Gli anni spezzati – Il giudice
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Gli anni spezzati – Il giudice

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Gli anni spezzati – Il giudice

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Per 35 giorni in balia di due fantasmi incappucciati di cui si ignora tutto tranne la fredda determinazione: pronti a uccidere. Fu questa la condizione in cui visse, da giovedì 18 aprile a giovedì 23 maggio 1974, prigioniero delle Brigate Rosse, il giudice Mario Sossi. Quattro anni dopo, egli ricostruì nei minimi particolari, con l'aiuto dell'amico e giornalista-storico Luciano Garibaldi, la sua allucinante avventura. Lo fece con spietata sincerità, prima di tutto verso sé stesso, per tener fede a un impegno preso tacitamente durante quegli interminabili giorni nel «carcere del popolo»: spiegare agli italiani, soprattutto ai giovani, quale spaventosa ideologia di morte si nascondesse dietro l'utopia rivoluzionaria. E lo fece sebbene non mancasse chi lo sconsigliava, data la sua condizione di «condannato a morte in libertà provvisoria», ribadita dai capi brigatisti il 22 maggio 1978 nell'aula di giustizia di Torino dove venivano processati.Da questa sua testimonianza è tratta la fiction televisiva «Gli anni spezzati. Il giudice», prodotta dalla Albatross Entertainment e diretta dal regista e sceneggiatore Graziano Diana, Premio Acqui Storia 2013 «La storia in Tv». Ma il libro che, edizione dopo edizione, si impone come un classico degli «anni di piombo», è anche una storia d'amore, l'amore di un uomo per la propria moglie, di una donna per il proprio marito. È la cronaca commovente di un dialogo a distanza tra il giudice Sossi e sua moglie Grazia, sullo sfondo del quale si muovono protagonisti grandi e piccoli di una delle pagine più drammatiche della storia italiana contemporanea.

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Informazioni

Editore
Ares
Anno
2014
ISBN
9788881556090
Argomento
Historia

IV

“FUCILATEMI SUBITO”

La fanfara apre il corteo degli alpini a Udine. E’ una splendida giornata, piena di sole, di canti, di vita. C’è gente assiepata ai lati della strada. Si levano applausi, grida festose. Il passo cadenzato degli alpini che sfilano rimbomba nelle strade del vecchio centro, vestite a festa, i gerani sui davanzali delle case, e dovunque uno sventolare di bandiere. Sulla destra della mia colonna, leggermente spostato verso la folla che si protende dal marciapiede, tengo il passo e canto a squarciagola. La gente mi sorride e io sono orgoglioso della mia fascia di dirigente del servizio d’ordine.
Il raduno degli alpini è giunto al termine e tutti confluiamo verso una grande stazione ferroviaria. Vi è molta animazione. Alpini vecchi e giovani vanno e vengono, si abbracciano, si scambiano saluti, cantano, si avviano ai treni.
Ma ecco che, ad un tratto, quell’atmosfera festosa si guasta, qualcosa si incrina e l’aria si fa scura, come se un maleficio stesse improvvisamente per cadere su di noi. La stazione è ora avvolta nel silenzio, tutti aspettano, col fiato sospeso, qualcosa che sta per succedere.
Mi trovo in un angolo di una sala d’aspetto. Vedo una breccia nel muro e forse posso uscire nei campi.
Eccomi solo: dinnanzi a me si para una collinetta coltivata a vigna. Corro, mi arrampico, col cuore in gola, su per l’erta. Ma i tralci sono diventati reticolati di filo spinato. Mi volto indietro. Qualcuno mi insegue, stanno per prendermi. Eccoli... eccoli...
“Cos’hai da urlare? Ti ho svegliato?”.
La sagoma sinistra dell’incappucciato occupa per intero, in tutta la sua lunghezza, la parete di fondo della mia cella. E’ entrato con la colazione, proprio mentre stavo vivendo la fase più angosciosa dell’incubo, e adesso non capisce perché mi sono svegliato urlando.
