Come muoiono i santi
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Come muoiono i santi

100 racconti di risurrezione

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Come muoiono i santi

100 racconti di risurrezione

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«Ho raccontato la morte di molti santi, ma tutti mi hanno confermato la verità di questa antica intuizione cristiana: "Quando muore un santo è la morte che muore!"»Padre Antonio Sicari presenta un'impressionante «galleria» di santi «fotografati» negli ultimi istanti della loro vita. Per tutti loro la morte è la tenerezza di un abbraccio. È l'incontro con l'Amato lungamente inseguito. Conosciamo così la morte del mistico, del martire, dell'anziano logorato dagli anni come del giovane che ha imparato il segreto dell'amore nel giro di una vita breve ma irrepetibilmente intensa. Da qusti suggestivi «ritratti» l'autore aiuta a riscoprire la vita come un viaggio verso una felicità più grande, quella della Casa del Padre.

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Informazioni

Editore
Ares
Anno
2020
ISBN
9788881559558

Capitolo VI

Morire di fatiche apostoliche

Il titolo di questo capitolo – dedicato ai santi che furono sacerdoti e maestri nella fede – prende spunto dall’insegnamento che san Leopoldo Mandic dava ai suoi studenti di teologia, quand’era loro educatore, nei primi anni del suo ministero:
– Un sacerdote deve morire di fatiche apostoliche; non c’è altra morte degna di un sacerdote.
Consiglio che ripeté, tale e quale, ai confratelli cappuccini riuniti attorno a lui quando festeggiarono il suo cinquantesimo anniversario di sacerdozio:
– Permettano che un loro confratello anziano dica loro una parola: siamo nati per la fatica. Somma gioia poterci occupare. Domandate al Padrone Dio di morire di fatiche apostoliche.
Nei precedenti capitoli, abbiamo legato il tema della santità a quello della carità. Cosa necessaria perché, nel cristianesimo, la carità discende necessariamente dal cuore della rivelazione: «Dio è amore» e vuole che noi «restiamo nell’amore» (1 Gv 4, 16). La carità verso Dio e verso il prossimo è, perciò, la prima verità che dev’essere affermata e praticata.
Questo vale per tutti i santi, e quindi anche per i sacerdoti.
Ma la specialissima dedizione di questi ultimi al ministero della Parola (nello studio, nella predicazione e nella missione) ci ricorda che, se è necessaria la verità della carità, è ancor più necessaria la carità della verità: proprio quella di chi è tenuto a insegnare, comunicare e difendere la Verità che Dio ci ha rivelato, anzitutto su Sé stesso.
Sempre (e particolarmente in certe epoche), per difendere davvero la carità, bisogna anzitutto difendere la fede.
Nei primi secoli cristiani non fu la carità verso il prossimo a essere messa in pericolo, ma la fede nella rivelazione trinitaria: quella prima verità che ci permette di definire carità la natura stessa di Dio e l’amore sostanziale che mette le Persone Divine in relazione tra loro, e si protende fino a noi.
E lo stesso accade oggi, in molti luoghi e circostanze, quando si agita il vessillo della carità, per nascondere l’aggressione alla verità.
Dei santi che sono morti di fatiche apostoliche non possiamo certo dimenticare l’immensa e coraggiosa carità con cui hanno speso la loro esistenza nell’esercizio del ministero sacerdotale, ma vogliamo sottolineare soprattutto la carità della loro intelligenza, con cui hanno saputo difendere e comunicare la fede.
* * *
È giusto, perciò, cominciare ricordando quel padre della Chiesa che difese strenuamente la fede trinitaria (e quindi la stessa carità) in un Occidente che l’imperatore Costanzo II stava costringendo a diventare ariano (a rinnegare cioè la divinità di Cristo).

