Santi in missione
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Francesco Saverio - Matteo Ricci - Pietro Claver - Damiano de Veuster - Daniele Comboni - Clemente Vismara - Francesca Saverio Cabrini - Paolina Visintainer - Annalena Tonelli - Teresa del Bambino Gesù«Dio Padre è innamorato del mondo che ha creato, e ha manifestato il suo Amore donandoci suo Figlio, nostro Bene e nostra Salvezza. In Lui gli uomini sono chiamati a diventare "una sola famiglia e un solo Popolo di Dio". Dove un qualsiasi cristiano si offre per essere uno strumento vivente ed essenziale di questo Amore, là accade la missione. L'esperienza dei santi missionari è, in maniera specifica, quella di coloro che vanno a impiantare la Chiesa, là dove essa quasi non esiste, ma nasce a ogni caritatevole battito del loro cuore, a ogni giudizio della loro intelligenza di fede e a ogni opera che esce dalle loro mani: una missione certa della vittoria del "grande Amore", sostenuta cioè da una indomabile speranza».

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Informazioni

Editore
Ares
Anno
2020
ISBN
9788881559466

San Daniele Comboni

(1831 - 1881)

«Nel cuore dell’Africa,

con l’Africa nel cuore»

1. Un nuovo santo contro la schiavitù
Lo hanno definito il «San Paolo del XIX secolo» e «il Saverio dell’Africa», ma Daniele Comboni, nelle sue lettere (ne ha lasciate molte centinaia), preferiva chiamarsi «lavapiatti dell’opera di Dio», «inutile fantaccino», «ciabattino peccatoraccio», «inetto pretuncolo».
Non era una falsa umiltà – e d’altra parte riceveva dai suoi oppositori titoli ben peggiori, corredati da sporche calunnie –: era la lieta ammissione, un po’ scanzonata, del fatto che percepiva anche lui, più degli altri, la sproporzione tra l’immensità dell’opera missionaria vagheggiata e le concrete possibilità che aveva di realizzarla.
Era tuttavia altrettanto convinto che quella fosse un’opera sognata da Gesù stesso, che la proteggeva nel suo ardente Cuore Divino.
A quei tempi, l’Africa era un continente oscuro, ancora da esplorare e soprattutto da occupare per potersi spartire le sue immense ricchezze – e dallo sfruttamento organizzato non era certo escluso il traffico degli schiavi –; anche se la rapace colonizzazione dell’Africa da parte dell’Europa sarà accuratamente programmata dalla conferenza di Berlino solo nel 1884 – dopo la morte di Comboni –, la spartizione era già in atto.
La Chiesa, invece, era preoccupata di promuoverne la civilizzazione e l’evangelizzazione, offrendo i necessari aiuti; ma si sentiva il bisogno di prendere posizioni più decise contro le discriminazioni razziali, anche nella compagine ecclesiale.
Era il 3 gennaio 1870 quando risuonarono a Roma, nell’aula del Concilio Vaticano I, queste parole: «Noi condanniamo in modo particolare la stolta opinione di coloro che non temono di asserire che i Negri non fanno parte della famiglia umana e che non sono dotati di anima umana».
Si discuteva il documento Sulla fede Cattolica, e un vescovo del sud degli Stati Uniti chiedeva che questa «condanna» fosse inserita nel testo in discussione, dato che in America circolavano ancora dei libri in cui si insegnava che i neri sono collocati su un gradino della natura a metà strada tra la bestia e l’uomo.
Prima di sorprenderci per un simile dibattito, e per comprendere quanto grave fosse la posta in gioco, dovremmo ricordare che nel Mein Kampf di Hitler – pubblicato quarant’anni dopo la morte di Comboni! – si affermerà ancora con violenza che: «È un peccato contro la ragione, perché è una follia criminale, ammaestrare un negro, un essere che è per la sua origine una mezza scimmia, pretendendo di farlo diventare un avvocato».
E quello era un testo che, secondo i nazisti, sarebbe dovuto diventare il nuovo Vangelo dell’Europa; nei loro testi ufficiali tale «scienza della razza» veniva considerata una scoperta pari solo alla rivoluzione copernicana, e si accusava la Chiesa cattolica perché, col suo «atteggiamento universalistico», insegnava «dottrine decrepite e invecchiate».
«La scienza della razza – spiegavano i propagandisti di allora – non è stata scoperta sui pulpiti della Chiesa, e quindi essa non è competente a giudicarne. Di dottrine universalistiche molta gente è morta. Ora sotto il segno dell’idea razzistica il grande processo del risveglio europeo si sta sviluppando» (Rosenberg, Discorso del 6 settembre 1938).