Mi alzo a sedere sulla brandina, prendo dalla tasca il fazzoletto e me lo passo sulla fronte, all’attaccatura dei capelli, imperlati di sudore. Ho la bocca amara e impastata.
“Buone notizie” dice il Laureato, perché l’incappucciato è lui, l’ho riconosciuto dalla statura e dall’accento: “il tuo Grisolia ce l’ha fatta. Hanno sospeso le ricerche”.
“Bene... Quando?” chiedo.
“Non ha importanza quando. Le hanno sospese”.
Lunga pausa. Poi dico: “Visto che questo risultato lo si deve in parte anche a me, penso di aver diritto a qualche notizia. Non vi costa niente. Perché non mi date qualche quotidiano da leggere? Ho il diritto di essere informato sugli avvenimenti che accadono fuori. Mia moglie come sta? Ha ricevuto il mio messaggio?”.
“Tua moglie sta bene, non preoccuparti. E non fare troppe domande. Qui dentro non sei più tu che interroghi, non dimenticarlo”. Però, dicendomi così, il Laureato non usa un timbro insolente, ma, anzi, piuttosto bonario, come un maestro comprensivo potrebbe rivolgersi ad uno scolaro riottoso. “Tieni” dice, “eccoti altri due libri. Non so se ti piaceranno, è quel che passa il convento”.
Mi porge i due libri: uno è un trattatello su Marx e Engels, l’altro parla degli indiani d’America. S’intitola: Il mio cuore è sepolto a Wounded Knee.
“Guarda che non è un libro di avventure nel West: è la storia del barbaro genocidio del popolo indiano perpetrato dagli imperialisti americani nel secolo scorso”.
“Questo lo avevo capito. Io sono sempre stato dalla parte dei pellerossa, anche perché non pretendevano di imporre il marxismo al prossimo”.
“Bravo, vedo che sei su di giri. Riprenderemo il discorso più tardi. Adesso ho da fare”.
Esce. Faccio ginnastica, poi mi lavo, faccio colazione e mi immergo nella lettura del libro “indiano”.
Più tardi il Laureato torna.
“Allora, hai letto Marx e Engels?”.
“No, l’ho soltanto sfogliato. Non mi interessa, lo sapete bene”.
“Sbagli a non informarti sul marxismo. Il tuo anticomunismo è frutto di cattiva informazione. Nessuno può capire il marxismo senza averlo studiato...”.
“Senti”, lo interrompo, “devo dirti una cosa”.
“Sentiamo”.
Mi ero preparato un lungo discorso, con tutti i ragionamenti incasellati al posto giusto, ma riesco a dirgli soltanto che, con la loro “temeraria impresa”, hanno raggiunto certamente un grosso successo propagandistico, e che dovrebbe bastargli, per cui “che aspettate a lasciarmi andare?”.
“Tu scherzi! La tua prigionia è appena incominciata”.
“Ma, insomma, quanto avete intenzione di tenermi qua dentro?”.
“Quanto dura” mi chiede, per tutta risposta, il Laureato “la carcerazione preventiva, quando l’istruttoria è condotta dal procuratore della Repubblica?”.
“Quaranta giorni” dico.
“Ebbene, non è passata neppure una settimana. Non sperare di cavartela tanto presto. Devi meditare, devi fare una sincera autocritica e ammettere i tuoi errori”.
“Ma quali errori?”.
“Quelli che hai commesso sempre, perseguitando la classe operaia”. Prendo un libro dalla mensoletta e fingo di guardare la copertina.
“Non rispondi?” incalza il Laureato.
“Io non perseguito gli operai, reprimo i reati”.
“Però, guarda caso, sono sempre ‘reati’ commessi da operai”.
