Strappata all'abisso. Dagli psicofarmaci alla fede
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Strappata all'abisso. Dagli psicofarmaci alla fede

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Strappata all'abisso. Dagli psicofarmaci alla fede

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Una ragazza di antica e solida famiglia lombarda, dopo una formazione culturale brillante e internazionale e dopo alcuni anni di insegnamento, si fa giornalista nei periodici patinati e alla moda della scintillante «Milano da bere». In quel turbinio di feste, sesso, intrighi, vanità, non si cura di vincoli etici, respinti come anacronistici «moralismi». Dietro questa facciata si nasconde però una tragedia: una depressione devastante che, due volte all'anno, l'atterra, implacabile, nella ricorrenza delle date che hanno straziato la sua prima giovinezza. Il suicidio, prima, del fratello maggiore, a venticinque anni, e, poi, dell'amatissimo padre, noto medico, malato di tumore.La depressione la trascina in un baratro sempre più oscuro, e per tre volte tenta di fuggire dalla vita. Un incubo, nascosto dietro una maschera mondana, tenuto per molti anni malamente a bada con farmaci tanto moderni quanto dannosi e inutili terapie psicologiche. Ma quando la discesa all'inferno sembra aver raggiunto il fondo, ecco irrompere il Mistero, e questa donna razionale, che ironizza sulle superstizioni soprattutto se religiose, è come presa di mira da una serie di eventi inspiegabili, impressionanti. Una Luce inattesa che porta con sé la liberazione del corpo e dell'anima. Un'avventura che ancor oggi continua, dove fede e ricerca psicologica si intrecciano, e che la protagonista racconta qui, senza nulla nascondere e nulla aggiungere. Per scrivere queste pagine ha vinto a fatica il riserbo naturale, il disagio di confessarsi in pubblico. Ma, dice, questo sacrificio era per lei il dovere di testimoniare a tanti sofferenti nel corpo, nella psiche, nell'anima che una resurrezione è possibile, che Qualcuno attende dietro l'angolo chiunque voglia afferrare la mano che gli è tesa.

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Informazioni

Editore
Ares
Anno
2016
ISBN
9788881556878
Terzo capitolo

IRROMPE LA LUCE

Un mistero dietro il mio ritiro?
In realtà, dietro la mia scelta di optare per una pensione per malattia, ci fu un evento misterioso che, per così dire subii, senza riuscire in quel momento a dargli un chiaro nome, senza riuscire allora a riconoscerne l’origine.
Ero in auto, seduta davanti, a destra del guidatore, un amico, al quale stavo sottoponendo l’eventualità del mio drastico abbandono della professione.
«Non farlo, Milly, non farlo!», mi stava dicendo con la forza e la passione della sua grande amicizia e stima per me. «Non puoi farlo. Sei una donna brillante e intelligente, il tuo lavoro è molto apprezzato. Se lo lasci, che farai mai della tua vita? Sei troppo giovane per fare la pensionata… Non è giusto, non è giusto! Hai la possibilità di metterti in malattia, quando non stai bene e di lavorare alacremente quanto stai bene. Hai fatto così finora, perché smettere? Non farlo, non farlo!».
Il suo ragionare era saggio e nasceva, lo sentivo, da un suo affetto autentico nei miei confronti. E, allora, perché? Perché questo suo dire si scontrava con un sentire più profondo che mi entrava dentro, come un sottile bianco lucore, che mi illuminava e al tempo stesso mi feriva?
Che penosa e gravosa contraddizione tra le sue parole, che risuonavano ragionevoli nella mia mente, e quella percezione acuta che con fermezza le contraddiceva, anche se non ne comprendevo fino in fondo il senso. Per qualche lungo istante mi dibattei dolorosamente in una sorta di trappola nella quale mi sentivo incastrata. Infine, un pensiero si materializzò con più chiarezza:
«Se continuo a rimanere aggrappata a questo mondo non guarirò mai! Continuerò a cadere in depressione! Ne devo uscire, devo rompere radicalmente! Di più, devo assolutamente ritrovare Dio…».
Così pensai, ma non parlai all’amico di questo pensiero che, mio malgrado e pur nella confusione che ancora regnava in me, mi aveva pacificato.
«Ti ringrazio per la tua premura», gli dissi, invece. «Ci penserò…». Nella mia mente era tornata a formularsi una domanda, questa:
«E se la depressione fosse una chiamata?».
E se fosse una chiamata?
Questa domanda – «E se fosse un chiamata»? – si era, infatti, già materializzata una prima volta nella mia mente. Era accaduto una sera, durante il mio ricovero a Cà Bianca. Due giorni dopo il mio ingresso in ospedale era venuto a trovarmi il mio, già citato, amico Giulio. Qualche anno prima, in realtà, mi aveva anche invitato a partecipare a degli incontri di lettura della Bibbia. Avevo frequentato quelle serate per un po’, ma poi mi ero stancata. La preziosa amicizia con lui era, però, continuata. Quel giorno, in ospedale, mi portò in dono un libro che raccoglieva alcuni Salmi biblici commentati.