Sant’Ilario di Poitiers

dottore e padre della Chiesa (c. 315-368)

Di famiglia benestante, si era convertito al cristianesimo da giovane, rinunciando «al dolce sensualismo dell’ozio e della ricchezza».
Eletto vescovo di Poitiers nell’anno 350, fu uno dei primi e dei più grandi dottori della Chiesa. Difese tenacemente, con la predicazione e gli scritti, la divinità del Figlio di Dio, contro quegli eretici (detti ariani, perché seguaci del prete alessandrino Ario) che Lo ritenevano una creatura come le altre, anche se la più perfetta e la prima in dignità. La situazione era grave perché l’imperatore Costanzo aveva abbracciato l’eresia e cercava di imporla a tutti i suoi sudditi con la forza.
Per questo Ilario dovette subire cinque anni di esilio in Asia Minore. Ne approfittò per imparare il greco e per studiare tutti i grandi padri e dottori della Chiesa d’Oriente. Quando poté rientrare in patria, vi tornò con il capolavoro che aveva composto: uno splendido trattato su La Trinità (il primo in lingua latina), che fu decisivo per i cristiani di Occidente. Gli eretici si presentavano come difensori dell’Unicità di Dio e le loro argomentazioni avevano qualcosa d’ingegnoso e di suggestivo: sostenevano che il divino doveva restare divino e l’umano doveva restare umano, altrimenti Dio perdeva in assolutezza e gloria.
Accettavano, perciò, quel Gesù-Uomo che veniva da parte di Dio a illuminare il nostro mondo, ma rifiutavano quel Gesù-Dio che veniva a rivelarci il mondo divino. Ilario, invece, difendeva con passione l’intera verità di Cristo: vero Figlio di Dio, venuto a rivelarci che la natura divina è tutta Amore, ma un amore «comunicativo», condiviso da tre Persone Divine (il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo) e misericordiosamente aperto per accogliere in comunione tutte le creature.
La più bella caratteristica del trattato di sant’Ilario sulla Trinità è che esso è tutto un dialogo con Dio: «In esso la riflessione si trasforma in preghiera e la preghiera ritorna riflessione».
Ilario riuscì a ricondurre l’Occidente alla vera fede, dialogando con tutti, ma lo fece unendo assieme fortezza e mansuetudine. Ritiratosi nella sua diocesi, poté poi dedicarsi ai suoi studi prediletti e alla composizione dei primi inni sacri di cui si abbia memoria in Occidente.
E fu con la coscienza gioiosa di immergersi finalmente nell’oceano del divino amore – di cui aveva tanto parlato – che Ilario concluse la sua vita nell’anno 368.
Si racconta che, al momento della sua morte, la sua stanza fu invasa da una luce così splendente che gli occhi non potevano sopportarla: un piccolo miracolo per ricordare ai presenti l’immensa luce che Ilario aveva donato alla Chiesa. Fu considerato e chiamato santo già in vita.

San Martino di Tours

vescovo (316-397)

Ricevette il battesimo da sant’Ilario di Poitiers. Nato in Ungheria, Martino aveva seguito le orme del padre, abbracciando la carriera militare, fino a far parte della guardia imperiale. Passò alla storia per il gesto compiuto nei riguardi di un mendicante che rabbrividiva di freddo: sguainò la sua spada, divise in due il bel mantello dell’uniforme e ne diede metà al povero. La notte gli apparve Gesù, ricoperto del suo mezzo mantello, che lo ringraziava riconoscente e lo presentava ai suoi angeli dicendo: «Questo è Martino che, pur non essendo ancora battezzato, mi ha rivestito col suo mantello». Finalmente il soldato aveva trovato il suo vero Signore! Abbandonò la vita militare e si recò a Poitiers, dove viveva Ilario (considerato uno degli uomini più dotti e santi del tempo), dal quale si fece istruire e battezzare. Poi Ilario divenne vescovo della città e Martino si costruì, in periferia, una cella di eremita, radunando alcuni discepoli attorno a sé. Era il primo «monastero» d’Occidente. Invitato con una scusa a recarsi nella vicina città di Tours, lo elessero vescovo. Accettò, ma continuò a vivere, assieme ad altri monaci, in un romitorio fatto di capanne, dedicandosi a un’opera infaticabile di evangelizzazione della popolazione rurale in Francia e vi diffuse numerosi centri monastici. Guidò la sua diocesi per ventisette anni. Morì, quasi ottantenne, a Candes, dove si era recato nel tentativo di riportare l’unità tra i preti del luogo, divisi in fazioni. Negli ultimi giorni, stremato dalle fatiche e dai patimenti, desiderava morire, ma la sua preghiera fu: «Signore, se sono ancora necessario al tuo popolo, non rifiuto di soffrire». I testimoni raccontarono che il volto di Martino rimase splendente anche dopo la morte, come avvolto da una luce di gloria. E che accanto al suo letto fu udito un coro di angeli cantare.
Fu uno dei santi più amati nel medioevo. Si calcola che nella sola Francia gli siano state dedicate più di quattromila chiese. Il re Clodoveo I lo proclamò «protettore del re dei Franchi e del popolo Franco».

