere la popolazione civile, che ora vive dentro a delle baracche.
Ogni cosa attorno, immobile o in movimento, parla di morte.
Sa di pericolo.
Mentre il camion continua a correre verso il nostro accampamento sollevando un polverone rosso, nell’aria sento un odore diverso. È l’odore della calce viva, mi spiegano, sparsa in ogni angolo di questa città-cimitero che puzza di marcio. Calce che ricopre i cadaveri prima che l’aria si appesti per la decomposizione. Sono in questo posto da nemmeno mezz’ora, e mi sembra già di essere qui da un’eternità. Temo che tutto l’addestramento fatto servirà fino a un certo punto, qui devi cavartela da solo. Qui dovrò metterci del mio.
Il camion imbocca un viale costeggiato da cedri e pini, resi malconci dalla polvere e dai combattimenti. L’odore della calce è sempre più insistente. In fondo al viale, ci sono Sabra e Shatila e, a poche centinaia di metri, il nostro campo base. Con vista sulle bandiere nere della fossa comune, completamente ricoperta di terra e calce. Dove sono stati gettati con le ruspe i corpi di circa 2 mila profughi palestinesi, così è stato dichiarato, trucidati nei loro campi durante l’eccidio del 16 settembre dell’anno scorso. In questo campo base ci passerò 4 mesi della mia vita.
Se tutto va bene.
Giunti a destinazione, come prima cosa, dobbiamo recarci presso la palazzina del Comando, che si trova a poche centinaia di metri dall’ingresso del campo. Impieghiamo molto più tempo di quanto si possa pensare: il camion è costretto a proseguire zigzagando nel tentativo (a volte mal riuscito) di schivare i sacchi di sabbia sparsi ovunque, mentre altri sono accatastati a formare muri di protezione in caso di attacco. L’odore di calce viva si fa sempre più intenso. C’è un’altra cosa che impazza dappertutto: la sabbia rossa. Al porto, al campo, sulle strade. Sul corpo! Il sudore la trattiene e ogni porzione di pelle rimasta a contatto dell’aria si riveste di rosso.
Al Comando, viene assegnata una tenda a ciascuna ...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione di Franco Angioni
  2. Introduzione. Perché questo libro
  3. Nota al lettore
  4. PRIMA PARTE
  5. SECONDA PARTE
  6. EPILOGO
  7. Ringraziamenti
  8. Album Fotografico
  9. Indice