Avevo accolto il regalo con un po’ di insofferenza, perché quella lettura mi sembrava l’ultima di cui potessi aver bisogno, visto che ciò che desideravo era un buon psicofarmaco risolutore. Tuttavia, poiché ormai sentivo di non aver nulla da perdere, avevo deciso di provare a leggerli.
Mi colpirono. Mi colpirono profondamente. In essi, ne ritrovai alcuni che sembravano un’ottima rappresentazione dei miei incubi, delle mie angosce, della mia depressione! Di contrasto, altri raccontavano la gioia e la bellezza di una vita felice possibile sul pianeta terra, se vissuta nell’amore di Dio.
Anch’io, come in un celebre salmo, mi sentivo in mezzo a leoni che divorano gli uomini, trafitta dai loro denti come lance e frecce, attraversata dalle loro lingue, come spade affilate. Anch’io, di contrasto, spasimavo all’idea di consolatori suoni celestiali ed ero sedotta dall’immagine delle aurore al risveglio...
Lessi e rilessi quei salmi e una sera, improvvisamente, mentre stavo per andare a dormire, quella domanda si formulò nella mia mente. «E se la depressione fosse una chiamata?».
Trattenni il fiato, attonita e sgomenta, di fronte a quell’ inverosimile interrogativo. Cercai di tendermi nel silenzio di un ascolto interiore, protesa a comprendere qualche cosa di più. Mi rispose, purtroppo e necessariamente, soltanto il doloroso e pungente caos che in quei giorni vorticava nella mia mente.
La vita è una lotta
Fu così che, non molto tempo dopo essere stata dimessa da Cà Bianca senza aver trovato la soluzione ai miei problemi, con il pianto nel cuore lasciai l’azienda e il lavoro che avevo amato con tutta me stessa e mi accinsi a un’altra fase della mia esistenza tribolata.
Mi sentivo isolata e compromessa come quel soldato faustiano così ben descritto dalle note del clarinetto e del violino della «pastorale» di Stravinskij. Sapevo che il mio agone non sarebbe stato più il mondo vissuto attraverso la vita di redazione di un giornale. La mia vita, per necessità, andava ricostruita su nuove strade, che ancora non conoscevo.
Per accingermi a questo mio ennesimo, nuovo cammino di ripresa dell’esistenza, nel perdurante confronto con le mie angosce, ritenni necessario trovare un altro terapeuta, come peraltro mi aveva detto di fare il vice-primario di Cà Bianca.
Avevo per forza bisogno di qualcuno che mi aiutasse a uscire dalla trincea della guerra nella quale mi trovavo in quel momento; che mi guidasse per rimettere ordine nella confusione della mia testa. Telefonai a una mia amica psicoanalista che mi indirizzò alla dottoressa S.M.
Come un soldato, mi affidai a questa nuova «esperta», nella quale riconobbi l’autorità di un buon generale. La divisa professionale rivestiva una donna di notevole spessore umano e capacità empatica e una terapeuta di singolari sensibilità e competenze, che lavorava secondo un percorso metodologico complesso e globale di tipo dialettico.
L’alleanza terapeutica che stabilii con lei fu cruciale. Con il suo sostegno, cominciai a ritrovare fiducia in me stessa. A poco a poco, pezzettino su pezzettino, mi sembrò di rimettere insieme i frantumi della mia mente.
Ripresi anche a scrivere, gratuitamente, per alcune note riviste che operavano nel campo del volontariato milanese e grazie agli articoli che mi furono commissionati iniziai a conoscere questo coraggioso e articolato mondo. Cominciai anche a frequentare un validissimo doposcuola, gestito da suore e da laici, per adolescenti con disagi psichici. Quali preziose conversazioni intrattenni con questi ragazzi e ragazze, mentre li aiutavo a comprendere le norme del diritto italiano oltre che i versi di grandi poeti della nostra italica letteratura! Nelle loro profonde ferite, si rispecchiavano le mie. Nel loro bisogno d’amore s’immergeva il mio.
E a proposito di immersioni, con obiettivo terapeutico, accettai anche l’invito di un amico che mi propose d’iscrivermi con lui a un corso di subacquea. La discesa nei misteriosi abissi del mare, una rappresentazione simbolica della vita, con i suoi pericoli e le sue meraviglie, mi sembrò un utile, coraggioso cimento per confrontarmi anche con le mie angosce. Per farlo, avrei dovuto apprendere quel dominio di me e delle mie ansie indispensabile per poter sprofondare nelle acque del mare.