Si denunciava inoltre che «tra le grandi potenze che si oppongono irriducibilmente a una comunità di popoli bianchi accomunati dal sangue nordico c’è la Chiesa romana... Così facendo essa prende posizione contro l’Europa» (Nazionalsozialistische Monatshefte, novembre 1938).
Su questi temi, dunque, la Chiesa romana lottava già a metà del secolo XIX, mentre certi intellettuali tedeschi nella prima metà del sec. XX avrebbero ancora insistito sulla necessità di ristabilire nuovamente il concetto giuridico di schiavo, applicato non più solo agli individui, ma ai popoli; allora sarà Papa Pio XI a gridare: «Noi non vogliamo separare nulla nella famiglia umana... Gli uomini sono prima di tutto una grande unica famiglia di viventi (...) I figli di tutte le razze sono uomini, non belve o esseri qualsiasi, e la dignità umana consiste nel fatto che tutti fanno una sola famiglia: il genere umano. La Chiesa ci insegna a pensare, a sentire, a trattare la cosa in questo modo (...) È questa la sua risposta alle discussioni che oggi agitano il mondo (...) Tutti gli uomini sono oggetto dello stesso affetto materno; tutti sono chiamati alla stessa luce» (28 luglio 1938).
2. C’è un Padre per i neri?
Abbiamo voluto indugiare su questi ricordi del nostro recente passato per due motivi: anzitutto perché, a causa dei recenti fenomeni migratori, si osservano nuovi rigurgiti di razzismo e, in secondo luogo, per fare ancor più risaltare – in tanta tenebra – la luce di coscienza e l’ardimento del cuore con cui Daniele Comboni – già nel 1849, centosettant’anni fa – si sentì inviato ai popoli dell’Africa misteriosa e impenetrabile, che egli chiamava «il primo amore della mia giovinezza», per il quale si diceva pronto a dare la vita.
Molti oggi pensano che la Chiesa sia sempre in affannosa rincorsa della modernità e della civiltà, senza nemmeno sospettare che ella si è mossa con anticipo di centinaia e centinaia di anni, e con una generosità irraggiungibile – di idee, di uomini e di mezzi – su terreni che sono ancora ostici e incomprensibili ai padroni del mondo.
Daniele Comboni, già nel 1877, portava disegnato sul suo stemma episcopale l’intero continente africano, sormontato dai cuori di Gesù e di Maria, a indicare l’amore di cui egli voleva interamente avvolgerlo, e onorava la Vergine Santissima col dolce titolo di «Madre dei neri», rammaricandosi che alla corona di Lei mancasse ancora «la perla bruna».
Torniamo per ora a quel Concilio Vaticano I, dove il vescovo di Savannah (Georgia) chiedeva la difesa della «razza negra»; c’era un altro sacerdote, in quella stessa aula conciliare, che cercava in tutti i modi di far trattare la questione africana: era appunto Daniele Comboni, un missionario che, a tale scopo, si era fatto nominare dal vescovo di Verona suo teologo al Concilio.
Egli non si occupava tanto dei dibattiti in corso, anche se li seguiva con interesse, ma cercava il mezzo di convincere quella grande Assemblea a un clamoroso intervento a favore della evangelizzazione dell’Africa, il continente più trascurato.
Aveva scritto ai Padri conciliari una lettera, dove osservava che purtroppo nessun vescovo di colore era presente in quella assemblea e chiedeva con foga: «C’è qualcuno tra voi che faccia da Padre per i Neri, una voce che faccia da interprete per tanti figli di Cam? Ditelo voi, eccellentissimi Padri...!».
Finalmente era riuscito a convincere 70 vescovi a sottoscrivere una petizione a favore dell’evangelizzazione dell’Africa Centrale (Postulatum pro Nigris Africæ Centralis) e il Papa aveva concesso che il tema fosse iscritto nel calendario del Concilio, ma c’era stata poi la malaugurata presa di Roma e l’annessione al Regno di Italia, e l’assemblea dei vescovi era stata sospesa sine die; fu così che il sogno generoso di Comboni, di scuotere la Chiesa intera, restò affidato solo alle sue povere mani.
Questa è la strana vicenda che dobbiamo raccontare: la storia di un uomo che sembrò un sognatore e un visionario, ed era invece un profeta. Jean Guitton lo ha definito «uno di quegli uomini che riescono ad essere “contemporanei dell’avvenire”».
Le sue idee, i suoi progetti non sono stati del tutto realizzati neanche ai nostri tempi; eppure tutto ciò che si è mosso missionariamente, a favore dell’Africa, sembra che egli lo abbia anticipato, e molti dei suoi insegnamenti e progetti attendono ancora di essere presi in considerazione.
Ai suoi tempi i cristiani africani erano solo qualche migliaio, mentre oggi sono milioni, ma egli già intravedeva e progettava il risveglio di tutto il continente nero.