Il Laureato si aggiusta gli occhiali sul naso, si tira su i pantaloni della tuta, poi: “La magistratura”, riprende, “ricopre un ruolo strumentale al progetto di ristrutturazione neogollista dello Stato e tu hai portato avanti in maniera consapevole questo progetto. Perciò ti abbiamo preso: per disarticolare il piano preventivo della borghesia di neutralizzare l’iniziativa delle masse”.
“Ma la magistratura è indipendente, non prende ordini dal governo. Hai visto che la polizia ha dovuto ubbidire a Grisolia. Siamo in democrazia, c’è la divisione dei poteri...”.
“La democrazia non esiste” taglia corto il Laureato. “La democrazia è un’invenzione della borghesia, dietro la quale si nasconde la natura controrivoluzionaria dello Stato imperialista. Tu di politica non hai mai capito nulla”.
“Ma questi sono slogan”.
“Il comunismo è forse uno slogan? Il comunismo è la liberazione degli sfruttati e degli oppressi di tutto il mondo”.
Non sono d’accordo e lo dico chiaramente al Laureato: “Nei paesi dove i comunisti sono al potere non c’è liberazione per i proletari e gli sfruttati, ma solo maggiore schiavitù”.
“Nei paesi comunisti”, replica il Laureato, “si realizza l’unica forma di giustizia possibile, quella che nasce dalla dittatura del proletariato. Ma adesso basta parlare. Leggi! Vuoi che ti portiamo quei giornali che facevi sequestrare, quando gestivi la repressione? Li abbiamo di là”.
“Quali giornali?”.
“Come, quali giornali? Quelli pornografici, quelli per cui hai ficcato in carcere nove giornalai di Genova”.
“No, grazie, potete tenerveli”.
“Come vuoi”.
La conversazione è finita. Non è stata granché, ma la registro nel diario mentale della mia prigionia come un avvenimento importante. Finora il Laureato e il Gregario non mi avevano mai rivolto la parola se non per pochi secondi, e la cosa più dura da sopportare, per me, qua dentro, è la solitudine, l’isolamento acustico. Sentire delle voci mi fa bene.
Perché il Laureato ha parlato con me? Vuole sapere come la penso? Ma io non ho mai fatto mistero delle mie idee. Vuole indottrinarmi? Forse. Comunque, mi è sembrato che il ghiaccio si sia rotto. Potrò ricavarne qualche vantaggio, saperne di più su ciò che mi attende.
A metà giornata, con il pranzo, il Gregario mi porta un block-notes di carta quadrettata e due biro: “Così potrai scrivere, se vuoi”.
Eccomi con dei fogli e, finalmente, la possibilità di scrivere. Sono emozionato. Non avrei mai immaginato quanto possa essere importante, per un prigioniero, sfogarsi su un foglio, disegnare, scrivere, prendere appunti, fissare i propri pensieri.
Già, fissare i propri pensieri. Ma a che scopo? Per “dopo”? Me le lasceranno tenere, le cose scritte da me? O mi sequestreranno i fogli? Una cosa è certa: da questo momento ho la possibilità di segnare almeno i giorni che passano. Perciò, per prima cosa, strappo un foglietto dal blocco e vi annoto i giorni che mi sembra siano trascorsi, più quello odierno.
Poi incomincio a disegnare quello che mi passa per la testa. E la prima cosa che mi passa per la testa è lo stemma degli alpini. Mentre disegno, con grande cura, su tutta la pagina, i fucili incrociati, le due trombe e l’aquila, mi accorgo che questo simbolo mi dà coraggio: è il simbolo del Corpo in cui credo e a cui appartengo.
Gli uomini hanno bisogno dei simboli, delle bandiere e dei riti. Anche i miei carcerieri ne hanno bisogno. Non hanno forse fissato alla parete della mia cella il loro stendardo con la stella a cinque punte? Bene: da questo momento, stemma degli alpini contro stella a cinque punte. E vedremo chi la spunterà.