Sant’Ambrogio

dottore e padre della Chiesa (c. 340-397)

Aveva scelto la carriera di magistrato – seguendo le orme del papà, prefetto romano della Gallia – e a trent’anni si trovava già a essere console di Milano, città che era allora capitale dell’impero. Così, in quel 7 dicembre dell’anno 374, in cui cattolici e ariani si contendevano il diritto di nominare il nuovo vescovo, toccava a lui garantire in città l’ordine pubblico, e impedire che scoppiassero tumulti. L’imprevedibile accadde quando egli parlò alla folla con tanto buon senso e autorevolezza, che si levò un grido: «Ambrogio Vescovo!». E pensare che era soltanto un catecumeno in attesa del battesimo! Cedette, quando comprese che quella era anche la volontà di Dio che lo voleva al suo servizio.
Cominciò distribuendo i suoi beni ai poveri e dedicandosi a uno studio sistematico della Sacra Scrittura. Imparò a predicare, divenendo uno dei più celebri oratori del suo tempo, capace di incantare perfino un intellettuale raffinato come Agostino di Tagaste, che si convertì grazie a lui. Da Ambrogio la Chiesa di Milano ricevette un’impronta che si conserva ancor oggi, anche nel campo liturgico e musicale. Mantenne stretti e buoni rapporti con l’imperatore, ma era capace di resistergli quand’era necessario, ricordando a tutti che «l’imperatore è dentro la Chiesa, non sopra la Chiesa». E quando seppe che Teodosio il Grande aveva ordinato una violenta e ingiusta repressione a Tessalonica, non temette di esigere dal sovrano una pubblica espiazione. Alla sua Chiesa lasciò un ricco tesoro di insegnamenti soprattutto nel campo della vita morale e sociale.
Passò gli ultimi anni della sua vita preoccupandosi come un padre, non solo della sua diocesi, ma anche delle Chiese vicine, dove lo chiamavano di solito per mettere pace. A Vercelli, dove si recò ormai febbricitante, dissero che «aveva rischiarato, come un raggio di sole, tutta la città». E aveva cominciato a scrivere un trattato su Il bene della morte, in cui esortava anzitutto sé stesso: «Affrettiamoci verso la Vita, cerchiamo Colui che vive!».
La sua agonia cominciò il Venerdì santo dell’anno 397. Nella sua Vita di Ambrogio il segretario e biografo Paolino raccontò: «[Negli ultimi giorni] aveva visto il Signore Gesù venire a lui e sorridergli... E proprio quando ci lasciò per volare al Signore, dalle ore cinque del pomeriggio fino all’ora in cui rese l’anima, pregò con le braccia aperte a forma di croce».
Erano le prime ore del Sabato santo. E alcuni giovani, che sfilarono davanti al corpo morto di Ambrogio, dissero di aver visto brillare una stella sulla sua fronte. Forse è solo una leggenda. Ma è bello quando i giovani si raccontano di aver visto splendere una stella sulla fronte del loro vescovo.