Comboni era certamente e duramente intenzionato a lottare contro ogni schiavitù ed ogni sfruttamento – lo vedremo tra breve –, ma era intenzionato anche a lottare contro una mentalità diffusa nella stessa Chiesa, che considerava gli africani come oggetto dell’evangelizzazione ma non come soggetto. Allora tutti i ben intenzionati cercavano in Europa preti, suore, insegnanti, educatori, maestri, artigiani, agricoltori, perfino famiglie-modello da mandare in Africa.
Comboni si proponeva, invece, di formare preti, suore, insegnanti, educatori, artigiani, agricoltori, e famiglie-modello, ma africani, ed era intenzionato a scuotere l’intera Europa per raggiungere il suo obiettivo, convinto che in caso contrario si sarebbe perpetuata nel continente nero un’ultima sudditanza, se non proprio schiavitù,.
Da questo punto di vista era già un precursore, ma doveva convincere gli europei a credere nell’Africa, e convincere gli africani a diventare protagonisti del proprio futuro.
Ripercorriamo dunque la biografia dell’uomo che si sentì chiamato a «consacrarsi all’Africa» fin dalla giovinezza.
3. «Io non vivo che per l’Africa»
Daniele Comboni nacque a Limone sul Garda nel 1831; terzo di otto figli, ma l’unico bambino che riuscì a sopravvivere.
Quando partì missionario, lasciò alla mamma il ricordo di una fotografia, e costei dirà con umile sofferenza che «di tanti figli gliene è rimasto solo uno di carta», ma oggi ha un figlio santo, che le fa compagnia in cielo ed è onorato in terra.
A dodici anni, poiché la famiglia era molto povera, ebbe la fortuna di essere accolto nel collegio per ragazzi non-abbienti, ma dotati, aperto a Verona da don Nicola Mazza, un celebre e santo educatore del tempo; e in quel collegio – in cui gli studi conducevano indistintamente o alle soglie dell’Università di Padova o ai corsi di Teologia del Seminario – si respirava a pieni polmoni l’entusiasmo missionario che il Papa stava infondendo nella Chiesa.
Le missioni erano state gravemente colpite, prima con la soppressione della Compagnia di Gesù, poi con la soppressione di molti Ordini religiosi, nelle varie nazioni. Sul finire del secolo XVIII i francesi che occupavano Roma avevano addirittura emanato un decreto di soppressione della Congregazione di Propaganda Fide, che si occupava tradizionalmente delle missioni cattoliche, badando però prima a saccheggiarne la biblioteca.
Tuttavia, Pio VII aveva ricostituito sia la Compagnia di Gesù sia Propaganda Fide, e da allora i problemi dell’evangelizzazione avevano ripreso a scuotere la coscienza dei cristiani, e rinasceva in particolare l’interesse per l’Africa.
Nel 1839 Gregorio XVI – un Papa che molti accusano a torto di chiusura – non solo aveva nuovamente condannato la schiavitù e lo schiavismo, definendolo «opera di gente vergognosamente accecata dalla brama di uno sporco guadagno»e i giornali italiani non ne fecero alcun cenno! –, ma aveva anche dato istruzioni perché i preti di ogni razza e nazione venissero preparati in modo da poter accedere a tutte le responsabilità e le dignità ecclesiali, anche all’episcopato, allo stesso modo dei bianchi.
Questo – come abbiamo prima ricordato – accadeva in un’epoca in cui molti pretendevano ancora negare ai neri perfino l’anima.
Nei collegi di don Mazza l’Africa era una vera passione, tanto che il fondatore veniva scherzosamente chiamato «Don Congo».
Si discuteva, anzi, in quegli anni di accogliere a Verona ragazze e ragazzi africani, riscattati dalla schiavitù, per formarli cristianamente con l’intento di rinviarli poi in patria come evangelizzatori dei propri fratelli nel matrimonio o nel sacerdozio.
Così venne fatto, a partire dal 1851, mentre alcuni sacerdoti dell’Istituto si preparavano a partire per la Nigrizia – come allora veniva chiamata.
Per favorire un tale progetto, don Mazza aveva addirittura immesso, nei programmi scolastici del suo collegio, non solo lo studio delle principali lingue europee, ma anche l’apprendimento dell’arabo.
Fu agli inizi del 1849 che anche Comboni «si consacrò all’Africa» con un voto personale che doveva innervare e sostenere tutta la sua vita.
Scriverà nel 1867: «Votato all’Africa da diciassette anni, io non vivo che per l’Africa e non respiro che per il suo bene», e dieci anni dopo insisterà: «Sono 27 anni e 62 giorni che ho giurato di morire per l’Africa centrale: ho attraversato le più grandi difficoltà, ho sopportato le fatiche più enormi, ho più volte visto la morte vicino a me e, malgrado tante privazioni e difficoltà, il Cuore di Gesù ha conservato nel mio spirito (...) la perseveranza, in modo che il nostro grido di guerra sarà fino alla fine: “O Nigrizia o morte!”».
