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L’IMPORTANZA DELLE RADICI
Forse non esisteva posto migliore per incontrarci. Sta di fatto che, complice la vicinanza, la scelta è caduta sull’Abbazia di Maguzzano. E ora eccoci qui, padre Antonio e io, seduti uno di fronte all’altra, avvolti da questa atmosfera sacra. Nel grande parco che la circonda – un angolo di Toscana trapiantato in Lombardia – nel silenzioso chiostro rinascimentale, nella raccolta cappella, nella biblioteca in cui ci troviamo, ogni angolo di questo complesso monastico richiama, infatti, un passato ricco di fede e di preghiera, ma anche non alieno da turbolenze. Di fondazione benedettina, ha visto l’ininterrotta presenza di questi monaci fino alla violenza distruttrice napoleonica, che tutto ha spazzato via, riducendo le antiche mura a casa colonica. Poi, circa un secolo dopo, il faticoso ritorno al monachesimo da parte di un gruppo di Trappisti, provenienti dall’Algeria, allora dipartimento francese sottoposto alle leggi anticlericali della Repubblica, in fuga da un deserto che avevano trasformato in giardino. E, infine, la presenza da ormai ottant’anni, di una famiglia religiosa, quei Piccoli Servi della Divina Provvidenza, fondati da don Giovanni Calabria, un santo veronese ricchissimo in carismi, qualcuno dice secondo solo a Padre Pio (1887-1978).
Anche noi, abbracciati e protetti da un così importante passato, dobbiamo parlare di fede. Della fede che prende una intera vita e la plasma, quella del barnabita padre Antonio Gentili, entrato nell’Ordine fondato da sant’Antonio Maria Zaccaria a 14 anni compiuti e adesso ultraottantenne, ancora entusiasta della sua vocazione e del suo maestro spirituale. E della fede che si è fatta missione verso gli altri, che ha costruito percorsi di formazione che ne facilitassero l’accesso a tutti coloro che desideravano fare esperienza di Dio. Sono infatti oltre quarant’anni che padre Antonio tiene corsi di preghiera profonda e di digiuno nelle case di spiritualità del suo Ordine, ma anche ovunque lo chiamino.
Un percorso singolare e particolarmente interessante, perché padre Antonio è stato uno dei primi, in Italia, a incontrare seriamente l’Oriente, cioè a fare esperienza personale sia del mondo buddista e delle forme di meditazione in esso utilizzate, sia dello yoga, che conosce e pratica da molto tempo. Ma, al contempo, anche uno dei primi a utilizzare questa esperienza per riscoprire e rivitalizzare la fede e la tradizione cristiana, alla quale è profondamente ancorato. Tutto ciò credo non possa non suscitare curiosità, anche perché è sempre più numerosa la schiera di coloro che, qui in Occidente, in casa nostra, si convertono a queste spiritualità e discipline orientali, dicendo di trovare in esse risposta ai loro bisogni. È dunque naturale, anzi, credo, necessario porsi qualche interrogativo: perché ricorrere all’Oriente? Forse che la Rivelazione, che ha avuto il suo culmine nell’incarnazione del Verbo, è in qualche modo insufficiente? O, piuttosto, si tratta forse di una sorta di “moda” che ha fatto il suo tempo? Oppure siamo noi cristiani che fatichiamo a entrare in sintonia con il nostro tempo, nell’annuncio del Vangelo di salvezza?
Tutte domande, queste e molte altre, alle quali padre Antonio avrà tempo e spazio per rispondere approfonditamente, nel procedere di questo nostro incontro. Ma ora, vorremmo fare un passo indietro, tornare alle origini, conoscere gli antefatti.
1.1 - Fin dall’inizio “cercatore di Dio”
Caro padre Antonio, lei ha scritto molti libri sui tanti aspetti dell’esperienza alla quale va incontro chi partecipa ai suoi corsi di preghiera, ma in essi non parla mai di sé, di come è nata la sua di fede, di come è cresciuta fino a portarla a farsi religioso e poi, a sua volta, strumento perché altri potessero scoprire Dio. Vuole dirci qualcosa sulle sue origini?
Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia in cui si respiravano molta fede e molta cultura. Mio babbo era direttore didattico, dunque un educatore di professione. Pure la mamma era profondamente credente. Ricordo che quando parlavano del loro incontro, il babbo ripeteva spesso di essersi accorto, appena avvicinata quella che sarebbe diventata la sua sposa, che «non si trattava di una femmina, ma di una donna». Io stesso, in un libro che le ho dedicato, giusto sui temi femminili, con espressione che credo dica molto di ciò che da lei ho ricevuto, l’ho definita “icona verace della donna eterna”.
La mamma, a sua volta, a proposito del rapporto con il babbo, ricordava volentieri un singolare episodio, che con gli anni aveva assunto una valenza che credo profetica. Un po’ titubante ai primi approcci da parte del futuro consorte, si era confidata con una anziana signora, amica di famiglia, residente a Carrara, luogo di origine della mia famiglia, ma proveniente da Milano dove, alla fine dell’Ottocento (1897), era stata celebrata con grande solennità, la canonizzazione di Antonio Maria Zaccaria, fondatore dell’Ordine dei barnabiti. Ebbene, questa donna, ricca di fede e di esperienza, l’aveva sollecitata a non aver paura e a guardare al passo che stava per fare con occhi di credente. «Ma signorina, lo sposi», l’aveva esortata. «Guardi, però, che il bel düra tri dì» (cioè a dire: la luna di miele è breve, e il matrimonio è una cosa impegnativa). E, come dono propiziatorio, le aveva donato una immaginetta del novello santo aggiungendo: «Lo preghi! È un santo miracoloso che fa le grazie!». Passarono, a dire il vero, non pochi anni dalla mia ordinazione sacerdotale, e proprio nell’Ordine dei barnabiti, quando la mamma, un giorno, estrasse l’immaginetta dal suo consumato libro di preghiere e ci rivelò l’episodio. Immaginetta che è stata messa in un quadro, quasi fosse una reliquia.
La sua chiamata alla vocazione religiosa e al sacerdozio, appunto: suppongo che avrà avuto una lunga gestazione.
Sì, credo che la chiamata sia andata sviluppandosi a poco a poco nel tempo. Il più lontano ricordo di un evento che suscitò in me un desiderio, destinato successivamente a prendere corpo quando mi feci religioso, mi rimanda a una funzione del mese mariano per eccellenza, maggio, quando eravamo ancora sfollati, a causa della guerra, a Tronzano, un paesino sul Lago Maggiore, dal quale proveniva la famiglia della mamma. La processione aveva raggiunto, come di consueto, una delle edicole dedicate a Maria, numerose in quei luoghi. Quella volta si trattava dell’edicola dedicata alla Madonna di Re, il celebre santuario della Val Vigezzo, nelle Prealpi piemontesi. La visione del sacerdote in abiti liturgici mi colpì molto, anzi mi affascinò e credo che mi segnò orientandomi, seppure ancora vagamente, verso la vita consacrata.
Un altro momento, certamente ancor più importante, fu quando poi, a guerra finita e rientrati a Genova, nostra città di residenza, insieme a Giovanni, il mio gemello, ricevemmo la prima Comunione e la Cresima. In quell’occasione, i miei genitori mi donarono l’Imitazione di Cristo, con una dedica che non mi lasciò indifferente. Vi si leggeva, scritta dal babbo, e vi si legge tuttora (l’ho sempre portata con me!): «Il tuo cuore e la tua anima sono pieni della Grazia divina, poiché Gesù è veramente sceso in te: Lui che è la Via, la Vita e la Verità. Trascorra la tua vita terrena nella via della sua luce, della sua verità e del suo caritatevole bene. 20 giugno 1948». Quel “vita terrena”, con implicito richiamo a una vita ultraterrena, era pur sempre ricco di risonanze. Risonanze, ricordo, tenute deste anche dalla lettura – in famiglia ne eravamo avidi – di un libro particolare, donatoci da uno zio: Quelli che seguirono Gesù, di cui mi colpì soprattutto il sottotitolo: Racconti di santi per fanciulli cristiani (Rizzoli, 1942). Due furono le figure che mi risultarono molto familiari, san Benedetto (480-547) e san Francesco (1181/2-1226) dei quali, tra l’altro, ci parlava spesso anche il babbo che ne era grande ammiratore, arricchendo quanto scritto nel libro di altri particolari.