A sera, il block-notes è pieno di scritti e disegni. Ho ricopiato intere pagine del libro sui pellerossa, ho trascritto articoli del codice penale, frasi che il Laureato ha pronunciato stamattina. Mi accorgo che uno dei disegni più ricorrenti, tratteggiato quasi meccanicamente, é una casetta in mezzo agli alberi, con una stradina e due o tre persone che tornano a casa. E mi sorprendo ad analizzare quei disegni che costituiscono la evidentissima proiezione del mio inconscio: desiderio di vivere all’aria aperta, struggente nostalgia della mia casa, di mia moglie, delle bambine.
Quando penso a Grazia, il ricordo si fissa quasi sempre sul momento del nostro primo incontro.
Era il mese di ottobre del 1957. Io avevo 25 anni, ero stato da poco trasferito, dalla pretura di Genova, a Saluzzo, con le mansioni di giudice istruttore delle cause civili, e facevo la spola tra Saluzzo e Genova, dove abitavo con i miei genitori.
Con un gruppo di amici (Umberto Garaventa, compagno di studi, Renato Cavalli, alpino come me), frequentavo il circolo “Il Convegno”. Era una specie di club di ispirazione cattolica, dove si poteva giocare a ping-pong, ascoltare musica, vedere la televisione, cosa, quest’ultima, di una certa importanza, perché allora pochi avevano la televisione in casa e quando c’era “Lascia o raddoppia” i bar erano pieni e i cinematografi vuoti.
“Il Convegno” occupava un grande appartamento in via Ippolito d’Aste. C’era una saletta dove si proiettavano film e, qualche volta, si esibivano gli allievi della scuola di recitazione diretta dal regista Aldo Trabucco.
Quel giorno Renato Cavalli venne a prendermi a casa.
Al “Convegno” c’era un saggio di recitazione e andammo anche noi. Alla fine applaudimmo, con particolare calore, due belle ragazze brune, allieve di Trabucco, che avevano recitato, così ci era sembrato, con grande talento.
Andammo a complimentarci con loro dopo la recita, ma il nostro scopo era di attaccare discorso e farci notare. In breve, le presentazioni furono fatte: “Piacere, Grazia”, “Piacere, Laura”. Laura era straniera, argentina, e avrebbe finito per diventare attrice professionista e lavorare con Pasolini.
A me, però, piacque subito Grazia e non feci nulla per nasconderglielo. Più tardi, mentre andavamo al bar Svizzero, per l’aperitivo, le dissi improvvisamente: “Tu reciti molto bene, ma la moglie di un magistrato non può calcare le scene”.
Ammetto che fu una maniera quanto meno insolita per farle capire che mi ero innamorato di lei a prima vista. Mi guardò stizzita, come se pensasse: “Ma senti questo presuntuoso: mi ha appena conosciuta e già mi dice quel che devo fare”.
In seguito, non ci fu bisogno di chiederle di rinunciare ad una carriera di attrice appena intravista.
Viveva con la madre, di cui era unica figlia, e mi accorsi subito di avere fatto breccia nel cuore della mia futura suocera. Anzi, come mi disse in seguito Grazia, ero stato l’unico dei corteggiatori di sua figlia che le fosse andato a genio fin dal primo momento.
Ci sposammo nel settembre 1959 e andammo a vivere a Saluzzo. Tornammo a Genova quando Grazia stava per partorire. Desideravamo entrambi una femmina e avevamo già scelto il nome: l’avremmo chiamata Gabriella. Erano i primi di luglio del 1960 e trovammo la nostra città quasi in stato d’assedio. Il 30 giugno si erano verificati gravissimi disordini. Le sinistre volevano far cadere il governo Tambroni e Genova era stata scelta per la prova generale dell’insurrezione, con la scusa del congresso del Msi, che si voleva impedire a tutti i costi. C’erano reticolati di filo spinato nelle strade del centro, i finanzieri con i mitra spianati a Portoria, sui cornicioni del cinema Odeon, un clima sinistro da guerra civile. In quei giorni pensai che quanto stava accadendo, cioè lo Stato sopraffatto dalla piazza, sarebbe stato gravido di conseguenze per il Paese.