Come si vede, egli contava addirittura i giorni di vita che lo legavano a tale irrevocabile decisione.
Nigrizia era il nome con cui gli atlanti di allora indicavano tutta la zona interna dell’Africa, praticamente sconosciuta, su cui si usavano disegnare solo dei leoni e qualche grosso fiume tracciato a caso; di quel continente, i bianchi conoscevano soltanto gli insediamenti sulle coste e alle due estremità – Algeria e Sudafrica –, dove il clima è più temperato e sopportabile. Il resto era avvolto da «un buio misterioso».
In seminario, dunque, Daniele si preparò accuratamente, unendo agli studi di teologia quelli sulla lingua araba, sui costumi di alcune tribù africane e su fondamentali nozioni di medicina.
Il 31 dicembre del 1854 venne ordinato sacerdote a Trento, nella cappella del palazzo vescovile, da mons. Giovanni Nepomuceno De Tschiderer, che Giovanni Paolo II ha proclamato beato nel 1995.
Prima che gli fosse possibile partire per l’Africa passarono quasi due anni, ma intanto ebbe modo di perfezionarsi nell’arte medica quando nel veronese scoppiò un’epidemia di colera che mieté centinaia di vittime.
Destinato al paese di Buttapietra, vi esercitò una tale generosa assistenza – da prete e da infermiere – che il commissario imperiale gli dedicò un solenne encomio, dichiarando che Comboni «ha dato tutto sé stesso a tutti». Fu un buon tirocinio.
Partì verso la fine del 1857, quando l’Istituto di don Mazza decise di collaborare alla missione africana inviando un gruppo di cinque preti – il più giovane dei quali era appunto don Daniele – accompagnati da un volontario laico, un fabbro friulano.
Poiché ad Alessandria d’Egitto c’era da fare una lunga sosta organizzativa, i missionari ne approfittarono per un pellegrinaggio in Terra Santa: allora il paese di Gesù lo si doveva percorrere a piedi o a cavallo, e non mancavano pericoli anche per la vita.
4. La gioia di poter cominciare dall’Origine
La lunghissima relazione sul suo pellegrinaggio, che Daniele scrisse ai genitori, è un racconto gustosissimo e ricco di colore, utile oggi per conoscere la situazione dei luoghi santi nel secolo scorso, sotto il dominio dei turchi, e le pie minuziose credenze dei pellegrini del tempo.
Ciò che soprattutto traspare da quelle pagine è la fede appassionata di uno che sa di «guardare con i propri occhi e toccare con le proprie mani» le reliquie storico-geografiche dell’Avvenimento che poi dovrà annunciare «fino agli estremi confini della terra»: egli infatti stava per spingersi là dove nessun cristiano era ancora giunto, e vibrava di commozione al pensiero di dover essere, per i suoi africani, il legame vivente con l’Origine; un’origine così santa e così familiare! Ai vecchi genitori scrive significativamente: «La grotta dove nacque Gesù Cristo per metà è larga come il corridoio dove abitate, e l’altra metà è come la vostra cucina... io baciai quasi tutta la grotta, né sapea distaccarmi...».
Dopo due settimane, potevano finalmente tornare ad Alessandria e inoltrarsi nel Sudan – dominio allora egiziano – verso la capitale Khartum, posta là dove il Nilo Azzurro confluisce col Nilo Bianco. Per raggiungerla dovettero risalire prima il Nilo Bianco, poi attraversare su cammelli il deserto della Nubia e infine procedere ancora in barca: un viaggio di due mesi e mezzo circa; ma Khartum doveva servire unicamente da base; infatti vi si fermò un solo missionario, mentre gli altri risalirono il Nilo Bianco per altri mille e seicento chilometri. Il tutto col rischio di essere scambiati dagli indigeni per una banda di negrieri e di essere trucidati; ma più forte del timore, era lo stupore: Daniele aveva l’impressione di contemplare la creazione quasi come era uscita dalle mani di Dio, anche se segnata dal peccato, certo, e i pericoli della navigazione e delle fiere erano lì a ricordarlo! Comunque la...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. San Francesco Saverio
  3. Padre Matteo Ricci
  4. San Pietro Claver
  5. San Damiano de Veuster
  6. San Daniele Comboni
  7. Beato Clemente Vismara
  8. Santa Francesca Saverio Cabrini
  9. Santa Paolina Visintainer
  10. Annalena Tonelli
  11. Santa Teresa del Bambino Gesù
  12. Indice