Sostenuta dalla mia determinazione, ci riuscii. Conquistai, è il caso di dirlo, con forza e con coraggio, il brevetto di discesa fino ai 18 metri. Non solo, la subacquea mi appassionò. Come una bambina, m’incantavo nello scoprire le meraviglie di quel colorato e multiforme mondo animato che brulicava sott’acqua.
Tra l’altro, spinta dal bisogno che percepivo di recuperare la dimensione corporea, avevo iniziato anche a frequentare un corso di yoga. Memore delle mie letture junghiane, avevo optato per uno yoga spirituale, il kundalini yoga. Lo praticai per sei mesi, sotto la guida di un giovane che seguiva la scuola di un maestro asiatico, che egli aveva conosciuto e che frequentava stabilmente.
Così, decisi di studiare teologia
Un giorno, mentre ero in seduta nello studio della mia psicoterapeuta S.M., alle cui spalle svettavano varie piante grasse dai grossi fiori colorati, la misteriosa domanda si ripropose un’altra volta.
«E se fosse una chiamata?», le chiesi a bruciapelo.
«Non capisco, cosa vuoi dire... Che cosa intendi per “una chiamata”?», mi domandò a sua volta.
«Intendo la depressione... Se fosse una chiamata? Una chiamata a Dio...», insistetti, insicura e caparbia.
«Càspita, addirittura una chiamata a Dio. Beh, tutt’al più possiamo dire una chiamata alla ricerca di senso, questo certamente sì», replicò.
Da parte mia, non sapevo andare oltre quella domanda e, perciò, non replicai al suo commento, che mi riportava alle tante letture filosofiche accumulate nel corso degli anni.
Come negarlo, la ricerca di senso attraversa da sempre la storia dell’uomo e mi ero appassionata anch’io alle costruzioni intellettuali dei grandi pensatori della modernità, il cui elenco è vasto e articolato. Perché non mi bastavano? Perché in nessuna delle loro costruzioni intellettuali ero ancora riuscita a placare i miei tormenti?
Fu così che decisi di mettermi a studiare teologia.
Il ricordo dell’evento accaduto nell’auto del mio amico, la memoria di quel pensiero – «Devo ritrovare Dio!» – non mi aveva, infatti, mai abbandonata. Mi feci coraggio.
Dovevo discendere di più nel grande abisso dell’uomo, dovevo penetrare più a fondo il mistero della sua grandezza e della sua miseria, di quell’in apparenza insanabile conflitto tra la nobiltà del suo essere, della quale avevo percezione, e la terribile brutalità della condizione storica in cui si ritrova a vivere.
«Perché l’uomo desidera il bene eppure compie il male?», mi domandavo forte della mia stessa esperienza. «Perché tali e tante e continue frustrazioni al nostro bisogno di amore? Perché vogliamo amare e, invece, odiamo e siamo odiati? Perché ci sentiamo immortali e, invece, un giorno saremo sepolti nella terra e divorati dai vermi?».
Queste domande risuonavano con crescente forza nella mia mente e nel mio cuore. Mi fu chiaro che fosse giunto il tempo di capire un po’ di più di quella ricerca di senso che l’uomo da sempre ripone nella credenza dell’esistenza di un Essere superiore. Dovevo, altresì, capire anche di più del perché tanti altri la definiscono, invece, come pericolosa forma di superstizione e di alienazione.
La mia via privilegiata di conoscenza delle cose è sempre stata quella razionale. Pensai, perciò, che il solo modo che avevo per comprendere Dio fosse quello di studiarlo attraverso i libri che parlavano di Lui.
Come amavo ancora, oltre alla filosofia, la matematica e la geometria, due discipline che sempre mi avevano trasmesso il senso dell’infinito! E ancora amavo, come ai tempi del ginnasio e del liceo, lo studio della lingua greca e della lingua latina. Il costruire e decostruire secondo un ordine preciso la realtà attraverso i segni di quegli alfabeti, nell’illusione di poterla controllare e possedere.
«Attraverso il senso logico-razionale della mia mente, affronterò l’enigma di Dio», mi dissi con convinzione, nella ingenua presunzione di poterlo sciogliere.
Mi iscrissi, perciò, alla Facoltà di Teologia dell’Italia settentrionale di Milano, un tempio, aperto anche ai laici, del sapere scientifico su Dio istituito dalla Chiesa cattolica. Oggi mi ribadisco sorridendo che fu davvero una scelta ingenua. Non conoscevo neanche il catechismo, cioè la base, e volevo cominciare dalla sommità...