Devo aggiungere che l’educazione propriamente religiosa ricevuta in famiglia era profonda, ma molto sobria. Il babbo era solito dire che preferiva pregassimo poco, ma bene: «Cercavo le preghiere brevi perché le sentissero, non le lunghe perché le sopportassero. Mi piaceva – confidò a un giornalista che aveva seguito le vicende di cui parlerò – che quel “segno di croce” alla fine non fosse un semplice sgorbio...».
Ma lei a quell’epoca aveva solo undici anni. Capisco il libro per “fanciulli cristiani”, ma l’Imitazione di Cristo! Davvero l’apriva e la leggeva?
Sì, succedeva, eccome. Quel libro mi affascinò molto fin dall’inizio; poi negli anni ho capito sempre meglio il perché: il tema presente nella Imitazione, come ho scritto anche di recente, introducendone una riedizione (Àncora, 2018), è quello di un ascetismo molto forte, impegnativo, ma costantemente sostenuto da un afflato mistico, che punta sulla dimensione affettiva della pratica religiosa e che si riferisce al cuore, chiamandolo fortemente in causa. Non per niente si tratta del libro più letto e tradotto dopo i Vangeli, testo che Bossuet (1627-1704) considerava addirittura uno dei più grandi dell’umanità.
A quel tempo, a coglierne il senso, mi aiutava anche il clima di quel primo dopoguerra. Rientrando a Genova, avevamo infatti trovato una città che riportava assai vistosi i segni della distruzione, del degrado e del caos che era seguito a quel terribile secondo conflitto mondiale. Tutto ciò mi venne persuadendo che seguire Gesù doveva comportare una scelta radicale. L’ambiente era tale che, per dirla con Dante, «vidi che lì non s’acquietava il cuore». E fu così che presi la mia decisione.
Quale? Siamo curiosi di saperlo.
Quella, attuata con la tipica radicalità di un adolescente, di “lasciare il mondo”. Ero determinato a trovarmi un eremo sulle alture dell’entroterra genovese e vivere da eremita. Prima di partire alla ricerca del luogo in cui ritirarmi, alla vigilia, riaprii il famoso libro dei santi e rilessi le pagine che narravano della fuga di Benedetto. Ne rimasi rincuorato e mi confermai nel mio proposito. L’indomani mattina, di buon’ora e all’insaputa dei miei familiari – non dubitavo nella mia ingenuità che avrebbero compreso il mio gesto – uscii di casa e mi incamminai per un sentiero sconosciuto. Era il marzo del 1951. Avevo da poco compiuto 14 anni. Ricordo che, giunto a un bivio, trovai un’edicola della Madonna e mi misi nelle sue mani.
Il tempo si era fatto assai brutto, sentivo che di lì a poco avrebbe nevicato, per cui mi indirizzai verso uno dei Forti che cingono la città, il Forte Diamante, il più alto e panoramico e vi trovai rifugio. Un rifugio che sarebbe durato diversi giorni, data l’inclemenza della stagione. Avevo portato con me un libricino di preghiere e l’inseparabile Imitazione. E anche un pezzetto di formaggio, ma poco più di una crosta. Il freddo era intenso; le notti travagliate; dormivo su una pietra. Sognai di aggirarmi all’esterno della casa parrocchiale adiacente alla chiesa del Santissimo Sacramento, in via delle Ginestre, a un passo da casa, senza tuttavia potervi entrare. Un giorno sentii anche delle voci di giovani, che probabilmente erano venuti alla mia ricerca, ma non scesero nei sotterranei dove mi ero rifugiato per ripararmi e io me ne restai quatto e zitto.