Il Gregario ha preso l’abitudine di offrirmi da fumare. Lo fa a metà giornata, quando torna in cella per ritirare gli avanzi del pasto. Entra con la sigaretta accesa, la spezza a metà con le dita, accende l’altra metà con il mozzicone e me la passa, allungando il braccio. Oppure mi porge la sua stessa sigaretta, consumata per metà.
Solitamente non fumo, ma ora quel po’ di tabacco non mi dispiace. Per posacenere ci serviamo di un barattolino di carne in scatola vuoto, che il Gregario porta con sé quando entra e riporta via uscendo.
La sua mezza sigaretta, il Gregario la fuma standosene seduto sullo sgabellino, dal lato opposto al mio. Anche lui, adesso, a somiglianza del suo capo, non disdegna di rivolgermi la parola, una volta tanto senza bestemmiare, né urlare, né dire parolacce.
“Secondo te” mi ha chiesto “dove ci troviamo? In Italia o all’estero? In città o in campagna?”.
Ho risposto che la mia impressione è di essere stato portato “ad un paio d’ore da Genova; ma potremmo anche trovarci” ho aggiunto “in una località di montagna vicina al confine italiano, in Francia o in Svizzera. Probabilmente siamo in una casa isolata, su una collinetta, in campagna, ma non lontani da un centro abitato”.
Ho provato a descrivere l’ambiente su un foglio del notes.
“Fa vedere” ha detto il Gregario. Gli ho allungato il foglietto. Nessun commento.
Che faccia avrà, il Gregario, sotto il cappuccio? è strano: abituato a vedere per giorni e giorni i miei carcerieri incappucciati, ho finito per completarne idealmente i connotati e ora mi accorgo che non riesco più a parlare con loro senza immaginare gli ipotetici tratti del loro volto. Il Gregario me lo figuro con i lineamenti marcati, viso quadrato, pelle scura, folti baffi neri. Invece il Laureato credo che abbia lineamenti più fini, naso regolare, labbra sottili, capelli biondi e radi9.
Il Gregario ogni tanto tira su col naso e sta quasi sempre a braccia conserte. Nel complesso ha l’aria di un tipo sicuro di sé. Quando alza la voce, si capisce subito che lo fa a freddo.
Approfittando del suo atteggiamento “benevolo”, gli ho chiesto se possono farmi un favore: non lasciare in cella, per un’intera mezza giornata, il recipiente che mi serve da wc. Mi ha detto: “Sta bene. Tu bussa, quando hai bisogno”.
Nel pomeriggio entra il Laureato con dei ritagli di giornali. Mi sembra di riconoscere, dai caratteri, il “Secolo XIX” e “La Stampa”. Parlano di una intervista rilasciata dal capo degli Affari Riservati del ministero degli Interni D’Amato, nella quale, a proposito di BR, il D’Amato dice pressappoco: “Noi li arrestiamo, la magistratura li scarcera”. Leggo avidamente i ritagli, li giro e li rigiro tra le mani, nella speranza di trovar...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. INTRODUZIONE
  3. “LE HAI CERCATE, LE BRIGATE ROSSE!”
  4. INCUBI E CANZONI ALPINE
  5. “METTITI IN GINOCCHIO!”
  6. “FUCILATEMI SUBITO”
  7. IL PROCESSO TRA KAFKA E STALIN
  8. CHI HA PAURA DI MORIRE
  9. L'ALDILÀ DEVE ESISTERE
  10. “CONSULENTE” DELLE BR
  11. LA DC È DIVISA
  12. RISOTTO E BISCOTTI AL MARASCHINO
  13. TI AMMAZZERÒ IO
  14. VA BE', METTI GIUDIZIO
  15. LE "STRANE INTERVISTE"
  16. QUATTRO ANNI DOPO
  17. APPENDICE
  18. Inserto
  19. NOTE