Dalla Chiesa cattolica a Lutero
Gli studi di quel primo anno di teologia mi appassionarono. Ero anche sempre più sorpresa da quel brulicare di persone, giovani e anziane, che nelle aule della facoltà cercavano altro di ciò che, oggi, comunemente si cerca. Feci amicizia con un giovane carmelitano, fresco di conversione nel suo lungo abito marrone, nei suoi sandali calzati sui piedi nudi. Assieme a lui, mi appassionai allo studio della lingua ebraica antica e con lui trascorsi molti pomeriggi, intenta allo studio e alla traduzione dei salmi che ci venivano assegnati per compito.
Che fatica! Non gli studi, no, ché studiare per me è sempre stata una faccenda semplice. Che fatica, piuttosto, ritrovarmi inaspettatamente in mezzo a quei sacerdoti e anche accanto a quel giovane frate, la cui simpatia e il cui ardore spirituale mi affascinavano e al tempo stesso mi sconcertavano...
Il mio anticattolicesimo, infatti, era ancora troppo radicato, era uno scoglio che non riuscivo a superare. Per troppi decenni mi ero abbeverata alla fonte aspra dell’anticlericalismo e dell’anticattolicesimo polemici, ed era difficile per me trattenere un brivido di fastidio quando incontravo una veste nera o un abito religioso…
«Se vedi un punto nero, spara a vista. O è un prete, o è un fascista», scattava ancora in automatico nella mia mente lo slogan che avevo sentito scandire tante volte nelle manifestazioni di piazza, quando studiavo all’università. Uno slogan violento che non avevo mai approvato, ma che aveva contribuito a creare in me una profonda diffidenza. Ora quei punti neri erano lì, materializzati in carne e ossa davanti ai miei occhi e mi ero imposta di dialogarci, visto che loro erano, secondo una tradizione due volte millenaria, gli eredi di quel Dio che si era voluto manifestare agli uomini, quel santo Bambino che, una volta cresciuto, aveva portato la rivoluzione nel mondo.
Lo studio del teologo protestante Karl Barth mi offrì un nuovo appiglio per questa diffidenza verso la Chiesa romana. Avrei continuato gli studi religiosi, sì, ma con i protestanti. Così feci e tutt’ora ricordo l’appassionante anno che passai sulle chiarissime dispense dei corsi per corrispondenza della Facoltà Teologica Valdese di Roma.
Abbandonato il mondo cattolico, cominciai, dunque, a frequentare quello dei protestanti delle Chiese storiche italiane. Spinta dalla sete di conoscenza della realtà concreta della vita religiosa, mi misi anche a frequentare alcune comunità evangeliche, tra i quali un gruppo che perseguiva una precisa missione: recuperare dalle strade della città tossicodipendenti e alcolisti, per aiutarli a rinascere nella loro comunità, attraverso la fede e lo studio della Scrittura. Questi fratelli e sorelle evangelici vivevano tra l’altro di sola provvidenza ed era davvero commovente constatare come gli abitanti del quartiere fossero loro d’aiuto nella loro utile missione. A iniziare dai ristoranti, che davano loro il cibo che, peraltro, sarebbe andato altrimenti buttato.
L’incursione della castità
Mentre proseguivo nei miei studi con la Facoltà valdese e nella perlustrazione delle realtà del mondo protestante milanese, accadde un evento che ricordo bene. Siamo nel dicembre del 2006, nell’aprile precedente avevo compiuto quarantanove anni, e il fatto accadde sei mesi prima dell’apparizione del piccolo Tau, di cui dovrò necessariamente parlare.
Frequentavo da qualche tempo un uomo, un divorziato, in quel momento libero e alla ricerca di una compagna. Il suo profondo affetto, le sue intelligenti conversazioni, i tanti interessi in comune mi erano, in quel momento, di grande conforto. Questo signore era un credente, un protestante contraddittorio e conflittuale, ma sinceramente e volenterosamente alla sequela di Cristo.
Un giorno, in modo del tutto inaspettato, mi chiese di accompagnarlo a visitare un luogo nel quale non era mai stato ma che in quel momento sentiva di voler vedere: la cripta del Duomo di Milano.
Gli risposi di sì, lo avrei accompagnato volentieri, visto che si trattava di un luogo anche a me sconosciuto. Visitammo, dunque, la cripta e anch’io, come lui, rimasi colpita nell’ammirare l’elegante coro iemale con le preziose colonne in marmo policromo e le decorazioni in stucco sulle volte. Per la prima volta in vita mia, mi ritrovai a osservare l’urna con le reliquie di santi martiri. Rimasi, poi, colpita dallo Scurolo, la colorata cappella dove è collocata l’urna di argento e ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. PREMESSA
  3. RADICI FORTI & FRAGILI
  4. VERSO IL BUIO PIÚ FITTO
  5. IRROMPE LA LUCE
  6. RITORNO AL QUOTIDIANO
  7. CONCLUSIONE