San Girolamo

dottore e padre della Chiesa (340-420)

Nacque a Stridone, in Dalmazia, da una famiglia cristiana. Inviato a Roma per completarvi gli studi, si appassionò ai classici pagani che studiò accanitamente, anche se non disdegnava la vita gaudente degli studenti di allora.
A diciannove anni era già a Treviri, nella Renania, dove risiedeva la corte imperiale, per cercarsi un posto degno delle sue capacità. Per fortuna trovò anche il tempo di approfondire meglio quella fede che aveva, fino ad allora, trascurato, anche se provava una certa ripugnanza per la brutta lingua latina in cui erano state tradotte le Sacre Scritture.
Viaggiò in Grecia e in Asia minore, ma la conversione decisiva avvenne durante una grave malattia. Sognò di essere ormai giunto al termine della vita e di dover subire il giudizio di Dio, ma, quando tentò di presentarsi al Sommo Giudice come cristiano, si sentì dire: «Tu non sei cristiano, ma ciceroniano!».
Guarì, nel corpo e nell’anima, e la Bibbia divenne il suo unico tesoro. Studiò l’ebraico per poter leggere i codici originari e, pian piano, divenne «l’uomo della Parola di Dio», profondamente colto e profondamente credente.
Aveva trentacinque anni quando papa Damaso, suo amico, gli propose di rivedere l’antica traduzione latina dei Vangeli, rintracciando tutti i più antichi manoscritti in lingua originale. Alla morte del Papa, per sfuggire all’aggressività dei suoi contestatori, si recò in Terra Santa e si stabilì a Betlemme, in una grotta vicina a quella della Natività. Qui tradusse pazientemente in latino tutti gli altri libri della Scrittura e realizzò così la Vulgata (testo biblico ufficiale in uso fino ai nostri giorni).
Morì in tarda età, sfinito dal lavoro, tanto che diceva di sentirsi come «un vecchio piccolo asino che non ce la fa più». Ma l’ultimo suo scritto (una lettera inviata da Betlemme al grande Agostino) fa percepire la gioia di chi sente avvicinarsi l’ora del riposo e freme dal desiderio di poter finalmente incontrare quel Cristo già lungamente cercato e invocato nei testi sacri.

Sant’Agostino d’Ippona

dottore e padre della Chiesa (354-430)

Nacque a Tagaste nel 354. Conobbe la fede cristiana fin dall’infanzia, ma non ricevette il battesimo. In gioventù si lasciò afferrare dagli aspetti umanistici del paganesimo. Si legò a una donna di bassa condizione con un amore appassionato e fedele, pur sapendo che (secondo le leggi del tempo) non avrebbe potuto sposarla. Si dedicò agli studi classici e riuscì a ottenere una cattedra di retorica a Milano. Vi incontrò sant’Ambrogio che lo affascinò per la bellezza con cui spiegava le Sacre Scritture.
Finalmente, nella notte di Pasqua del 387, ricevette il battesimo. Durante il ritorno in patria, a Ostia, prima che riuscissero a imbarcarsi, gli morì santamente la mamma Monica.
Giunto a Tagaste, si ritirò in un piccolo monastero di laici, per darsi alla meditazione approfondita delle Sacre Scritture. Da questo rifugio lo trasse il vescovo di Ippona, che volle a ogni costo consacrarlo sacerdote.
Nel 395 Agostino gli succedette nell’episcopato. Oltre alle sue celebri Confessioni, sono famosi i numerosi Trattati, in particolare quelli sul primato della grazia di Dio nell’opera della salvezza e quelli sulla ragionevolezza della fede. Diceva Agostino: «Devi capire per credere», ma anche: «Devi ...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Capitolo I. Morire martiri
  3. Capitolo II. Morire d’amore
  4. Capitolo III. Morire di passione ecclesiale
  5. Capitolo IV. Morire di carità materna
  6. Capitolo V. Morire di carità paterna
  7. Capitolo VI. Morire di fatiche apostoliche
  8. Capitolo VII. Morire innocenti
  9. Capitolo VIII. Morire santi
  10. Conclusione mariana
  11. Nota bibliografica
  12. Indice alfabetico
  13. Indice