Appena il tempo volse al meglio, scesi dal Forte e giunsi nei pressi di Sant’Olcese. A San Lorenzo di Casanova, in località Cadari. Bussai a una prima porta in cerca di qualcosa di caldo: ero rimasto praticamente all’addiaccio e a digiuno tutto quel tempo. Venni rimproverato e respinto. Mi si aprì una seconda porta e mi accolse amorevolmente una signora che, dopo avermi fatto riposare, decise di riportarmi a casa. Mi aveva infatti riconosciuto nel ragazzo di cui i giornali avevano parlato, tanto più che il babbo era persona nota in città. Su uno dei quotidiani, che i miei conservarono, Il Secolo XIX, si leggeva della «scomparsa veramente misteriosa» da parte di «un mite fanciullo misticamente esaltato [sic], profondamente religioso», che «denotava un’intelligenza non comune», deciso com’era di «isolarsi dal mondo».
Una vicenda che ha dell’incredibile. Mi scusi, ma come ha fatto a resistere, dove ha trovato la forza?
Effettivamente me lo chiedo anch’io ogni volta che ripenso a questo episodio, ormai tanto lontano nel tempo. La solitudine, le notti lunghe e fredde, il digiuno. Cose da mettere a disagio asceti di provata esperienza. E mi rispondo che quella Madonna, alla quale mi ero affidato lungo il cammino, avrà certamente interceduto per quel giovanissimo, sprovveduto, ingenuo ma sincero “cercatore di Dio”. Al quale, peraltro, il Signore stesso aveva già donato quella passione per la vita spirituale che poi caratterizzerà, lo dico con tutta l’umiltà possibile, la mia intera esistenza.
Tra l’altro, l’estate scorsa, curiosando nell’archivio della casa avita sul Lago Maggiore, ho trovato il fascicolo relativo a questa mia “fuga”: appunti domestici, corrispondenza, articoli di giornali. La cosa che mi ha colpito fino alla commozione è stata la bozza di una lettera che mio babbo aveva scritto, prima della mia ricomparsa, nell’intento di raggiungermi, attraverso un giornale assai interessato – come del resto tutti gli altri – all’evento. Ebbene, leggendola per la prima volta dopo tanti anni, mi ha molto toccato per l’amore e la tenerezza infiniti che vi trapelano, e ho pianto. Ma anche per il grande rispetto e comprensione per le motivazioni di quel mio gesto, che aveva certamente sorpreso e addolorato i miei genitori, i quali tuttavia, avevano cercato di capire: «Pur nell’amarissimo risveglio, quando invano ti chiamammo e ti cercammo, pur nello schianto senza nome, io e la mamma sentimmo subito che tu ci avevi lasciati per seguire la via del Signore». E poi ancora: «Abbi in noi piena fiducia per tutto quanto è in nostro potere di fare perché tu possa adempiere ai tuoi voti, qualunque essi siano [...]. Anche se la tua età è tanto tenera e tu sei ancora una creatura fragile, per affrontare da solo le durezze e le asprezze della vita». Quanta delicatezza. Non ho potuto fare a meno di ringraziare Dio di avermi fatto dono di questi genitori. Poi mi sono recato al cimitero e ho baciato la loro tomba.
1.2 - «E adesso che cosa vuoi fare?»
Che bello, gioisco con lei. Ma occorre tornare al momento in cui bussò a quella casa in cerca di aiuto. E poi che successe?
Di fronte alla determinazione di Esterina Guglielmetti – questo era il nome della mia soccorritrice – non opposi resistenza, stante anche il mio fisico visibilmente provato. Lasciammo la sua abitazione e dopo aver percorso, con estrema fatica, perché a stento mi reggevo in piedi, una lunga mulattiera (ma «facendo il segno della croce allo scoccare di ogni ora», come suggeriva l’Imitazione) giungemmo a casa. Fui accolto in silenzio, senza rimproveri, con grande commozione e affetto da parte di tutti; mia madre, però, che aveva retto fino a quel momento, al rivedermi, svenne. E poi, la mattina seguente, mi prese da parte e mi disse: «Adesso, figlio mio, ci dici che cosa vuoi fare?». Le risposi che volevo seguire il Signore e che avremmo pensato insieme alla via più opportuna.
Era il 10 marzo 1951. In quella stessa data, dodici anni dopo avrei celebrato la mia prima Messa a Roma, nella Cappella della Madonna della Divina Provvidenza, presso la chiesa di San Carlo a...